Cultura e Società

Dopo l’amore

24/01/17

Recensione di  Rossella Valdrè

Regia di Joaquin Lafosse, Francia-Belgio, 2016, 100 min.

Non una parola, un gesto, un commento eccede in questo normale, normalissimo dramma borghese che pure, proprio dalla forza della normalità, trae la sua tensione e il suo universale. Il banale titolo italiano, come sempre (evito di ripeterlo per l’ennesima volta) sottrae il baricentro dell’interrogazione centrale di Lafosse (“Proprietà privata”del 2006 ne fu, infatti, il precedente): giocando in un fine doppiosenso, alla fine di un amore, l’economia di una coppia si gioca non solo e non più romanticamente sugli affetti e sui ricordi, ma sulle cose condivise, sulle proprietà, i beni, quei beni che spingono i coniugi a lottare anche per anni nelle aule dei tribunali. A volte, sorprendentemente, per piccole cose; ma non sorprende visto l’alto valore simbolico del denaro – che Freud ha sempre equiparato alle feci nella vita infantile, al potere, il dominio e i confini dell’Io – e che residua nella vita adulta rigurgitando con forza spesso violenta alla fine dei matrimoni.

In uno dei pochi film che, visto sul versante realistico, ha il coraggio di parlare di questo triste e prosaico aspetto del Dopo l’amore, vediamo due coniugi, Marie e Boris, dopo quindici anni di matrimonio, due bambine gemelle che amano entrambi, logorati dai litigi intorno soprattutto alla “casa”: a chi appartiene, a Boris, architetto fallito, che l’ha rimessa a posto, o a Marie, la benestante dei due, che l’ha comprata col denaro dei genitori? Boris non sa dove andare a vivere, intuiamo in lui uno di quei perdenti intelligenti che hanno iniziato mille attività creative senza terminarne nessuna, a carico della moglie (quadro familiare insolito in un Paese d’oltralpe), uno di quegli uomini che in genere le donne non stimano, mentre è ancora largamente, almeno alle nostre latitudini, accettato il contrario. “L’economia di coppia “ è così rovesciata: lei lavora, lui no, lei possiede, lui no: la modernità ha sconvolto i canoni su cui i matrimoni reggevano eternamente, tenendosi i loro sommessi disequilibri e, come dice la madre a Marie, al calo di desiderio si accettava di buon grado la sublimazione in amicizia. Il tema del desiderio è tuttavia, a me pare, solo sfiorato nel film: l’arringa si gioca tutta in interni, chiusi in uno spazio-casa che metaforicamente rappresenta lo spazio angusto sia della coppia che sono diventati sia delle loro menti, dove ciascuno reclama la sua parte, vuole riprendersi quello che è, quello che ha e che ha investito.

Questo il cuore tematico: cosa spetta a chi. L’intreccio tra il materiale e il simbolico è fine e costituisce la maglia di cui questo film semplice e complesso, attuale senza infingimenti, è intessuto.

A differenza della maggior parte delle numerose vicende del genere che il cinema oggi rappresenta, qui non vengono messi in luce altri particolari risentimenti o rancori, ma la coppia chiede all’altro la fattura del disamore: ti ho dato tot, lo rivoglio.

Non mancano scene di tenerezza; la struggente scena del ballo (il tutto è acuito dall’essere sempre in un interno) tra tutti e quattro, loro e le bambine, l’abbraccio che lascia trapelare un bene profondo che non ha saputo evolvere in crescite diverse, poiché né l’amore né i migliori intenti sembrano oggi più sufficienti a cementare l’economia quasi impossibile della coppia contemporanea. Perché “Dopo l’amore”è un film intimista e squisitamente contemporaneo: la differenza sociale a favore della donna, lo scacco maschile persino penoso in certi momenti (unico uomo, Boris, in un mondo tutto femminile), l’inaccettabilità, messa in bocca alla madre, alle fatiche e ai fallimenti in un’epoca che vede nel matrimonio la sede delle realizzazioni, faccendone un investimento facilmente idealizzato e sovrastimato, il valore sempre più stringente dato alle proprietà che, da apparente e condivisibile aspetto modernista e garantista (patti prematrimoniali ecc…), hanno un non so che di arcaico, se visto in luce psicoanalitica ancora da definirsi con cura, un non so che di quegli aspetti regressivi che Racamier vedeva nel denaro come legante, ad esempio, tra genitori e figli che non si lasceranno mai.

Finale coerente con la storia poiché i due si vogliono comunque bene, non siamo nel terreno di una coppia che vive di odio, e dunque si evolve verso una soluzione di compromesso.

Ma, sopratuttto, è l’unica scena all’aperto del film, brevissima, un tavolino di bar li vede leggermente imbarazzati salutarsi, il consueto ti-trovo-bene-anche-tu.

Fiale non banale e non scontato, se non all’apparenza, l’economia di coppia si chiude con un bilancio sempre doloroso ma aperto; usciti dalla trappola della casa, che non è più nido ma solo prigione, esiste un mondo intorno, che barricati nelle loro quattro mura non avrebbero visto. Dopo l’amore ci può essere un altro orizzonte, giocato su “altre” economie, se crediamo, come io credo, al recente scomparso Baumann quando scriveva che

“Il fallimento di una relazione è sempre un fallimento di comunicazione”

(Amori liquidi, 2008)

gennaio 2017

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