Cultura e Società

Il cliente

6/02/17

Recensione di Giuseppe Riefolo

Regia di Asghar Farhadi , Iran, 2016, 124

Abitare una nuova casa

modi di avvicinare il trauma 

Una storia normale.

Il film da subito prova a segnalare che si occuperà della coazione inscritta nel trauma “mi dispiace professore per quello che le è successo ieri…”; “di cosa parli?””; “la signora del taxi che si è lamentata che lei la stava spingendo molto…che mi ha chiesto di andare nel sedile di avanti ed io che mi sono seduto dietro…”. “Tranquillo: sicuramente la signora deve essere stata palpata in passato da qualcuno in taxi e se uno le si stringe sul sedile pensa che la stia palpando! Dura per i primi 100 anni, poi si cambia!”. Questo è l’evento che tutti conoscono come trauma e che spesso i film – soprattutto quelli del passato – hanno descritto: un evento della realtà che rimane inelaborato dal soggetto (Io ti salverò,Bergman,1945; I misteri di un anima, Georg Wilhelm Pabst , 1926; Il corridoio della paura, Samuel Fuller, 1963;…) che si ripresenterà sempre come un blocco e lo spettatore si trova nella rassicurante posizione di sapere qual’é il trauma e di vedere puntualmente il nesso del blocco con l’evento che lo schermo propone.

La psicoanalisi è nata proprio dall’evidenza che un trauma, subìto anticamente nella tua vita, attende silenzioso come una ferita sanata con una cicatrice che persiste. Poi le necessità della vita ti costringono, per fortuna, a lasciare il palazzo tranquillo dove pensavi di vivere per sempre.  E’ proprio quando devi scappar via e metterti in salvo trovando situazioni nuove che viene a galla l’antica cicatrice che ti segnala che quel cambiamento tu non puoi farlo perché, anticamente, nella tua vita non è stato possibile trovare soluzioni nuove a quei bisogni. A suo tempo sei passato oltre, ma ora la tua impotenza di un tempo ti si pone davanti ogni volta che cerchi di andare oltre. Nel frattempo, le tesi psicologiche sul trauma si sono molto evolute e il trauma è diventato sempre più la punta di un iceberg. Il film che ho appena visto lo coglie. Il cambiamento, quando si annuncia, è eccitante: “Io e mia moglie siamo andati in un nuovo appartamento; finalmente la fortuna ci sorride”.  Ma c’è anche un altro tipo di trauma: Raana che si scontra con l’interruzione brusca della sua continuità perché qualcuno entra nel bagno mentre tu sei sotto la doccia ed avevi diritto che ad entrare fosse solo Emad. Questi traumi non rispettano la tua umanità e ti impediscono quella particolare funzione umana che è il sogno su tutto ciò che ti accade, ed allora: “Tom era tormentato dalla difficoltà di provare un affetto reale nei confronti della moglie” (Van der Kolk,  2014, 11). Il film descrive l’impossibilità del trauma evolutivo quando, il tuo percorso è violentemente inciso dall’assenza di una dimensione di tenerezza umana. Il film dice che, spesso, in questi casi, le soluzioni sono impossibili.

Ma il trauma viene perché il cambiamento, per fortuna ha un costo che cercherai di evitare. Infatti, già dal trasloco cominci a convivere con un fantasma che si è incistato in una stanza e non ti permette di usare tutto lo spazio: “la precedente inquilina ha lasciato la sua roba”; “Ma noi abbiamo veramente bisogno della stanza. Abbiamo portato le nostre cose… altrimenti….”. Il trauma non può esistere se non sei costretto a cambiare e l’evoluzione – persino la patologia del trauma che è quella della dissociazione dell’evento dalla coscienza o dagli affetti – è l’estremo tentativo di ridurre al minimo la necessità del cambiamento inderogabile.

Infatti: il palazzo in cui vivi e dove pensi avrai un figlio ti impone un trasloco forzato perché sta crollando: “cos’è successo?…Bisogna evacuare!”.

Il tono del cambiamento è l’impotenza e le note sono quelle di Arthur Miller che nessuno ha mai letto tranne Emad che porta a teatro il suo lavoro più importante.

Il trauma parte dalla necessità di dover accogliere per forza un nuovo registro che la realtà – a vari livelli – ti impone ma, nonostante ciò che si crede,  non riguarda i singoli eventi (quelli è  naturale che avvengano, per fortuna…), ma si inscrive nel campo relazionale che continuamente ti ospita e che coltivi perché  è in quel campo che sei diventato forte: “…non vuol dire che l’abuso infantile sia irrilevante, ma che la qualità dell’accudimento primario è intrinsecamente importante per la prevenzione dei disturbi mentali indipendenti da altri traumi” (Van der Kolk, 2014,141)

Il trauma riguarda il soggetto, ma lentamente contamina il luogo di tutti gli altri che appartengono al tuo luogo affettivo. Emad deve tornare a scuola per la lezione, ma Raana gli chiede di non andare: “Posso non andare oggi, e poi domani, ma poi un giorno dovrò pur tornare a scuola! Non posso rimanere sempre con te perché non vuoi più rimanere sola!”; “Allora verrò con te! Non riesco a rimanere sola… no.. no… vai… puoi andare!”. Emad è più bloccato di Raana perché lei è bloccata nella dissociazione, mentre lui conosce anche le altre zone oltre la dissociazione ed è bloccato, non dal trauma, ma dall’amore (e dalla colpa) che ha per lei! “ogni volta dici una cosa e poi subito dopo ti contraddici. Cosa devo fare? io non so più cosa fare!”. In queste situazioni si può pensare a soluzioni organizzate, ma ovviamente questo vale per i contesti di realtà, e vale molto poco per le dinamiche psicologiche. Emad vorrebbe andare alla polizia perché il suo pensiero è lineare e se c’è una offesa deve pur esserci nel mondo la possibilità di essere protetti. Ma la logica del trauma si innesca proprio laddove c’è il tuo diritto ad essere protetto e salvato. Raana, per quanto sia stata lei ad aprire la porta al cliente, ha diritto di sentire che possa sbagliare, ma non per questo dovrà essere violentata: “è difficile per me! è molto difficile!… io non vengo alla polizia perché non riuscirei a spiegare quello che è successo!”; “va bene, allora vieni, ti metti in un angolo e spiegherò io che cosa è successo!”. Lei lo guarda: Emad capisce  che non è quella la via per risolversi dal trauma: “Allora, che si fa? Devo conoscere la verità.. devo trovare quel bastardo”

Due possibili soluzioni…

Il trauma chiede soluzioni nuove, mai sperimentate prima, oppure una estenuante capacità ad essere evitato, ma questa fatica diventa sempre più enorme. Da un po’ di tempo gli analisti sanno che il trauma non si risolve scoprendone il conflitto che ne è alla base, ma disponendosi con il paziente in una fiduciosa attesa che, nel campo relazionale che li comprende, accada qualche evento di “collisione intersoggettiva”  che abbia al tempo stesso la funzione di evitamento dell’area traumatica e di occasione di cogliere un livello simbolico (dell’ordine psicologico e relazionale) che possa comprendere l’evento traumatico: “il lavoro con gli enactment comporta una collisione fra soggettività che chiamo ‘sopravvivere alla confusione'” (Bromberg, 2011, 83).  Cioè, a differenza di quello che ci piacerebbe credere,   il trauma non può essere compreso (in genere non è molto difficile vederne il percorso e le ragioni: è quello che sanno fare bene ad esempio i film che si occupano di psicoanalisi e ti spiegano le ragioni dei traumi…), ma  chiede di essere mobilizzato attraverso operazioni concrete che completino un processo sospeso poiché “il trauma non può essere rappresentato nella memoria in forma narrativa…” (Bromberg, 2006, 83) e organizza un deficit che chiede solo di essere completato. In questo senso il film sembra descrivere l’affannoso tentativo di risolvere il trauma secondo almeno due modalità che, solitamente sono le modalità  automatiche che le occasioni traumatiche attivano: la soluzione simmetrica, sostenuta da Emad e la soluzione di evitamento, di negazione o di razionalizzazione, sostenuta da Raana.  Qui il film mi ha fatto pensare. So bene che queste due soluzioni non risolvono nulla e, anzi portano giustificazioni difensive che ci fanno ulteriormente sostenere che “noi abbiamo fatto il possibile, ma la situazione è grave e senza soluzione!” Il film, infatti, finisce descrivendo il fallimento del processo che dovrebbe portarti in un luogo nuovo dove vivere diventando un insegnante migliore e un marito più appassionato e, finalmente, un padre. Nelle scene finali Raana non parla più con Emad che ora è completamente solo. Ognuno ha voluto risolvere l’esperienza traumatica solo secondo un proprio registro: l’altro avrebbe solo dovuto adeguarsi, ma questo non è accaduto e il film finisce con i due che non si parlano e, forse hanno persino perso i bei ricordi di quando si amavano e volevano avere insieme un luogo più ampio dove vivere. Ho pensato che il film descrive le situazioni in cui, a seguito di eventi traumatici (ma i traumi non sono solo i grandi eventi che sconvolgono la vita, ma piccoli eventi di non incontro mentale…quando con l’altro non ti scopri nella sua stessa direzione…), la distanza fra i soggetti in campo si incide sempre di più. Ho pensato che il trauma, alla fine, è l’assenza di un campo relazionale vivo che ospiti i soggetti che vi partecipano: non riguarda il soggetto, ma parte dall’assenza o dalla scarsità di tessuto connettivo in cui i soggetti dovrebbero continuamente bagnarsi. Infatti Emad e Raana – ciascuno dal proprio vertice – hanno buone ragioni per comportarsi nel loro modo: il problema (e il dolore) è che non si incontrano. Raana avverte Emad: “lascialo andare… ti avverto che se chiami la sua famiglia non mi vedrai più!”. Emad comprende le ragioni di Raana, ma non riesce ad incontrarla sul piano che lei gli offre. Emad riuscirà a non dire nulla alla famiglia, ma non potrà evitare di dare uno schiaffo terribile al vecchio. Ognuno va nella propria direzione. Emad vuole che si sveli il rimosso: “la moglie deve sapere che razza di uomo ha sposato!”; Raana intuisce che Emad ha una soluzione simmetrica: “tu stai cercando di vendicarti!”.  Ciascuno ha ragione, ma manca la funzione potente e trasformativa del campo relazionale che accolga le soluzioni individuali e le sani con la funzione viva dell’altro soggetto: “la Conoscenza Relazionale Implicita è costantemente aggiornata e ri-conosciuta attraverso le interazioni quotidiane (…) è un veicolo attraverso cui il passato è trasportato nel presente non si tratta di ‘comprendere’ ma di co-costruire attraverso mosse relazionali di improvvisazione… (Boston, 2010,  26 e 111, corsivo aggiunto)

…anzi: tre!

Raana, con molta fatica, riesce a portare a casa sua  il nipote e per lui e per Emad  “cucina i maccheroni” che sono buoni e finalmente, in quel luogo dove tutto si era bloccato, arrivavano i bambini con la loro curiosità e la loro capacità di sentirsi grandi perché “i maccheroni sono buoni… bisogna mangiarli tutti!”. Raana non sa da dove vengano i soldi… Erano lì e forse li aveva lasciati Emad per lei. Emad, però non sa cogliere questa occasione perché gravemente preso dal trauma e secondo quella che gli analisti chiamano una “equazione simbolica” (Segal, 1957) blocca tutto il processo di gioco che Raana, grazie al bambino, aveva attivato: “quelli sono i soldi del bastardo! Non possiamo usarli per la pasta! Dobbiamo buttare tutto!”. Ho pensato che Emad non riusciva a sentire che in quello spazio di blocco e di violenza la vita non poteva tornare da fuori (la polizia, la vendetta…), ma poteva solo emergere come altro vertice da cui coglierei soldi e il tuo imbarazzo. La possibile soluzione era semplicemente un altro vertice che passava attraverso il cliente, perché il cliente oltre che essere un terribile episodio che minaccia la tua vita, appartiene ad un processo che ti sta dando una nuova casa e potrà darti un figlio. Si potrebbe chiedere che ci siano soluzioni diverse, meno costose. Questo è vero, ma le occasioni non le possiamo scegliere, ma possiamo solo seguirle (finché è possibile farlo…). L’arrivo del nipote di Raana introduce un nuovo vertice nel blocco dove i soldi sono l’equazione del trauma. Il bambino cerca di dirti che puoi avere una bella casa dove puoi sorridere e che, proprio con quei soldi potrai cucinare i maccheroni che “sono buoni e bisogna mangiarne molti!”. Emad non coglie questo vertice e non saprà mai che proprio il Cliente  lo sta portando in una nuova casa, più complessa di quella che abitava prima

Sul palco: Willy che manca.

L’inquilina non si vedrà mai nel film, ma alla fine la immagini perché vedi che il cliente è un poveraccio! Sullo sfondo continua a muoversi Willy Loman, il commesso viaggiatore di Miller, ma non è detto che Willy sia Emad, oppure il cliente. Ho pensato che Willy è il tono della storia narrata dal film. Willy è tutti i personaggi perché tutti falliscono perché tutti, alla fine, rimangono irrimediabilmente soli. Delle scene riprese dal teatro, forse non a caso ricordo soprattutto quella in cui Willy non solo non viene aiutato, ma viene persino licenziato da Charley: “perché non lavori per me?”; “Sei impazzito Charley, ce l’ho già un lavoro”; “Willy ti sto proponendo un lavoro”; “Il tuo maledetto lavoro tienilo per te. Io ho già un lavoro”. Emad  non sa distinguere la sua vita da quella di Willy perché “nel trauma … non è consapevole di essere in un ricordo: recita un copione sapendo di vivere un’esperienza. (Meares, 2011, 10). Se Raana fa qualche tentativo di aprirsi un varco,  Emad non sa distinguere fra la sua vita e il palcoscenico dove apparentemente recita Pinter: “non mi importa della tua ricchezza. depravato che non sei altro!”.  Babak si accorge che “depravato” non era nel testo e l’hai aggiunto tu e dice della tua rabbia verso chi ti ha offerto la nuova casa. “Emad, perché aggiungi i dialoghi come ti pare?”;

Il film si ferma nel solco della distanza netta fra Emad e Raana e sullo sfondo c’è il monologo di Linda che dichiara come, questa volta, Emad e Raana abbiano perso l’occasione per incontrarsi in un nuovo luogo: Linda parla al marito oramai suicida di non essersi fidato del loro spazio intersoggettivo dove avrebbe saputo che il mutuo della casa era oramai estinto ed era finalmente possibile accogliere un bambino che avrebbe mangiato i maccheroni buoni.

Gennaio 2017

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