Cultura e Società

Due giorni, una notte

1/12/14

Dati sul film: regia di Jean-Pierre e Luc Dardenne, Belgio 2014, 95 min

Genere: drammatico

Trailer: 

Trama
Nella tradizionale scelta dei fratelli Dardenne di raccontare personaggi deboli socialmente (e non solo), si inserisce anche questo loro ultimo film. La storia è abbastanza nota. Sandrà (una bravissima Marion Cotillard), in procinto di rientrare al lavoro, dopo un’assenza necessaria a curare la sua depressione, scopre che il padrone della sua fabbrica ha proposto ai suoi colleghi, con l’inganno, questa scelta: poter ricevere un bonus di mille euro rinunciando a mantenere lei al suo posto. Sostenuta dall’incoraggiamento del marito (con il quale vive pure un momento di difficoltà, incomprensioni e distacco affettivo) e di due amici fedeli, che la sosterranno nell’impresa, Sandrà cercherà, nello spazio del week-end, di convincere i colleghi a cambiare idea, vivendo le terribili fatiche di sentirsi rifiutata e compatita, nella sua incerta ricerca della giustizia, ma anche nutrendosi della scoperta di solidarietà, condivisione e vittoria sulla paura.

Andare o non andare a vedere il film
Anche il cinema dei Dardenne è piuttosto noto per le sue caratteristiche “apparentemente reali, ma leggibili come un sogno”. Qui forse avviene un passo in più sul versante personale e intimo. Il film affronta, con ferma delicatezza, temi sociali importanti, che ben sono intrecciati con vicende personali e relazionali. Mentre guardiamo lo schermo, ritroviamo sullo sfondo i recenti titoli dei nostri giornali: l’aumento della disoccupazione in Italia, la discussa riforma del lavoro e la modifica della possibilità di licenziamento dei lavoratori. I protagonisti anonimi dei quotidiani e delle televisioni acquistano un volto, una storia, uno spessore e ci sembra di conoscerli meglio, di sentirli vivi e vicini come tutti coloro che, nella nostra quotidianità, vivono quella stessa realtà. La violenza del padrone e della società, si affianca a quella del collega che ha bisogni comuni e legittimi, di una madre che, imprigionata dalla sua depressione, vive momenti in cui perde di vista i suoi figli e l’amore del compagno; compare l’aggressione di un uomo verso una donna, di un figlio verso il padre. Pochi sono i personaggi da cui ci teniamo a distanza, per la loro freddezza e aggressività senza confini. I più sono persone in cui ci rispecchiamo, che, per salvarsi, colpiscono l’altro, con grande patimento, più o meno dichiarato. Scopriamo anche che se il “gruppo” ferisce, il “gruppo” può anche sostenere e curare; talvolta bisogna avere il coraggio di essere diversi per ritrovare il proprio senso della vita e la proprio dignità, ma spesso è grazie agli altri che si trova questo coraggio di differenziarsi.

La versione dello psicoanalista
Questo film ci porta a riflettere sulla multifattorialità del trauma, sull’intreccio di un dolore del passato con quello del presente, sul sovrapporsi di oggetto interno ed esterno. La protagonista porta i segni di una depressione, di cui nulla si dice, ma da cui lei parrebbe essersi ripresa. Una depressione che potrebbe essere “endogena”, gestita con farmaci, ma potrebbe anche essere relazionale e affettiva (chissà, come spesso accade, quale aspetto determini l’altro…). Su questo terreno psichico fragile, si inserisce l’evento attuale: il licenziamento. E’ questa un’esperienza quotidiana nei nostri studi, dove sempre più la realtà sociale si impone con le sue leggi e i suoi effetti. E’ evidente come sia così difficile per la protagonista “chiedere”, esprimere i propri bisogni, fare presente le proprie necessità e punti di vista. Il confine tra il chiedere e il mendicare appare così sottile che si fa strada un sentimento paralizzante e devastante come la vergogna. Frequentemente il contributo del sociale sul personale ha questa componente gruppale, di qualcosa che accomuna più persone contemporaneamente (in forme diverse, è stato così anche in altre epoche storiche e aree geografiche), ma è importante per lo psicoanalista chiedersi cosa questo comporti sulla propria tecnica. Nella vicenda del film ritrovare la dignità sarà la “cura” per la protagonista, che la porterà a dire, alla fine “Sono felice, abbiamo lottato bene”. Gli psicofarmaci, usati anche in modo incongruo, proprio perciò, e non a caso, finiscono. Non si fa cenno ad altre terapie (forse ancora si pensa che i farmaci “costino” meno della psicoterapia o siano più accessibili?). La violenza di cui si parla è infatti qualcosa che porta l’individuo a perdere il senso del suo valore e dignità. Grazie alla vicinanza di persone che amano e che condividono la speranza, anche nei momenti in cui la si perde, si può ritrovare quella fiducia nella vita e nel proprio potere di scegliere. Almeno un poco.

Novembre 2014

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

"La sala professori" di I. Catak. Recensione di E. Berardi.

Leggi tutto

"Estranei" (All of Us Strangers) di A. Haigh. Recensione di F. Barosi

Leggi tutto