Cultura e Società

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7/06/12

Philippe Lioret, F, 2011, 120 min.

Commento di Anna Trevisan

Recensione-Trama

Questo film, tratto dal Romanzo di Emmanuele Carrere Vite “Vite che non sono la mia”, è stato presentato alla Mostra di Venezia nel 2011.

La storia è quella di una giovane donna, Claire, felicemente sposata e madre di due bambini piccoli. E’ anche magistrato e, in quanto tale, cerca di tutelare un’altra donna, Celine, madre di una compagna di classe di sua figlia e di un altro bambino, abbandonata dal marito. Il suo obiettivo è di non accogliere le richieste dell’avvocato difensore dell’Istituto di Credito cui si era rivolta Celine per avere in prestito una somma di denaro. La donna non è in grado di restituire la somma che nel frattempo si è moltiplicata in quanto il prestito era avvenuto attraverso il meccanismo perverso del credito rateizzato, che al giorno d’oggi è frequentemente utilizzato da chi ha problemi economici.

La discussione in aula, che produrrà anche una sanzione disciplinare alla protagonista, induce Claire a cercare l’aiuto di un magistrato più anziano ed esperto, Stephane, noto per le sue idee liberali.

Entrambi i giudici, con acume, forza e lungimiranza, colgono gli aspetti di frode che sono nel contratto firmato con la Banca da Celine e che la danneggia.

Nello stesso periodo in cui i protagonisti vivono questo slancio professionale e questa passione verso il sociale, Claire scopre di avere un tumore cerebrale inoperabile e che le restano pochi mesi di vita.

Di fronte al medico che le offre un percorso di chemioterapia, decide di non curarsi, di non avvisare nessuno del suo dramma intimo e di continuare a vivere come ha sempre fatto, convinta che le cure porterebbero danni emotivi ai suoi familiari e sarebbero mal sopportate da lei e da loro. Unica concessione è l’uso della morfina per attenuare i dolori alla testa.

Claire va avanti, pertanto, con determinazione, nella strada che ha intrapreso per aiutare Celine.

Sapremo, durante lo svolgimento del film, che questa è stata anche la storia di Claire, che racconterà qualcosa della sua esistenza abbandonica a Stephane. Egli si dimostrerà ancor più deciso ad ottenere una maggior trasparenza nei contratti capestro con cui si inguaiano le persone bisognose ed è disponibile a continuare a lottare con Claire.

Con Stephane Claire ha un rapporto emotivamente intenso dal punto di vista professionale per il desiderio che hanno entrambi di cambiare ciò che ritengono ingiusto. Claire si fa, in qualche modo, sostenere da lui investendolo di un ruolo simil-paterno e trascorrendo con lui qualche sprazzo dell’ultimo tempo che le resta, magari nei luoghi vissuti durante l’infanzia che vuole rivedere prima della fine, di cui è ancora e solamente lei, l’unica consapevole.

Tra i due si coglie la possibilità di una intesa empatica profonda che potrebbe andare oltre l’amicizia, ma vi è invece sempre un grande rispetto e riconoscimento delle differenze di ruolo e una distanza affettuosa che impedisce rivelazioni totali per le quali, entrambi, non sono né pronti né preparati.

Contemporaneamente, Claire ospita nella sua abitazione Celine con i suoi figli perché costei è rimasta senza casa e si crea una qualche intimità, solidarietà al femminile. Claire fa provare a Celine i suoi vestiti e glieli presta per andare ad un colloquio di lavoro, le fa usare anche il suo profumo, da cui il marito è particolarmente affascinato e sedotto: cerca in questo modo, non del tutto consapevole, di preparare “il tempo dopo di sè”, perché ha la certezza della morte.

 

Qual è lo specifico psicoanalitico?
Il filo rosso che percorre tutto il film è quello della speranza laica di fronte alla morte; di fronte al fine vita non può esserci solamente la speranza religiosa.

La speranza che viene attivata da Claire di fronte all’ineluttabile fine dell’esistenza è l’azione giudiziaria. E’ la ricerca della “Giustizia” per Celine nella quale lei può identificarsi perché la tragica vita di Celine è stata anche la tragica vita di Claire e di sua madre, che il marito aveva lasciato quando la protagonista aveva due anni.

La forza di supporto di fronte alla possibile disperazione è la possibilità di credere che si può vincere in un’altra parte dell’esistenza, si può vincere in un altrove dove regna lo strapotere delle banche. I due magistrati decideranno di mettere in atto una perorazione all’Alta corte di Giustizia Europea, questo gesto otterrà l’effetto voluto.

Claire può allora sentire che la sua vita è andata “oltre”la sua fine fisica.

Contemporaneamente c’è un tenero lavoro di intreccio che Claire tenta di disegnare tra il marito e Celine in modo che la presenza dei due nella medesima casa permetta ai suoi bambini di non essere del tutto abbandonati e di trovare nell’amica una quasi mamma.

Certo! In questa storia c’è anche una forte negazione della malattia e negazione del dramma, ma di fronte alla fine di una vita giovane, ben venga qualche goccia del balsamo chiamato “negazione” come qualche goccia di profumo di Gueirlain fa sognare il marito di Claire.

C’è una forma di lungimiranza nella coraggiosa azione di Claire che ricorda il lavoro dell’analista di fronte al paziente grave che sembra non avere più, intorno a sé, uno spazio da vivere con dignità; quando sembra che non ci sia più, nel mondo interno del paziente psicotico, alcuna luce che gli permetta di andare “oltre” i limiti cui il suo pensiero malato lo costringe.

Vorrei trascrivere alcune righe di Bion sui pazienti oncologici terminali, tratte da “Seminari Tavistock”: “ci interessano gli esseri viventi e il fatto di poter fare un lavoro per rendere tollerabile la vita a persone ricoverate in un determinato reparto per il periodo che rimane loro da vivere. Si tratta di rendere tollerabile e disponibile la vita ancora da venire, la parte dell’esistenza ancora depositata “in banca” e di trovare dei metodi mediante i quali possiamo offrire a questi pazienti la possibilità di sintonizzarsi con quella lunghezza d’onda in cui ci si occupa di quanto si può fare e non ci ci preoccupa troppo di quanto non si può fare” (pag.37)

Perché andare o non andare a vedere questo film?
Perché è un film che, inquadrato oltre la facile cornice del melò, nella scelta del tema trattato, è recitato con bravura e sobrietà, cosa che il tema della morte richiede per non incupire troppo lo spettatore. E’ un film dove la disperazione non tocca mai vertici elevatissimi e strazianti, dove resta la possibilità di guardare avanti attraverso gli occhi dei bambini di Claire e di Celine.

Pur trattando argomenti duri, come quello intimo del fine vita e quello sociale dello strozzinaggio delle banche, resta un film delicato ed elegante che tiene insieme un dramma interno e uno esterno con finezza recitativa e registica.

Contrariamente a quanto è stato affermato da una critica severa, non è un banale melodramma: i protagonisti non diventano fantocci di una giustizia idealizzata e irraggiungibile e nel contempo, Celine, la misera, non viene umiliata nella situazione che è costretta a subire, si riscatta attraverso un lavoro;  l’argomento è tratto da una storia vera del romanzo “Vite che non sono la mia” e non pare che vi sia un eccesso di cosidetto “buonismo”, ma un sentimento sobrio di speranza laica.

 Giugno 2012

 

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