Cultura e Società

Going Clear: Scientology. La prigione della Fede

30/06/15

di  Alex Gibney, USA, 2015, 120 min

commento di Rossella Valdrè

“Le folle non hanno mai provato il desiderio della verità. Chiedono solo illusioni, delle quali non possono fare a meno. Danno sempre la preferenza al surreale rispetto al reale; l’irreale agisce su di esse con la stessa forza che il reale. Hanno un’evidente tendenza a non distinguere l’uno dall’altro.”

                                                               (S. Freud, Psicologie delle masse e analisi dell’Io, 1921)

Numerosi per lo psicoanalista – e non solo – i motivi d’interesse dell’eccellente documentario di Alex Gibney, selezionato dal Sundance Festival nel 2015 e prodotto in collaborazione con l’HBO, il regista Paul Haggins (premio Oscar nel 2006 per Crash) e tratto dal libro di Lawrence Write, Going Clear – Scientology, Hollywood and Prison of Belief, pubblicato nel 2013 e nel quale Write, mosso dal desiderio di capire “cosa accade nella mente delle persone”, proprio a partire dall’intervista ad Haggins produsse la sua ricchissima inchiesta su Scientology.

Se per lo spettatore italiano (unico Paese in cui, forse in virtù della presenza del Vaticano, il fenomeno non ha attecchito) Scientology non è che una delle tante cosiddette “chiese” americane, bizzarri fenomeni in fondo innocui e folcloristici inventati da un leader carismatico in un Paese in cui ogni eccesso e il suo contrario sono possibili, alla scoperta di documento ci si deve ricredere.

Con grande accuratezza e stile incisivo e incalzante, partendo dai racconti e dalle ricostruzioni di otto “fuorusciti” da Scientology decisi a denunciare i meandri, i meccanismi e i veri e propri crimini e la perversità del movimento tra cui lo stesso regista Paul Haggins, il regista ricostruisce la storia del movimento dalle sue origini, la sua crescita esponenziale negli Stati Uniti ma anche in molti altri Paesi, le battaglie legali, le storie personali e la follia collettiva. Quello che ne è emerge è lo sconcertante affresco di uno spaccato di mondo contemporaneo che intreccia ed incastra perfettamente differenti livelli: la psicologia profonda delle persone, l’avidità di denaro, il mondo dello spettacolo, la truffa e l’illusione, la follia individuale e collettiva, in quello che potremmo chiamare un enorme gruppo in assunto di base di dipendenza bioniano.

Dipendenza da cosa, da chi? Da The Prison of Belief, la prigione della fede. Fede che qui è credenza cieca, affidamento puro nelle mani di un leader e poi del suo successore in un sistema verticistico e fortemente gerarchico tutto umano, dove non si fa rimando ad alcuna divinità celeste, ad alcun testo sacro che non siano le parole dello stesso leader, il Capo assoluto. Le citate parole di Freud del 1921, e di tutti gli studi che ne seguirono, quando prendendo spunto dal testo di Gustave Le Bon, Psicologie delle folle, cominciò a riflettere sui meccanismi inconsci della psicologia collettiva e ne scoprì l’intima vicinanza con le scoperte psicoanalitiche ai processi individuali, restano il pilastro irrinunciabile alla base di ogni fenomeno, ricorrente nella Storia, di fenomeni quali Scientology:

“Nel capo del gruppo s’incarna sempre il padre tanto temuto, il gruppo vuole essere dominato da una potenza illimitata, è estremamente avido di autorità ha sete di sottomissione. Il padre primitivo rappresenta, dopo aver preso il posto dell’ideale dell’Io, l’ideale della massa che domina l’individuo.”

Il Capo è innanzitutto il fondatore, Ron Hubbard, visionario e iperprolifico autore di mediocri racconti di fantascienza nato nel 1930, sedicente eroe di guerra che in realtà non commise nessuna delle imprese eroiche di cui si vantava, dotato di una fervidissima e maniacale fantasia che andrà a sfociare nella menzogna e nella pseudologia fantastica, mitomane carismatico in cerca affannata di un ruolo nel mondo, di denaro e fama ma non disgiunta, almeno all’inizio, di una sua visione, di una bislacca Veltenshauung del mondo: un mondo che vorrebbe “libero dal Male, ordinato, pulito”. Dedicatosi anima e corpo a questo suo credo a prima vista innocente e liberatorio, inizia facilmente a raccogliere adepti intorno a sé, sempre più numerosi, che con le loro intere famiglie lo seguono e divengono disposti a tutto pur di far parte di quella “chiesa” a cui Hubbard darà il nome di Scientology. In un misto, come è tipico in queste complesse personalità, di follia e lucidità, Hubbard ha ben chiaro fin dall’inizio che “l’unico modo per fare tanti soldi è avere una religione”, poiché le religioni, ovviamente no-profit, sono esenti dalle tasse dello Stato. Inseguito dal fisco per il resto della vita, Hubbard e gli iniziali adepti migrano per mare, di porto in porto, diffondendo il loro credo e crescendo in maniera esponenziale di numero nonostante le difficoltà, le fatiche, i lavori pesanti cui sono sottoposti i seguaci, gli innumerevoli scientologist. Entrare a far parte della “chiesa” diventa, per i molti individui in cerca di appartenenza, di identità, di ragioni per vivere, di spogliarsi del loro Sé per identificarsi completamente col leader onnipotente, l’obiettivo cui sono disposti a sacrificare tutto: i legami amicali e familiari (se ritenuti oppositori alla “chiesa”), grosse cifre in denaro, la loro dignità e il loro stesso Sé.

Il sistema elaborato dalla mente sempre più psicotica di Hubbard è complesso, e ampiamente documentato dalle parole e dai moltissimi reperti e documenti portati alla luce dagli ex-scientologist: una piramide gerarchica dove l’individuo, una volta entrato, ne resta intrappolato. La prigione della fede si basa soprattutto su incalzanti “sedute” individuali (dette “audizioni”) che mescolano la più rozza volgarizzazione di precetti psicoanalitici (la ricostruzione dei traumi, lavorare sui ricordi), alla suggestione ipnotica e alla propaganda, dove tutto viene trascritto e registrato al fine di controllare l’intera vita del soggetto e, se dovesse allontanarsi o denunciare, facilmente individuare un punto debole per cui ricattarlo.

Sempre più paranoico e violento, dalle parole della stessa moglie sottoposta ad ogni tipo di vessazione con le piccole figlie, temendo nemici ovunque, Hubbard muore nell’86 lasciando ormai nelle mani nell’avido successore, David Miscavige, un patrimonio umano ed economico estesissimo, seguaci bisognosi solo di perpetrare la loro sudditanza, e un fisco federale che tenta, infruttuosamente, di incastrarli.

Sarebbe tuttavia riduttivo definire Hubbard un banale truffatore: in un intreccio perverso di avidità, paranoia e visionarietà, come dice uno degli intervistati, in Scientology, la sua folle creatura, “egli cercò un metodo di autocura”. Ostile alla psicoanalisi, chiederà cure psichiatriche alla fine della vita al sistema sanitario dei reduci di guerra (sentendosi tale, nel suo vissuto soggettivo) che gli vengono negate.

Nelle mani del successore, sparisce completamente il pur labile e psicopatologico elemento di visionarietà e idealità del primo Hubbard, per trasformarsi in una sorta di associazione a delinquere e impero economico, da un lato, e di regime carcerario che ricorda ogni mondo concentrazionario, dall’altro. Non mancano punizioni e umiliazioni a chi trasgredisce, uso sempre più massiccio delle “audizioni” per il controllo delle menti, ma abilmente compensate, dall’altro lato, dalla sicurezza fornita dal senso di appartenenza, gli aiuti e le protezioni ricevute, il fascino di una “fede” arcaica e scissionale dove tutto il Male sta fuori e il Bene dentro.Dove l’individuo delega ogni responsabilità personale, ogni fatica del pensiero e del vivere, ogni dubbio è eliminato a favore delle certezze, a quel padre onnipotente che è il Capo, a dispetto di ogni esame di realtà.

Non si pensi che gli adepti fossero sprovveduti o individui emarginati e ingenui: Scientology è nota, infatti, al grande pubblico per la forte aderenza di alcune star del cinema, primi fra tutti John Travolta e Tom Cruise (il cui silenzio, rifiutando di farsi intervistare, appare inquietante). Strettissimo è, infatti, l’intreccio con il mondo dello spettacolo, di cui Scientology decide non poter fare a meno: attraverso questi testimonial amati dalle masse che li eleggono ad ideali, e garantendo loro ogni vizio e protezione, la “chiesa” si presenta con la sua facciata hollywoodiana di ricchezza, fama, successo, autorealizzazione. Non a caso, la prima e principale sede è fondata a Los Angeles, nel cuore della Mecca dello spettacolo. Benché ai divi venga riservato un trattamento di favore, ovviamente depurato di ogni aspetto vessatorio e umiliante, tutti possono aspirare al raggiungimento del fine ultimo.

Perché, infatti, il titolo di Going clear?

Nella scala gerarchica cui l’adepto si sottopone, “Clear” rappresenta l’ultimo, ambito stadio, la meta. Il raggiungimento ultimo che Scientology promette ai suoi membri: l’autorealizzazione, la piena coscienza, la liberazione del Sé.

Al di là degli aspetti legali, della doverosa denuncia che molti ex adepti stanno portando avanti, anche tramite questo prezioso documentario, il nostro interesse non può non soffermarsi sull’eternità del bisogno umano di aggregarsi, barattando la propria libertà con un po’ di illusionale sicurezza, mettendo se stessi al servizio di quella gruppalità sempre “psicotica”, sempre scollegata dal reale, che a cavallo delle due guerre Freud elaborò nel 1921: delle tipologie di gruppo che aveva individuato, certamente Scientology rientra non nel gruppo occasionale ma in quello strutturato, destinato a durare come la Chiesa e l’Esercito.

Quali saranno, infatti, i destini legali dell’associazione non è dato sapere, ma appare certo che non sarà smantellando o indebolendo la singola “chiesa” che questo bisogno umano, così incredibilmente profondo e radicato, che sempre si ripete nella Storia (e con ricadute, anche attuali, ben più pericolose di Scientology), dobbiamo riconoscere non sarà debellato.Tutti i tiranni si assomigliano, così come tutti i seguaci si assomigliano: se lucido e consapevole preso individualmente, nel gruppo, nel branco, il soggetto perde le caratteristiche individuali, per fonderle con quelle di innumerevoli altri, e proiettarle nel leader.

Migliaia di individui, pur sensibili e intelligenti, collocano e affidano parti di sé che diversamente temono sarebbero smarrite, alla mercé del caos della vita, nella promessa di un gruppo ideale e idealizzato, totemico, che li preservi e li instradi, li protegga e li aiuti a fornire senso e contenimento ad un’esistenza avvertita, profondamente, come insostenibile. Possiamo ritenere che, tra vessazioni, persecuzioni e ricatti, se taluni come gli intervistati sono riusciti a svegliarsi dall’oppio della setta e farsi portavoce della verità. possiamo ritenere che per altri, più fragili, Scientology rappresenti pur sempre un contenitore, un rimedio che, pur limitando la libertà, evita forse crolli dissociativi, smarrimenti insostenibili per l’Io, derive depressive.

Come per il fondatore, un metodo di “autocura”.

Non ci sorprende, anche se occorre non smettere di interrogarsi, l’ennesima visione sulla profondità e irriducibilità di questo profondo bisogno umano, sia dal versante del leader sia dei follower: specchio l’uno dell’altro, entrambe sono figure che la storia dell’umanità non smette di riproporre.Ovunque, può facilmente crearsi dalla mente narcisiticamente frustrata di un individuo, un mondo concentrazionario che non solleva la ribellione che ci si aspetterebbe: il bisogno si sottomissione, come scrive Houllebecq, è dunque “il più profondo dei bisogni umani”?

Molti, quindi, i motivi d’interesse di questo affascinante documento, l’avventura rocambolesca di un uomo e poi di un gruppo che si estende a macchia di leopardo, attira consensi e critiche, mescola affarismo, illegalità, spettacolo, marketing ma, ripetiamolo, non esisterebbe se non avesse alla base l’inconscio bisogno di appartenenza, sicurezza, illusione. Non esisterebbe senza il vero potere fondante: quello delle “audizioni”, le audition. E’ lì, in questa sorta di seduta registrata, che il soggetto si mette infantilmente in mano all’altro, e firma simbolicamente il contratto essenziale: rinunciare alla libertà in cambio di sicurezza.

Niente di nuovo sotto il sole, se già Dostoevskij aveva visto nella possibilità di essere libero, uno dei più grandi terrori dell’uomo.

Non vi è niente di più antipsicoanalitico; eppure, credo che proprio su questi fenomeni, proprio perché così lontani dal nostro statuto di ricerca della verità, occorra porre la dovuta attenzione. Il cinema ci aiuta. L’opera di Gibney non è pura inchiesta, secca narrazione dei fatti: lo si segue come una sorta di thriller allucinato, incalzante e ricco di umanità, la macchina da presa rivolta incessantemente al racconto, al valore della testimonianza, attraverso persone che sembrano reduci, oggi consapevoli, di una loro personale battaglia. E’ la parola, ancora, la narrazione proteggerci dalle derive dell’azione.

“Il vero boia è la massa. […] La condanna capitale che, inflitta in nome del diritto, suona astratta e irreale, diventa vera quando è eseguita dinnanzi alla moltitudine.”

 (Elias Canetti, Massa e potere)

giugno 2015 

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