Cultura e Società

In memoria di Philip Seymour-Hoffman

10/02/14

philip-seymourROTANTEVorrei ricordare un attore che ho amato molto e di cui mi ha dolorosamente colpita la fine prematura, a 46 anni, e volontariamente provocata, a quanto si legge sui media, da una siringa di overdose. Quando scompare un attore, regista o autore letterario che nel tempo mi ha fatto compagnia in avventure del pensiero, in emozioni, di cui ho seguito i passi e le evoluzioni, è per me – non so per voi – un po’ come se perdessi un amico: non si tratta di un estraneo, quello che se ne va nella realtà fisica e resterà solo e almeno, per fortuna, nella forza dei suoi film.

Seymour-Hoffman era nato e viveva a New York, dove è stato trovato morto nel suo appartamento dall’amico sceneggiatore. Dalla succinta biografia, non era solito apparire o rilasciare interviste se non ai festival o collegate ai film da presentare, si apprende che era nato da una famiglia ‘normale’, non devastata come nell’epica biografica di molti attori americani, un fratello scrittore, una moglie (da cui secondo alcuni tabloid si era di recente separato) e tre bambini che doveva proprio quel giorno andare a prendere. Soprattutto, una carriera “di classe”, iniziata giovane e con mirate scelte di film sempre azzeccate, riuscendo nel non semplice connubio di essere nello stesso tempo un attore ‘impegnato’, ma anche capace di uscire dalla nicchia protetta e colta dei festival per essere raggiunto dal riconoscimento di un vasto pubblico.

Fin dalle prime pellicole si è fatto notare per la sua intelligenza naturale e drammatica, per prestare quella fisicità da assoluto anti-divo, non bello o persino brutto, di un corpo che portava male i suoi anni fin dagli esordi, in evidente sovrappeso, su un viso bambinesco e a tratti smarrito. Da quel corpo, sentivo trapelare una goffaggine sofferta, una mancanza di armonia che ben si prestava ai delicati ruoli che interpretava con straordinaria forza d’immedesimazione; emanava un dolente disequilibrio, un eccesso.

Ripercorrendo in parte la sua filmografia, ricordo il primo successo con una piccola parte in ‘Profumo di donna’ (Scent of a woman di M. Brest, 1992), le prime pellicole presentate ai festival e poco note in Italia, come il bellissimo ‘Per amore di Liza’ (Love Liza di Todd Louiso, 2002), vincitore al Sundance per la sceneggiatura che lo vede invece protagonista, storia del difficile lavoro di lutto di un uomo che non accetta il recente suicidio della moglie, e si stordisce drogandosi annusando benzina facilmente reperibile legalmente e ossessionandosi nel costruire modellini. O la piccola parte nel corale Hapiness (vero gioiello, a mio avviso, di Todd Solondz del 1998), dove interpreta un grasso masturbatore solitario in una rosa di personaggi afflitti da inguaribili solitudini. Impossibile e forse inutile, qui, citarli tutti: tra i recenti, trovo il più toccante e riuscito ‘Onora il padre e la madre’ (di Sidney Lumet, 2007), dove impersona il maggiore di una coppia di fratelli, apparentemente il più forte, che decide di rapinare la gioielleria dei genitori per sanare i rispettivi guai economici, nascosti sotto vite familiari e professionali in apparenza tranquille; ma anche lui, in solitario, va periodicamente a farsi iniettare droga nell’ovattato appartamento di un cinese, avvolto nel silenzio di attimi di quasi-morte che lo staccano da tutto, il tremendo crimine, la desolazione, la colpa. Fino a film di maggiore diffusione e successo di pubblico come ‘Il dubbio’ (di Patrick Shanley, 2008), ’La guerra di Charlye Wilson’ (di Mike Nichols, 2007), The Master (di Thomas Anderson, 2012), e l’Oscar per l’interpretazione di ‘Truman Capote – A sangue freddo’ (di Benett Miller, 2005) – rovinato purtroppo dal pessimo doppiaggio italiano, non decidendosi il Belpaese a lasciare i film in lingua originale – che lo vede protagonista riuscitissimo della biografia di un altro tormentato genio americano.

Per il ‘New York Times’, il miglior attore della sua generazione. Mi ha ricordato il destino di un altro giovane astro statunitense, David Foster Wallace, osannato da critica e pubblico come lo scrittore di punta della nuova generazione, suicidatosi alla stessa età di Hoffman, 46 anni, dopo una travagliata storia psichiatrica e abusi alcolici, malgrado il precoce successo e un mondo di affetti che lo circondava. Vite che sembrano avere precocemente raggiunto quello che molti, forse tutti, inseguono, successo e meritati riconoscimenti, possibilità di esprimersi in carriere sia elitarie sia note a tutti, famiglie d’origine e acquisite apparentemente equilibrate…Che frase retorica e insensata: cosa vuol dire avere tutto? Non sappiamo mai cosa devasta la mente di un uomo, quale il suo demone. E’ sempre, e in qualcuno avvertito più acutamente, in modo quasi insopportabile, un sé nascosto, privato e inacessabile, che può vivere una vita isolata e segreta, del tutto separata dalle scene e da un quotidiano che appare così invidiabile. New York rispettava la sua privacy; nel suo caotico brulicare inarrestabile, è la città di tutti, ed è noto che a NY si sono rifugiati a vivere diversi divi hollywoodiani per sfuggire al perpetuo red carpet. Non era così a tutti noto che Seymour aveva iniziato a bucarsi a 23 anni, per poi smettere e riprendere soltanto recentemente, reduce, infatti, da una disintossicazione, fino all’unico buco fatale dell’altro giorno. Chi usa e conosce le sostanze sa che le ‘riprese’ anche singole, dopo tanti anni, sono più pericolose dell’uso continuativo: Seymour-Hoffman voleva morire. La fatica di sostenere troppa fama, troppo precoce, la responsabilità di restare fedele alle aspettative, il semplice male di vivere? Un suicidio mascherato che sembra riprodurre fedelmente ‘Onora il padre e la madre’ (comprendo a posteriori la portata autobiografica delle sue parti più riuscite, la perfetta immedesimazione): nel silenzio della sua casa, fuori dai rumori del mondo, solo, il laccio al braccio, una siringa, finalmente la pace.

Ricordiamolo così, per chi lo seguito filmicamente e per chi forse lo scoprirà da ora: una faccia da bambino brufoloso, oscenamente biondo, su un corpo inattuale, antidivistico eppure così vero, capace d’una simbiosi tanto profonda da non sembrare recitare, con personaggi tormentati, soli, alla deriva.

    “A quanto pare sono stanco di me….”

D. F. Wallace

Febbraio 2014

In memory of Philip Seymour Hoffman 

July 23,1967 – February 2, 2014

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