Cultura e Società

I quattrocento colpi

10/03/10

 

François Truffaut, Francia, 1959

 

 

 

Commento di Paola Catarci

 
 

Questo film è stato il primo lungometraggio di Truffaut, e probabilmente uno dei suoi film più apertamente autobiografici.
Io l’ho trovato una rappresentazione estremamente vivida, nostalgica e struggente del momento di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza propriamente detta.

 
 
 

Infanzia quanto mai deprivata, quella di Truffaut, nato figlio illegittimo di una donna molto giovane (oggi diremmo una tarda adolescente!) François non verrà mai riconosciuto dal padre naturale, bensì adottato dal nuovo compagno della madre, ai due anni di età.
Vivrà alternativamente con le due nonne fino ai 10 anni, e solo tra i 10 ed i 14 vivrà con entrambi i genitori.
Le vicende di Antoine, il protagonista del film, sembrano quindi adombrare in gran parte quelle del regista.
Ma se l’autobiografia, l’autonarrazione, è un dato incontrovertibile all’ origine, alla fonte della creazione di Truffaut, l’aspetto più interessante per noi sarà altrove, nelle possibilità comunicative, esplorative dei movimenti inconsci che sottendono tutta la trama e lo svolgersi del film.

 

Ecco allora che, nel recensire i 400 colpi, varie tematiche emergono con forza. Intanto, per entrare nel vivo: perché questo titolo? E’ un’espressione idiomatica, traducibile col nostro: fare il diavolo a quattro. Questo titolo ci proporrebbe quindi un protagonista attivamente ribelle ed irrequieto – un adolescente difficile – potremmo dire. Di fatto, il film ci mostra un punto di vista quasi opposto, con un ragazzo battuto, colpito – davvero 400 colpi ricevuti –  dall’incomprensione, dall’incoerenza, dal meschino egoismo e dall’incapacità di capire da parte del mondo degli adulti che lo circondano.

 

La madre ed il patrigno in primo piano, ma anche gli istitutori, i poliziotti e via dicendo. E viceversa troviamo coerenza, fiducia, energia dalla parte del protagonista. Nel descrivere il flusso di eventi che lo porteranno fino al riformatorio, il film assume una valenza paradigmatica del senso più complessivo della fase adolescenziale: l’adolescente spinto dal passato infantile mentre si prepara al futuro, in questa condizione funambolica, punteggiata da cadute più o meno rovinose, tesse e disfa la rete della costruzione della sua identità soggettiva.

 

Antoine, come tanti nostri pazienti primo adolescenti, è nella estrema difficoltà della costruzione di questa identità: potremmo leggere le sue vicende come una sorta di esemplificazione clinica del lavoro di Winnicott sulla devianza, sul comportamento antisociale.

 

Winnicott definisce il furto – ed il comportamento antisociale in genere – come un gesto di speranza da parte del soggetto che pensa di essere stato privato dell’amore e delle cure di cui aveva pienamente diritto.

 

“Il bambino che ruba un oggetto non cerca l’oggetto rubato, ma cerca la madre sulla quale ha dei diritti” ( Winnicott, 1956, p. 369)

 

In tal senso il furto e la delinquenza rappresentano comportamenti positivi e terapeutici. Invece di rinunciare, il ragazzo chiede riparazione: tenta, rubando, di evitare di ritirarsi dal reale e cerca di ritrovare uno spazio transizionale.

 

C’è una scena dove tutto questo è rappresentato:

 

Antoine e René decidono di rubare la macchina da scrivere durante uno spettacolo di burattini al giardino del Lussemburgo. La loro conversazione si inserisce tra una serie di inquadrature in cui si vedono dei bambini molto più piccoli, rapiti dalla magia della rappresentazione. La strana giustapposizione suggerisce il rapporto simbolico che unisce le due attività. Rubare rappresenta la volontà di ritrovare in maniera violenta e distruttiva l’ardente comunione con il reale generata dalle esperienze transizionali. Ma la natura regressiva del furto è indicata con precisione dallo scarto d’età tra i due adolescenti e i piccoli spettatori che li attorniano. In un periodo in cui le loro energie dovrebbero essere assorbite dalla scuola e dalle prime manifestazioni della creatività, Antoine e René sono costretti dal furto a regredire all’epoca in cui i bambini piccoli ascoltano a bocca aperta la storia di Cappuccetto Rosso.

 

Ancora, a proposito dell’uso degli oggetti transizionali potremmo citare la questione del tema su Balzac – e più in generale il rapporto con la scrittura di Antoine (la poesia che scrive quando è in castigo, le lettere che manda ai genitori). Il romanziere svolge chiaramente la funzione di oggetto transizionale per questo ragazzo, che organizza un culto intorno alla sua immagine, altarino e candela inclusi. Riguardo all’episodio del plagio, esso esprime la confusione tra interno ed esterno tipica dell’oggetto transizionale. Antoine crede realmente di aver creato il testo, mentre lo ha trovato.

 

Vale la pena di specificare  come in adolescenza sia più corretto parlare di fenomeni transizionali, perché si tende a pensare che l’esperienza con l’oggetto concreto receda in secondo piano, o quantomeno che rimanga confinata alla dimensione pulsionale, ed invece assumano più importanza esperienze culturali, creative, od anche l’assunzione di opinioni, ideologie, tutti elementi che consentono uno sperimentarsi in uno spazio segreto all’interno del Sé, ed attorno al quale il Sé può differenziarsi.

 

Su questo tema, alcuni anni fa Novelletto, Tabanelli e Bonaminio, scrissero un articolo sottolineando come la dimensione della segretezza sia una caratteristica precipua della prima adolescenza: la segretezza intesa nella sua funzione di nuova cornice e custode del sé. Correlavano segretezza e fenomeni transizionali. Parlare di transizionalità ci introduce al tema dello spazio intermedio, area di confine, di unione tra mondo interno e realtà esterna.

 

Mi sono chiesta se il rapporto con Parigi non stesse a testimoniare di questa funzione intermedia: l’uso della città, il girovagare, l’andare al cinema, fanno pensare ad una sorta di spazio psichico allargato – lo chiamerebbe Jeammet: recentemente, è uscito un numero della rivista Adolescence dedicato alla strada, vista come uno dei luoghi di vita dell’adolescente, luogo di esperienze, espressione del bisogno di sperimentare, ma anche luogo di fuga: luogo sociologico, ma anche luogo psicologico. Insomma la strada come luogo della ricerca della soggettivazione e dove il moto ribelle può esprimere un bisogno originale, ma a volte invece un disordine soggettivo nell’organizzazione dello spazio terzo.

 

Nel film è la città che sostiene ed offre riparo al ragazzo; ne protegge i giochi, lo nasconde, lo lava e lo nutre. La bella sequenza della notte di vagabondaggio mostra Antoine che ruba il latte e lo beve con aria furtiva. L’unica volta in cui lo si vedrà provare dolore e piangere sarà quando, portato via dal cellulare, si troverà separato da questo luogo così affettivamente investito. Incompreso nei suoi sforzi tesi a cogliere la realtà esteriore, non potrà ormai che imboccare la via della devianza.

 

Ma se fosse soltanto una storia di sconfitta e disperazione, forse il film non ci piacerebbe così tanto come ci piace,e con il successo che ha avuto. E’ che dietro la storia realista, se ne profila una più complessa ed ambigua: l’aspetto fantasmatico del film spazia in primo luogo sulla questione del rapporto con la figura materna ed il femminile tout court.

 

Il rapporto con la gelida e frustrante madre emerge in primo piano nel film. E’ una madre distante, ambigua, inaccessibile. Si rimane senza fiato, stupiti che Antoine non sia diventato un ragazzo autistico. Si rimane increduli di fronte alla durezza di questa donna, che riesce ad esprimere calore materno solo in modo strumentale, quando ha bisogno della complicità del figlio.

 

Mi sono chiesta se la risposta, istintiva, da processo primario: “Mia madre è morta”, che Antoine dà al maestro, all’indomani dell’averla sorpresa tra le braccia dell’amante, non possa essere vista come un brusco slegamento: “Ormai mia madre è morta per me” od anche: “Una madre così, preferisco pensarla morta”.

 

Queste due diverse notazioni implicano due diversi livelli di rapporto col materno: edipico e pre-edipico potremmo dire. O forse potremmo citare Peter Blos e ricordare la sua affermazione di come, in prima adolescenza, l’immagine della madre sia scissa: per un verso considerata come un oggetto di tipo pre-genitale, in collegamento con aspetti più arcaici, e dall’altro oggetto sessuale e sessuato.

 

In ogni caso la difficoltà, l’impossibilità direi di un rapporto libidico con un tale oggetto, spinge inesorabilmente Antoine verso una ricerca angosciosa, un tentativo reiterato di elaborazione di un trauma poco facilmente dicibile. E per trauma non intendo soltanto la realtà storica della sua nascita come illegittimo e quindi l’ambivalenza che può esserne derivata nel rapporto della madre con lui. Alludo piuttosto alla condizione quasi di parità tra lui e la madre, entrambi fraudolenti ed in una condizione del tempo che non è quella della maturità.

 

E’ questa condizione ad alimentare l’ambivalenza: proprio nel momento in cui cerca in uno sguardo la conferma della propria identità, Antoine trova in sua madre soltanto le manifestazioni di una femminilità aggressivamente indifferente, che lo sottopone all’influsso angoscioso del desiderio e della seduzione. Forse potremmo considerare come questa rappresentazione iperbolica del materno, e per estensione del femminile, sia l’espressione del tipico conflitto pre-adolescenziale del maschio: stretto tra la paura ed l’invidia della donna, teso ad evitare l’incontro col femminile, che per lui rappresenta precipuamente la donna castrante, la madre totipotente dell’infanzia.

 

Antoine – come tanti nostri pazienti primo adolescenti – oscilla tra la fuga da questa madre onnipotente e la ricerca nostalgica e fusionale di una relazione libidica con lei. Tra l’altro ad Antoine manca un padre, col quale potersi identificare e far fronte alle spinte regressive incestuose: il patrigno è una sorta di bamboccio, che indietreggia di fronte all’evidenza del tradimento della moglie, e che non sostiene Antoine nei suoi bisogni. D’altronde anche il padre di René è incapace di porsi come tale.

 

Questo sberleffo, questa irrisione della figura maschile che dovrebbe portare ordine e separare è adombrata nella scena del maestro di ginnastica:

 

Nella scena precedente la signora D. tenta di riconquistare l’affetto del figlio – e di comprare la sua complicità, proponendogli un patto: se farà un bel compito gli regalerà dei soldi. Questo scambio carico di tensione tra madre e figlio è filmato in una serie di campi e controcampi molto ravvicinati che riflettono la fondata riserva dei due interlocutori. L’inquadratura successiva presenta bruscamente una scena di esterni in cui un professore di ginnastica conduce un gruppo di ragazzi per strada. Nel corso dell’esercizio a poco a poco, tutti si allontaneranno, piantando in asso l’istruttore. Il professore che viene messo in ridicolo con tanta spensieratezza allude all’autorità paterna beffata dal patto tra madre e figlio.

 

Presentata da un’angolazione normale, poi è ripresa dall’alto, con un insolito effetto, che le conferisce una sorta di dimensione mitica: sembra manifestare l’energia incontenibile dell’adolescenza e diventa l’allegoria della sua dispersione sui sentieri della vita.

 

Ma, per tornare alla questione della madre, come potrebbe funzionare il rapporto con una madre positiva lo vediamo nella scena con la psicologa.

 

Davanti alla macchina da presa, Antoine si rivela per la prima volta spontaneo, disteso e fiducioso con un adulto. Espone il suo caso con una straordinaria lucidità e lo documenta con rigore.

 

E tuttavia parla ad una voce senza corpo. Il fatto che la psicologa stia fuori del campo filmico conferisce alla scena una dimensione irreale che ne accentua il carattere nostalgico. Ci dice anche della capacità di Antoine di relazionarsi con una figura materna positiva, a patto che questa sia sconosciuta, idealizzata ed inaccessibile.

 

E’ innegabile comunque che tutto il film sia attraversato da ardente desiderio di fusione. Dalla scena iniziale, una sorta di tentativo di incorporazione della Tour Eiffel, a quella finale, entrata a buon diritto nella storia del cinema. La lunga carrellata che accompagna il ragazzo fino al limite della sabbia, ad incontrare il mare/madre lo porta a toccare il bagnasciuga. La prima volta che ho visto il film, io ho pensato da un epilogo tragico. La riva, corpo materno dove il bambino nasce e gioca (sulla riva di mondi infiniti i bambini giocano, ci hanno insegnato Tagore e Winnicott), non accoglie Antoine. Lui si ritira e lo sguardo, enigmatico, che chiude il film ci restituisce un ragazzo differente, cresciuto, io direi: invecchiato.

 

Con un effetto di rispecchiamento, credo che anche noi, spettatori, terapeuti, psicoanalisti, possiamo ritrovarci e sentirci invecchiati, ritrovare i segni che l’esperienza della cura ha lasciato in noi e ritrovarci a scegliere tra due possibili interpretazioni di quello sguardo: come la scoperta della fine della illusione e quindi il contatto col limite, con la scoperta della morte, questione effettivamente di pertinenza dell’adolescenza, ovvero come un’affermazione di libertà, di una possibilità di salvezza e quindi di speranza.

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

 

 

Blos P. (1980). L’adolescenza. Un’interpretazione psicoanalitica. Milano: Franco Angeli.

 

Novelletto A., Bonaminio V.,Tabanelli L. (1981). Segretezza, esperienze transizionali e transfert nella prima adolescenza, Neuropsichiatria Infantile,  240-241.

 

Winnicott D.W. (1956). La tendenza antisociale. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi.  Firenze: Martinelli, 1975.

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