Cultura e Società

Edoardo Weiss e la “Giustizia Penale”

14/11/16
Edoardo Weiss e la “Giustizia Penale”

Francesco Migliorino, Bonanno Editore, Acireale-Roma 2016, euro 18,00

recensione a cura di Giuseppe Martini

La recente opera di Francesco Migliorino, docente di Storia del diritto medievale e moderno all’Università di Catania, si dipana tra l’istanza storiografica, che si evince dal titolo “Edoardo Weiss e ‘La giustizia penale’”, e quella teorica, cui rinvia il sottotitolo “Zone di contagio tra psicoanalisi e diritto”, che conferisce esplicita centralità alla questione dell’interdisciplinarietà. Naturalmente per un motivo o per l’altro la psicoanalisi – e con essa il lettore psicoanalista- sono convocati e posti al centro del dibattito. Progetto dichiarato dell’autore è quello di prendere “ad oggetto le zone di contagio tra il discorso giuridico della penalità e quello terapeutico dell’analisi”, valendosi di una singolare occorrenza storica occorsa negli anni 1932-37 quando il regime fascista, nel 1934, decretò la chiusura della Rivista italiana di psicoanalisi, richiesta dalle gerarchie cattoliche, e la nascente SPI, privatane, poté valersi della ospitalità  sulle pagine di una nota rivista di diritto, per l’appunto La Giustizia penale. Naturalmente tra le figure intellettuali del tempo fu quella di Edoardo Weiss a dare il maggiore contributo a tale collaborazione.

Migliorino, nel ripercorre in pagine di piacevole lettura vicissitudini note e meno note del pioniere triestino, si mostra sempre attento alla questione, metodicamente rilevante, del “contagio” tra discipline illustrandone le motivazioni, talora contraddittorie, che ne giustificavano l’interesse da parte di giuristi e psicoanalisti, rendendo in tal modo con precisione e accuratezza il sapore di un’epoca intellettuale. Sinteticamente, l’autore tiene a sottolineare come il terreno dottrinale su cui si svolge l’incontro sia rappresentato da un lato dalla “Scuola Positiva di diritto penale”, inaugurata in Italia da Enrico Ferri e certamente sensibile alle teorie lombrosiane, e dall’altro dal determinismo psichico della metapsicologia freudiana. Tuttavia l’incompatibilità tra i due orientamenti non tarda ad emergere, dato che la psicoanalisi, sia pur riconoscendone la forte vocazione deterministica originaria, male si adattava a giustificare l’inconcludenza del libero arbitrio di marca positivista (p.58) e l’ineluttabilità del delitto (il delinquente che “finiva di assomigliare al delitto prima ancora di averlo commesso” (p.11) per la fiducia riposta, in primis da Freud stesso, nella flebile voce della ragione. Essa andava ad antagonizzare il determinismo delle dinamiche inconsce, dei lapsus e degli atti mancati, potendosi così riproporre, in forma stavolta niente affatto deterministica, quell’intreccio aperto a molteplici sviluppi tra conscio e inconscio su cui anche recentemente tanti autori sono tornati a riflettere (si pensi a Ogden, o, in un contesto teorico significativamente difforme, agli intersoggettivisti). Per siffatte ragioni gli psicoanalisti, Weiss in  primo luogo, oltre ad essere interessati a trovare una tribuna  che potesse pur parzialmente sostituire il loro organo ufficiale soppresso, anziché inseguire “i criminologi sul loro terreno” miravano a cercare di coinvolgerli in questioni di altrettanto rilievo, ma che forse conducevano a conclusioni (tanto sul terreno giuridico quanto clinico) assai distanti: la visione del diritto come esercizio legittimo della violenza (p.55), la figura del delinquente per senso di colpa (p.20), e non ultimo il ruolo della pulsione di morte nell’aggressione tra i popoli (pp.97 sgg.).

Il testo di Migliorino è corredato dall’elenco dei saggi aventi come oggetto la psicoanalisi (seconda parte del libro) e dalla riproposizione di alcuni di questi (terza parte), tra cui in particolare meritano di essere citati quelli a firma di Edoardo Weiss, specie i primi due, che toccano appunto le tematiche sopra citate: Il delitto considerato quale equivalente dell’autoaccusa e Libido ed aggressione.

E’ dunque intorno al tema del senso di colpa – suggerisce l’autore- che si assiste all’incontro più fecondo, seppure anch’esso interlocutorio, tra psicoanalisi e diritto. La questione era stata già trattata da Freud nel corso di una lezione agli studenti di Giurisprudenza, nel corso della quale aveva invitato alla cautela per il rischio che un accusato, per alleviare un suo senso di colpa preesistente e inconscio, si trovasse ad ammettere un reato non commesso. Weiss procede oltre su questa stessa linea  ipotizzando che talora “il senso di colpa preceda il delitto e spinga a commetterlo” (p. 85). Il delitto può allora rappresentare un mezzo per manifestare palesemente il senso di colpa stesso (p.89), di modo tale che il compito, non della giustizia beninteso, bensì della psicoanalisi, viene ad essere quello di rendere l’individuo “consapevole delle ragioni determinanti il suo contegno, di (farlo) ritornare – guarito- sulla via dell’onestà” (Weiss, p.90). Tuttavia, come nota Migliorino, il fraintendimento è sempre in agguato, a ragione del fatto che “il determinismo psichico continua a far capolino nel dialogo” (p.57), anche con il serissimo rischio che esso assuma le vesti della tara genetica, ad es. nell’articolo (pure riportato nel volume)  del giurista Giuseppe Vidoni che segue quello di Weiss, aprendo così le porte alle teorie della razza.

E’ facile notare al proposito come oggi stesso, beninteso escludendo le implicazioni politiche del discorso, a fronte di una psicoanalisi che sembra aver abbandonato o comunque essersi fatta più scettica dinanzi a quel determinismo psichico che sino agli anni sessanta era indiscutibile pilastro della teoria, emerga una serie di nuovi e più irriducibili determinismi su base strettamente biologica che nulla concedono, a differenza dell’opus freudiana, all’intervento della coscienza. In tal modo il lavoro “storiografico” di Migliorino riporta d’impeto, come ogni storiografia che si rispetti, ai problemi dell’oggi e rappresenta un caveat nei confronti di approcci teorici tanta assertivi quanto riduzionisti (e inavvertitamente – o potremmo dire “inconsciamente”?- legati alle attuali istanze sociali).

Quello stesso conflitto tra l’Es e la Ragione, che salva da un determinismo acritico, è poi messo in campo nel secondo articolo di Weiss Libido ed aggressione, anche qui con conseguenze significative per i suoi riflessi sul piano sociale. L’aggressione, anche gratuita e non motivata da istanze difensive, è vista legata alla tendenza a sbarazzarsi di una quota di energia originariamente autodistruttiva con conseguenze importanti nelle relazioni tra popoli e tra individui: l’antisemitismo è considerato un esempio di come “l’aggressione esercitata contro altri popoli crea la concordia interna “ e la stessa giustizia penale è vista mossa da una “tendenza vendicativa”, una “tendenza d’aggressione” che la società soddisfa “per il tramite dei suoi rappresentanti ufficialmente riconosciuti” (p.111). A questo proposito Weiss conclude, in un altro articolo pure riportato, come la concezione dualistica della psicoanalisi la ponga “in una posizione di privilegio per l’interpretazione, p.es., della psicologia del delinquente e di vari problemi politici e sociali” (p.122). In tal modo la visione “a dir poco hobbesiana”, come la definisce Migliorino (p.56), è contemperata proprio dalla presa d’atto del dualismo pulsionale e del ruolo fondamentale della libido. Inoltre, il riconoscimento della pulsione di morte è al servizio non di una concezione del tipo “essere per la morte”, che nella sua impotenza contemplativa rischierà di colludere col nazifascismo, bensì per invitarci a non ignorarne i rischi e  a riaffermare la necessità di appoggiare il connubio tra le forze ad essa antagoniste, la libido e la ragione. Potremmo forse osare dire che questi testi di Weiss ci riportano alla più sconcertante e insieme più attuale intuizione freudiana, quella appunto della pulsione di morte?

Ma il libro di Migliorino suscita interesse anche per alcune notazioni a margine che l’ autore inserisce nella trattazione principale del testo, mostrando senza reticenza la sua posizione. Mi riferisco a un passo laddove egli nota l’attitudine “cospirativa” dei primi psicoanalisti e di Freud stesso, e lascia intendere quanto un tal senso d’accerchiamento e i rimedi adottati avrebbero poi minato la portata eversiva e innovativa della psicoanalisi stessa (l’insanabile conflitto tra il pensiero e l’istituzione). Di concerto l’autore lascia chiaramente trapelare le sue osservazioni critiche in merito alla pratica clinica di Weiss laddove il triestino, forse anche in tal caso a scopo difensivo nei confronti della scarsa considerazione, se non irrisione, di cui era oggetto la psicoanalisi in ambito clinico (la stessa che lo indurrà al discutibile sodalizio con uno dei pochi psichiatri “illuminati”, Levi Bianchini), optò per la scissione tra la pratica psichiatrica e quella psicoanalitica (pp.22-30). A giudizio di Migliorino, che riprende le conclusioni di un’altra studiosa, nelle cartelle cliniche vergate da Weiss c’è vivacità e raffinatezza nella descrizione anamnestica, ma scarsa o nulla influenza della psicoanalisi. Anche qui viene toccato un problema di indubbia attualità, con il merito di farne cogliere le radici in quell’epoca oramai lontana. Verrebbe da chiedersi come Weiss avrebbe potuto mostrare e far tesoro del suo essere psicoanalista nella sua pratica all’interno delle mura manicomiali. Forse non attraverso la compilazioni di anamnesi psicoanalitiche (che oggi magari ci farebbero sorridere), ma in primo luogo grazie a una meditazione della lezione del suo maestro e analista Paul Federn. Certo se per Weiss c’è stato davvero un mancato incontro tra la sua pratica psichiatrica e psicoanalitica, se il triestino ha finito davvero col richiudersi nella torre d’avorio della psicoanalisi, mostrando magari più propensione all’incontro con i giuristi che con i colleghi psichiatri, questo genera uno stupore e una delusione aggiuntivi per via del fatto che proprio il suo maestro può considerarsi a tutti gli effetti (non Freud, non Jung) il primo analista di pazienti psicotici. E non solo: a Federn spetta il merito di una teorizzazione compiuta della psicosi, che ad es. attraverso il concetto fondamentale di assenza dei confini dell’Io (che apre le porte anche all’identificazione proiettiva) la mette al riparo dal riduzionismo con cui Freud aveva affrontato il caso del Presidente Schreber (come noto da lui mai incontrato). Ma i meriti di Federn non si fermano qui: a lui spetta anche l’intuizione (per la cui applicazione era indispensabile proprio il campo istituzionale) che il paziente psicotico necessitava non solo della psicoterapia, ma anche di una figura ausiliaria dell’Io che lo supportasse nella sua realtà quotidiana (ruolo che fu effettivamente esercitato nel contesto istituzionale da una sua infermiera, Gertrud Schwing).

E’ stato indubbiamente un peccato che Weiss e con lui la psicoanalisi italiana degli albori non abbiano avvertito una tale influenza: forse il ritardo con cui il nostro Paese ha recepito rispetto a Francia, Inghilterra e Nord America, il dibattito su psicoanalisi e psicosi (ritardo per altro ampiamente recuperato negli ultimi decenni) avrebbe potuto essere evitato …

Mi sono soffermato su questi aspetti, che pure non riguardano il tema centrale del libro, per sottolineare la sensibilità e l’acutezza dell’autore nei confronti di certe questioni interne della psicoanalisi.

Prolungando ora idealmente il dibattito con lui, al di fuori degli intendimenti fondamentalmente d’ordine storico del volume, verrebbe da interrogarlo su come oggi, a ottant’anni di distanza dagli avvenimenti riportati, si potrebbero costruire “zone di contagio tra psicoanalisi e diritto”. Certo non facendo leva sul determinismo psichico…ma magari sul principio di indeterminazione con cui la psicoanalisi si è ultimamente molto confrontata? E nemmeno probabilmente per un condiviso interesse al “delinquente per senso di colpa”… ma forse per l’affrontamento congiunto delle problematiche legate all’alessitimia, all’ assenza di empatia, ai meccanismi dissociativi negli autori di reato, o infine a quelle strutture di personalità che un illustre psicoanalista, siciliano come lui, Francesco Corrao, definiva criminotiche? E a cosa condurrebbe infine una riflessione congiunta sul concetto più “inattuale” di tutti, la pulsione di morte?

Lasciando questi interrogativi alla benevola attenzione dell’autore, da parte mia vorrei rammentare in chiusura un altro incontro possibile tra psicoanalisi e diritto, che forse ci allontana un po’ dal testo, ma tuttavia potenziale “zona di contagio”. Mi riferisco all’incontro tra ermeneutica giuridica e psicoanalitica. Un incontro che nei fatti non c’è mai stato, ma che potrebbe trovare i suoi presupposti nell’opera di un giurista e filosofo italiano forse oggi un po’ dimenticato, Emilio Betti, che pur ignorando probabilmente in toto il discorso psicoanalitico, offrì negli anni Cinquanta un contributo di grande rilievo all’ermeneutica filosofica, paragonabile forse a quello di Gadamer, di cui fu per certi versi fiero antagonista, un contributo che a pieno titolo può considerarsi un efficace antidoto contro le derive relativiste e post moderne dell’ermeneutica psicoanalitica di marca nord americana. Emilio Betti, infatti, dalla sua posizione di giurista che lo rendeva particolarmente attento al problema della “verità”, sistematizzò una teoria dell’ermeneutica che per noi psicoanalisti può essere di particolare rilievo sia per quanto attiene ai criteri dell’interpretazione, che alla distinzione tra significato (quanto l’autore del testo pone nell’opera) e significatività (l’allargamento d’orizzonte e di senso da parte del lettore\interprete). Tuttavia se Betti è da un lato fautore di un’ermeneutica fondata su solidi criteri e principi metodologici, sensibile al problema della oggettività e dei rischi dell’arbitrio interpretativo, dall’altro ciò non gli impedisce di sostenere che, essendo l’interpretazione storica, è evidentemente inesauribile e mai completamente definita. Ciò esita nella sua definizione a mio avviso ancora attualissima di simbolo, che va ben al di là di un certo riduzionismo di marca freudiana, che tende a appiattire il simbolo a segno, e di un prospettivismo infinito di marca junghiana, che tende a sottrarlo al lavoro interpretativo (una volta interpretati, il sogno o il simbolo muoiono). Per Betti al contrario è fondamentale ciò che lui chiama “il paradosso dell’espressività simbolica”: “ogni simbolo esige di essere interpretato mercé un’espansione; viceversa, l’espansione porterebbe al risultato di rinnegare la funzione del simbolo, se essa tendesse a dissolverne il significato in termini intellettualistici. Ma in realtà qui l’interpretazione non consiste nel sostituire al senso simbolico un senso letterale, bensì nell’approfondire e arricchire il significato del simbolo” (Betti, 1962, p.163).

Forse abbiamo deviato troppo dal testo, ma magari è proprio grazie a questo momentaneo allontanamento che il dibattito tra giuristi e psicoanalisti potrebbe tornare, forte di queste incursioni negli anni Trenta (Weiss) e negli anni Sessanta (Betti), alle questioni posteci dalla nostra contemporaneità.

Novembre 2016

Bibliografia:

Betti E. (1962), L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, Città Nuova,             Roma 1987

Federn P. (1952), Psicosi e psicologia dell’Io, Boringhieri, Torino 1976

Ogden T. H. (1994), Soggetti dell’analisi, Masson Dunod, Milano, 1999

Jung C.G. (1921), Tipi psicologici, Bollati Boringhieri, Torino 1977

Scwing G. (1954), La pazzia e l’amore, Edizioni del Cerro, Tirrenia, 1988

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