Cultura e Società

La ragazza del lago

28/04/15

Andrea Molaioli, 2006, I, 98 min.

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Commento di Cristina Berti Ceroni

Si tratta dell‘opera prima di un regista che ha lavorato per anni come valido aiuto di Nanni Moretti , Mazzacurati e Calopresti, tratto dal romanzo “Lo sguardo di uno sconosciuto”, della svedese Karin Fossum (titolo originale “Don’t look back”) sceneggiato da Sandro Petraglia. Ha conquistato 10 David di Donatello nel 2008. E’ un “poliziesco” a forte connotazione psicologica, nel quale l’indagine e l’analisi dei personaggi,compreso quello dell’ispettore, hanno più rilevanza della stessa trama della storia, la quale però contiene significati simbolici importanti.
La vicenda si svolge in un paesino del Friuli, ordinato e lindo, i cui abitanti si conoscono tutti e che però paiono vivere in una rarefatta atmosfera di reciproco isolamento. Probabile buona trasposizione di un clima nord-europeo. L’ispettore, che vi giunge per le indagini da una realtà più vasta, incontra questo piccolo mondo e pare immergersi in esso quasi come se si immergesse in un suo mondo interiore. Durante il corso delle indagini, infatti, sono frequenti i rimandi alle esperienze personali dell’ispettore stesso, il quale poi trarrà dall’esperienza vissuta nuove potenzialità per affrontare i propri problemi e lutti. Si potrebbe osservare che è quello che accade all’analista, che nell’incontrare realtà interne dei propri pazienti, reincontra, o incontra per la prima volta, proprie realtà interne, talvolta trovando nuove possibilità di comprenderle ed affrontarle.
La scena si apre con la visione di una bambina di 8/9 anni che, avendo trascorso la notte da una parente vicina di casa, deve raggiungere la mamma. Trasgredendo alla raccomandazione di recarsi subito a casa, non resiste alla tentazione di accettare l’invito di un giovanotto ritardato dei dintorni a salire sul suo camioncino per recarsi a vedere i suoi conigli. Una volta giunti a casa, è continua la sensazione indotta nello spettatore che possa avvenire un crimine a sfondo pedofilo, ed è proprio la sparizione della bambina ad indurre la madre a chiamare la polizia. Nella casa del giovane, vive anche il padre, paralizzato, burbero e autoritario. Quando l’ispettore giunge al paese, la bambina è già stata rintracciata, trovata ai confini dell’abitato in perfette condizioni, con evidente sollievo di tutti, ma comincia la vera indagine, poiché la piccola Marta racconta di aver visto, insieme a Mario il suo “rapitore”, una ragazza sdraiata in riva al lago “del serpente”, che dormiva “perché aveva guardato il serpente, che l’aveva addormentata.” E questo era quanto le aveva raccontato Mario. Recatosi sul luogo del delitto, l’ispettore con i suoi aiutanti, il magistrato e il medico legale, scoprono il cadavere di una bellissima ragazza diciottenne, nuda , ma coperta da una giacca, con il viso rivolto verso il lago. Inizia allora la ricerca di ogni possibile indizio che possa ricondurre all’omicidio. Le caratteristiche di Anna, la ragazza morta, la sua famiglia, il suo ragazzo e le persone che la conoscevano e frequentavano. Risulta che si trattava di una ragazza ben voluta, molto sportiva, che però aveva abbandonato l’hockey per dedicarsi alla corsa solitaria, amante dei bambini e che in particolare si dedicava ad un bambino molto difficile, Angelo, di due anni, che lei riusciva a trattare con successo.
Il personaggio di Anna
Anna è la protagonista assente, della quale sappiamo solo quello che raccontano coloro che l’hanno conosciuta e la cui personalità il commissario cerca di delineare. La chiave per farne una possibile analisi mi pare stia nelle prime scene del film. Si vede la piccola Marta, sorta di Cappuccetto rosso che rischia di incontrare il lupo, e che invece incontra un altro bambino, Mario, che è un adulto non cresciuto. Il suo sviluppo si è fermato e sembra destinato a rimanere per sempre figlio, un bambino che gioca con i conigli e che con uno di questi si identifica. Insieme a lui Marta vede il cadavere di Anna e si convince, seguendo l’idea di Mario, che la ragazza stia solo dormendo e che a farla addormentare sia stato l’aver guardato il serpente del lago. Dopo di che Marta scompare dal racconto, se non per i pochi istanti finali in cui la si vede di nuovo. Ma allora, perché Marta, chi, o che cosa, rappresenta? In primis verrebbe da dire che rappresenti in modo generico la condizione dell’infanzia, nella quale non esiste ancora vera e propria consapevolezza del male, e in cui, anche per questo motivo, si è particolarmente esposti ai pericoli. Ma, in questo modo, parrebbe poco giustificato questo personaggio (anche se è vero che il racconto è incentrato in modo specifico sui rapporti genitori -figli e che c’è un altro bambino che viene ucciso). L’ipotesi, forse azzardata, che vi propongo, è che Marta sia Anna bambina o che comunque rappresenti la componente infantile della giovane uccisa, quella componente che non è ancora uscita dal mondo magico e fiabesco dell’infanzia e dall’età dell’innocenza, nella quale si è portati a fidarsi dell’altro. Anna non è più una bambina, anzi nel film appare quasi come una giovane adulta, ma le cose che si vengono a sapere di lei compongono un quadro tipico da adolescente (per inciso, nel romanzo ha 15 anni): è ancora vergine, è chiusa, cambia i suoi gusti, muta le sue abitudini. Ancor prima di imbattersi nelle sue tremende disavventure, la si può vedere come una fanciulla che “segna il passo” rispetto all’ingresso nella vita adulta; ha un ragazzo cui sembra voler bene, corrisposta, ma ha con lui un rapporto sostanzialmente amicale, e passa molto tempo con i bambini. Man mano che il racconto procede, attraverso le indagini dell’acuto e sensibile ispettore, si scopre che la sua giovinezza è stata attraversata da due enormi drammi: la testimonianza oculare dell’omicidio di un bambino cui è molto affezionata, e la scoperta di avere un tumore al cervello. Due drammi che la protagonista sembra cercare disperatamente di lasciarsi alle spalle nelle sue frequenti corse solitarie (Il titolo originale del romanzo è: “Don’t Look Back”-Non guardare indietro). Del tumore non parla con nessuno. Nasconde i referti medici a casa del ragazzo, e sembra aver fatto in modo che neanche lui se ne interessi. (Suggestiva l’ipotesi che questo tumore in testa rappresenti l’impossibilità di accettare la realtà che ha visto e allo stesso tempo una minaccia di morte psichica: non posso crescere-vivere in un mondo così . Ma non può in realtà dimenticare, almeno, per quanto ne sappiamo, l’omicidio, il che la spinge a tornare ripetutamente sul luogo del delitto, quasi se ne sentisse anche lei colpevole, sia per averlo visto, sia per non averlo denunciato. La bambina Anna-Marta, infatti, non può credere al male, soprattutto perché compiuto da un padre contro un figlio, è annichilita, paralizzata, da ciò cui ha assistito (come addormentata dallo sguardo del serpente). Difficile non pensare alla “Bella addormentata nel bosco”! Contagiata dal male, fermata nel suo sviluppo. Vengono in mente certe fasi di “stasi” , di “blocco”, tipiche in adolescenza.
Anna prende poi il piccolo angelo dalla tomba del bambino, che di nome si chiama “Angelo”, e lo conserva come un bene prezioso, certo come ricordo del piccolo che amava, ma forse anche perchè dopo aver saputo di essere vittima di un male mortale, Anna ancor di più si identifica con Angelo, divenendo per questo ancor più ossessionante nei confronti del padre assassino; il quale si sentirà sempre più perseguitato dallo sguardo della ragazza. Si potrebbe azzardare che lo senta come lo sguardo di Angelo stesso. Per di più, Anna era molto brava con questo bambino difficile (la madre di Angelo ne invidiava le capacità) e dunque è un po’ come se l’uomo avesse ucciso il bambino di Anna, e la sua stessa possibilità di crescere e divenire donna e madre. (Nel romanzo, il tumore che colpisce la ragazza si origina da un ovaio….)
Entrambi questi drammi rendono indubbiamente l’adolescenza della protagonista tutt’altro che normale, ma mi sembra che si possa vedere nel racconto, proprio per come è costruito (soprattutto per i suoi elementi simbolici e per la presenza del personaggio di Marta, simbolico anch’esso), anche una metafora delle difficoltà del passaggio dall’infanzia all’età adulta. La paura di incontrare una realtà (sia dentro se stessi, sia negli altri) che contenga il male, accanto al bene, e di non saperli distinguere fra di loro è uno degli aspetti che rendono travagliata l’adolescenza, soprattutto poi se l’odio che si sospetta o si percepisce, come in questa vicenda, è quello dei genitori verso i figli.
Giungendo alla tragica conclusione della storia sappiamo che la ragazza si è fidata (come Marta) ed è salita in macchina, ma questa volta ha incontrato il lupo. Si è fidata del padre di Angelo, pur avendo visto il delitto che ha commesso e pur sapendo di essere l’unica testimone oculare del delitto stesso. Come interpretare questo gesto? Nonostante tutto quello che ha visto, conserva ancora l’innocenza e il bisogno di fidarsi dell’adulto, forse spera di convincerlo a costituirsi (il romanzo avvalora questa ipotesi). L’angoscia di morte è talmente forte dentro di lei che non le importa di correre un rischio mortale? Forse entrambe le cose? Non sappiamo, possiamo solo fare delle ipotesi. Anche a questo punto avrebbe potuto ancora vincere il bene.
Certamente è suggestivo, tornando ai significati simbolici di cui questo film è abbastanza ricco, il tipo di morte in cui Anna incorre. Annegata, con lo sguardo dentro lo specchio d’acqua del lago del serpente, che non si può guardare. Prima ancora che l’annegamento l’ha uccisa il male in cui si è imbattuta, rappresentato dal mostro, ma, allora, che cosa rappresenta il serpente? Seguendo la traccia che mi è parso di scorgere e che vi ho proposto, lo vedrei come il serpente dell’albero della la vita, o della conoscenza, del bene e del male. La pretesa di rendersi liberi e autonomi, di entrare nel mondo adulto, con le sue componenti passionali e sessuali, può rivelarsi mortale.
Due parole sullo stile del film: semplice, rigoroso, adatto a rappresentare drammi del genere, senza ridondanze. Anche nella colonna sonora molto efficace.
La tensione corre sempre sul filo, e il dubbio che si tratti di un delitto a sfondo passionale è sempre presente, ma in realtà il dramma è a monte, e riguarda semmai l’ingresso nel mondo passionale e l’ avvicendarsi fra le generazioni.

Commento di Luisa Masina.

Tra le tante suggestioni che questo film ci ha suscitato molte si addensano intorno alla figura paterna e al tema della paternità, che si annuncia con uno scambio di battute fra il commissario ed un ispettore, a proposito del padre del ragazzo della vittima:
“E il padre?” chiede il commissario
“Il padre non c’è mai stato.”
“Non c’è mai stato…un padre ci sta sempre.” Come a dire che all’origine della storia di ognuno c’è sempre una figura paterna, anche solo fantasticata, immaginata, ricettacolo di idealizzazioni e proiezioni.
Il commissario interpretato da Toni Servillo, per alcuni aspetti si avvicina al Maigret di Simenon: come lui si lascia permeare dall’atmosfera dei luoghi, si identifica con “i personaggi del dramma”, in modo che anche il suo essere padre di una figlia adolescente come la vittima, con tutte le sue inquietudini e i suoi misteri, diviene un elemento in cui indagine e introspezione si intersecano.
D’altra parte anche Simenon in diversi suoi racconti ci mostra un Maigret che fantastica sulla paternità e accoglie i transfert dei giovani (delinquenti e non) con cui si trova ad avere a che fare .
Il commissario, all’opera nell’indagine con gli strumenti del suo mestiere (capacità di ascolto, intuizione, ecc…) è al contempo coinvolto come essere umano e, in particolare, come padre di una figlia adolescente. Osserva il padre della vittima e si interroga sui misteri del rapporto padre-figlia, sui non detti, sui dialoghi difficili, sull’illusione/convinzione di sapere tutto l’uno dell’altra.
Come il padre della ragazza uccisa si ritrova a un certo punto a ripetere tra sé e sé con aria pensosa “la mia bambina, la mia bambina…”, a metà fra l’invocazione e la riproposizione ossessiva di un enigma.
Difficoltà a capirsi, a separarsi e a ritrovarsi, ad accettare e a condividere i dolori della vita, come l’Alzheimer della moglie del commissario, rispetto alla cui evidenza straziante egli vuole proteggere la figlia, perchè è portato a pensarla ancora come “la sua bambina”, mentre quest’ultima gli getta in faccia la sua consapevolezza.
Il commissario dorme poco, rientra tardi e la figlia spesso salta la scuola e se ne va in giro senza dire dove e con chi: le loro esistenze sembrano a volte solo sfiorarsi e la “minestra riscaldata” che una sera egli non riesce a mangiare assurge a tratti a metafora del loro rapporto.
La sua dermatite atopica, sintomo somatico, esprime attraverso il corpo una sofferenza che non può essere pensata, che pertiene ad un’area del legame paterno-filiale che non è verbalizzabile, ha una qualità per così dire extra-verbale, sfugge agli usuali canali comunicativi, e di essa il commissario dice “nessuno sa come si cura”.

Tuttavia si avverte per tutto il dipanarsi della storia una tensione fra padre e figlia che allude ad un cercarsi reciproco, ad un bisogno comunicativo che permane e che qualifica la relazione come vitale, al contrario delle altre descritte nel film .
Per esempio, il “paralitic” e il “mat”, come il padre di Mario (ragazzo ipodotato e strambo) definisce se stesso e il figlio, sono uniti da un rapporto fondato su un’estenuante, ambivalente e reciproca dipendenza.
Ne fa le spese il povero coniglio Maciste, verosimilmente ucciso dal padre di Mario. Maciste è l’alter-ego di Mario, o meglio potremmo dire suo oggetto-sé e, come lui, grande, grosso e inoffensivo (ma la brace dell’odio per il padre non cova anche per Mario sotto la cenere?).
Il padre di Anna, poi, così innamorato della figlia, così certo di conoscerla attraverso l’occhio insistente della telecamera con cui riprende le sue fattezze e le sue movenze, (tanto da far sospettare al magistrato un legame incestuoso ) è l’oggetto principale dell’osservazione e delle riflessioni del commissario, che sembra chiedersi se quel che un padre crede di capire della propria figlia non abbia piuttosto origine dalle sue stesse fantasie.
“Non lo sa lei quel che passa nella testa di sua figlia?” gli chiede il padre di Anna e l’espressione pensosa e triste del commissario è più che mai eloquente.
Anche il magistrato si interroga sul tema della paternità: in attesa di un figlio, soffre per il rifiuto del marito ad essere presente al parto e si rivolge al commissario per interrogarlo sulla sua esperienza di padre e infine per chiedergli aiuto in modo diretto, invitandolo a parlare con suo marito e a spiegargli come si sia poi pentito di non aver assistito, a suo tempo, alla nascita di sua figlia. Il commissario, quindi, sembra avere anche una funzione maieutica e costituirsi come figura di identificazione .
Infine un altro padre si rivela nel film duplice assassino, per cercare prima la liberazione da un figlio malato, che con la sua stessa esistenza e sofferenza gli rammenta in ogni istante la colpa di averlo generato e gli rimanda un’immagine di sé narcisisticamente intollerabile, poi per eliminare la sua Erinni, testimone oculare del figlicidio.
E’ Silvia, sorellastra di Anna, poco vista e poco amata dal suo deludente patrigno, che in una frase riassume la rabbia e la rassegnazione per tante relazioni padre-figlio/a impossibili, segnate dall’ineluttabilità :
“Mica te li puoi scegliere i padri: quel che ti tocca ti tocca.”
In questo commissario-interprete di storie e capace di empatia sotto la scorza burbera, sembra anche addensarsi per certi versi una metafora dello psicoanalista al lavoro, che si muove nel gioco di identificazioni e proiezioni che nel film, come in ogni vicenda analitica, si ripropone.
La funzione paterna si esprime in quella normativa (il protagonista del film è un poliziotto), ma anche in quella contenitiva e rassicurante (l’esperienza rende saggio il commissario, che la può trasmettere al marito del magistrato) e infine assume valore catartico, attraverso l’accoglimento della confessione liberatoria dell’assassino.
Così come lo psicoanalista utilizza le proprie emozioni e le proprie fantasie attraverso l’analisi del controtransfert e comprende il proprio transfert mediante l’autoanalisi, per migliorare la propria funzione analitica, così il commissario incrementa la sua capacità intuitiva ed investigativa facendo riferimento alle proprie esperienze personali .

Questo film è stato presentato durante la rassegna “Cinema e Psicoanalisi” curata dal Centro Psicoanalitico di Bologna e dalla Cineteca di Bologna nel Maggio 2011 .

 

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