Cultura e Società

Psicoanalisi in Terra Santa, a cura di A. Cusin e G. Leo. Recensione di P. Montagner

4/09/17
Psicoanalisi in Terra Santa, a cura di A. Cusin e G. Leo. Recensione di P. Montagner

A cura di Ambra Cusin e Giuseppe Leo  (2017)

PSICOANALISI IN TERRASANTA

Ed. Frenis Zero

Ambra Cusin e Giuseppe Leo curano questo libro in cui sono raccolti alcuni articoli che hanno un grande pregio, quello di portarci a sentire e a vivere sulla nostra pelle i problemi della Terrasanta.

Essi mettono in primo piano il conflitto fra i tre popoli che la abitano, ebrei, musulmani e cristiani, e danno una lettura psicoanalitica di questo conflitto: è un odio tra fratelli che hanno molte cose in comune, che vengono da una comune origine dalla quale si sono staccati , e che ora trovano la ragione del loro  esistere  sull’accentuarsi delle disuguaglianze e delle diversità  e su come esse si sono declinate e articolate  nella storia.  In tutto questo c’è anche l’incrementarsi del loro conflitto, che viene quasi a confondersi con la ragione del loro esistere.

Questo libro è un percorso. E’ costruito per accompagnare il lettore a scorgere il conflitto , ad approfondire le modalità, i luoghi, le persone , i simboli nei quali si manifesta. A sentire quanto esso sia profondo e come abbia permeato la vita di tutti coloro che abitano quella terra martoriata.

Un conflitto senza speranza. Perchè ciò che siamo portati a cercare, seguendo i diversi capitoli, sostenuti forse anche dall’immagine in copertina di un musulmano e un ebreo che si abbracciano, è che alla fine arriveremo a trovare una speranza. Invece il libro si chiude come si è aperto: su un conflitto impossibile, da gestire, da risolvere e forse anche da comprendere fino in fondo. Un odio così incistato da non poter avere una fine.

Dunque, fratelli, fedeli delle tre religioni monoteiste della terra, fratelli che lottano per prendersi quello che a loro diritto ritengono l’eredita del padre, di Dio Padre, e che sostengono Egli abbia destinato soltanto ad uno di loro. E ciascuno, Ebreo, Musulmano e Cristiano vuole e ritiene  di poter possedere quella eredità,  la terra che nella Bibbia è “ la terra promessa dove scorre latte e miele”. (Esodo 3.18)

Il percorso inizia con il capitolo di Ambra Cusin, che lei molto opportunamente intitola “fotogrammi emotivi di un viaggio”.  E’ un capitolo ricco di immagini, in cui “vediamo” la bellezza, la ricchezza e il fascino di questa terra che toccano profondamente chi la visita. Allo stesso tempo  Cusin ci fa percepire la sofferenza che il conflitto genera , e ci fa comprendere come non si possa dare ad esso un significato se ci si limita a leggerlo in termini storici, sociali o economici. Non che questi elementi non vadano tenuti in considerazione, ma è quel “emotivi” del titolo che è importante. Avvicinandosi a Gerusalemme, ci racconta Cusin,è sempre più chiaro come il senso del conflitto vada ricercato negli affetti, nelle emozioni, nei sentimenti, cioè in quell’area di cui la psicoanalisi si occupa. Si sente così che ogni luogo, ogni pietra, ma anche ogni colore, ogni gesto, ogni parola pronunciata qui dai diversi abitanti, ha un senso e un significato talmente profondi e totali, che toccarla fa esplodere l’odio.

Questa Terra appare talmente problematica, conflittuale, pericolosa, a chi la visita, che persino fatti che avvengono quotidianamete e che da noi passano inosservati, divengono qui assolutamente unici e straordinari.

Prendiamo il Giordano, il fiume che per secoli è stato la vena pulsante di questa terra e che ora è ridotto in alcune parti quasi ad un torrente. Mi sovviene, leggendo le descrizioni magnifiche dei paesaggi, che durante un mio viaggio negli stessi luoghi, ho raggiunto le sue rive. Dalla parte di Israele (qui la parola Palestina non si pronuncia), trovo un complesso architettonico moderno, una discesa all’acqua con scale in marmo, corrimano in acciaio, e sotto questo fiume così piccolo, ma così importante e significativo, luogo di confine e di separazione. Qualche anno dopo ho visto lo stesso luogo dall’altra parte, dalla Giordania,  la stessa Terra che da questa parte è chiamata Palestina, e nessuno chiamerebbe mai Israele. La discesa al fiume qui è molto diversa , una specie di  piccolo molo, fatto di vecchie tavole di legno e una riva incolta, piena di sterpi ed erbacce. Stavolta sono con un gruppo di turisti, e qualcuno del mio gruppo chiama  qualcun altro , sull’altra riva, quella rivestita di marmo, e i due si mettono a parlare in inglese, da una sponda all’altra, alla fine scoprono di avere dei conoscenti comuni. Cosa molto frequente, quando si viaggia, perchè davvero “ il mondo è piccolo”, ma qui è stata una cosa speciale.  Mi sono commossa. Abbiamo bisogno di qualsiasi cosa qui, anche noi viaggiatori, per cercare di tenere viva la speranza. Si respira troppa aria di guerra. Non si sa come stare  per non essere degli intrusi , ma spettatori partecipi senza stare dalla parte di nessuno.

Il simbolo per eccellenza della Terrasanta è Gerusalemme. La Bibbia assegna settanta nomi a questa città splendida , che raccoglie in pochi metri quadrati  tre simboli fontamentali delle religioni monoteiste. Il muro del Pianto per gli ebrei,  ciò che resta del Tempio di Gerusalemme che fu distrutto dall’imperatore Tito, quando rase al suolo la Città nel 70 d.c. . La moschea della Roccia, con la sua cupola dorata che si scorge già in lontananza, dalla quale i musulmani credono che Maometto sia volato in cielo in groppa ad un cavallo alato e dentro protegge una roccia sacra per l’Islam, su cui dicono sia avvenuta la Creazione del mondo. Il percorso del Calvario e il luogo di Sepoltura di Cristo, il Santo Sepolcro, tomba dalla quale,  per i cristiani, Egli è risorto.

Gerusalemme è un luogo di conflitto nel conflitto, ovunque. La Basilica del Santo Sepolcro è uno spazio di cui cristiani ortodossi, cattolici, copti, armeni  si contendono il possesso in centimetri, gli orari per issarsi sulla scala, i turni per spazzare e spolverare. Quante volte sono scoppiate  risse tra i preti  delle diverse confessioni, per  cui la convivenza oggi è misurata da una spartizione chiaramente segnata sul pavimento e , paradosso estremo, l’apertura e la chiusura  della chiesa sono fatte da un musulmano la cui famiglisa custodisce le chiavi del luogo da decenni. Anche nell’islam i conflitti sono altrettanto sanguinosi, come tra Sciiti e sunniti, così  come tra gli ebrei, estremisti ortodossi e moderati. Viaggiare qui fa paura: ci si chiede continuamente dove si sta.

Tutto qui è carico di emozione, tutto qui è simbolico, e tutto è pericoloso e violento. Si vive e si respirano il conflitto e la violenza con una modalità che va oltre la ragione e l’intelligenza dei contendenti.

Cusin arriva in Terrasanta con il desiderio, l’illusione, che qualcosa si potrà comprendere, che l’essere una persona di buona volontà e l’essere una psicoanalista, la aiuteranno a dare un po’ di senso a questa violenza, a trovare un modo per iniziare a significare dentro di sé il conflitto, forse a trovare una ragione di speranza.

Conclude il viaggio affermando:-” La complessità ci ha coinvolto e stravolto. Siamo tornati disorientati e confusi, mentre eravamo partiti cercando chiarezza.  Forse in questa confusione col tempo , capiremo la ricchezza di una esprienza unica……”

Certo, un elemento che appare soverchiante, è la complessità della situazione , l’intreccio delle ragioni storiche, sociali e politiche, ma soprattutto l’accumularsi di fatti di sangue, uno sull’altro, che rendono al momento impossibile riuscire anche ad individuare qualcuno dei fili che legano le ragioni di tanto odio.

Anche le conseguenze sono complesse. Il libro ce ne illustra alcune.

Nel suo capitolo su Gaza, Maria Patrizia  Salatiello, ci mostra ciò che succede ai bambini che crescono in tutta questa violenza. Lei ci racconta dei bambini di Gaza, ma possiamo immaginare che anche altrove, anche nella Gerusalemme più abbiente, essi manchino di quella protezione che è fondamentale perchè la loro vita interiore si sviluppi e fiorisca. Bambini sottoposti a bombardamneti, non soltanto  in senso concreto, ma anche in senso psichico, di stimoli, di pressioni, di immagini, di violenze, di fronte ai quali nessuna famiglia, nessuna società per quanto forte e organizzata offre una difesa sufficiente. Che ne sarà di questi bambini vissuti senza un luogo che li contenga abbastanza? Che adulti saranno domani? Come riporteranno nelle loro vite private e nelle società in cui abiteranno, l’odio che hanno respirato?

Il dolore di fronte a bimbi straziati è straziante. Salatiello racconta il suo bisogno di tornare  appena possibile da loro, di fare qualcosa per loro, di cercare di usare lo strumento psicoanalitico per dare loro una mano. Non è possibile tollerare che il mondo che lasciamo in eredità a questi bambini sia così terribile, sembra dirci . La psicoanalista si trova a confrontarsi con bambini senza speranza. Più delle parole  parlano le immagini, il disegno della bambina Iman, di cui ci racconta,  rappresenta il trauma fondamentale a cui è stata sottoposta e che non ha potuto elaborare, la bomba e la vista della cuginetta fatta a pezzi. Nel disegno c’è ciò che ha visto ma c’è anche lei stessa, che non è più, da allora, una persona intera, un esser umano, solo pezzi sparsi di arti, di organi, di pelle. Una violenza che fa a pezzi e che lascia solo parti  staccate, senza vita, senza significato, elementi della sua  mente senza legame, incapaci di funzionare così perche fatti per essere naturalmente riuniti e crescere insieme.

I due capitoli centrali sono dedicati alla clinica della psicoanalisi, o  per meglio dire, della psicoterapia,  vista in relazione alle differenze etniche e culturali dei popoli arabi , ebrei e cristiani  e alle inevitabili differenze tecniche che da esse derivano.

Ribadisco come in questo libro l’accento venga messo sul carico emotivo e conflittuale interno con cui la realtà della Terrasanta ci mette a confronto. Anche  la clinica è imbevuta di questa violenta emozione , spesso conflittuale, che ne attraversa le pagine.  Tanta ambivalenza e tanta emotività rendono senza dubbio difficile creare nell’analista una distanza e uno spazio interno per pensare. E’ questo sforzo di elaborare una osservazione e dare una lettura analitica di quanto accade in seduta, che i lavori dei due analisti ci mostrano.

Nel primo dei due capitoli, Abramovich, analista junghiano di Tel Aviv, ebreo,  riflette sull’imporanza delle differenze culturali fra israelianin e palestinesi, osservando ad esempio come egli si aspetti che parlare con i primi sia un “parlare diretto”,mentre la cultura palestinese pone grande enfasi sulla cortesia, tanto che per i secondi parlare direttamente dei loro pensieri rappresenta una certa violazione del loro codice culturale. Il punto focale riguarda l’esperienza di una seduta molto speciale vissuta da Abramovich: una seduta con un paziente palestinese proprio nel Giorno del Ricordo , nell’ora in cui suona la sirena e per due minuti tutta Israele si ferma e tutti si mettono in piedi in silenzio.

Ma come si vive un tale momento, così significativo, in piedi, in presenza di un palestinese, che resta seduto ? Come si elabora, se si elabora, questa intrusione  del collettivo, all’interno di un percorso individuale? Abraimovich legge “il conflitto israelo-palestinese ( come) dominato dall’archetipo vittima -carnefice  e dalla competizione di chi ha sofferto di più, di chi è la vittima più grande, di chi è l’aggressore peggiore”. Il passaggio importante che ci mostra è quello  del momento in cui di riesce a riportare questo conflitto all’interno della relazione paziente-analista, come egli dice “per muoversi simbolicamente dal Giorno del Ricordo al Giorno dell’Indipendenza”.

Dwairy, psicoterapeuta israeliano, ci pone il problema della difficoltà ad adattare il pensiero psicoanalitico alla cultura palestinese. Se lavorare a rendere conscio l’inconscio può essere di aiuto per un paziente occidentale, qui non funziona, soprattutto perchè si tratta di lavorare con persone che possiedono una forte identità collettiva , e spesso hanno una relazione con la famiglia e con il gruppo a cui appartengono, talmente radicata e vitale, per cui un lavoro che li metta direttamente di fronte a conflitti con loro è impensabile. Dwairy ci mostra il suo modo di lavorare , che egli descrive come “terapia basata sulle metafore”. Partendo dal presupposto che il linguaggio delle persone tradizionaliste è pieno di metafore, così come il Corano e la lingua araba, egli lavora ad aiutare il paziente ad adottare valori alternativi provenienti però dall’interno del suo sistema stesso di credenze. Infatti ogni cultura è portatrice di molti valori, anche in conflitto tra loro, si tratta perciò di aiutare il paziente a diventare consapevole che ne esistono altri , cioè altri sistemi di funzionamento, comunque all’interno di quelli accettati ad esempio dal Corano, che rendono la vita e le relazioni interpersonali  meno sofferte, più ricche e soddisfacenti. La lettura del caso di Samer è un momento interessante e piacevole , che accompagna il lettore in un mondo diverso e affascinante.

L’ultima parte del libro è occupata da due interviste di Ambra Cusin, una a Mohammad Mansur, psicoterapeuta arabo che vive a Nazareth, l’altra ad Ajalà Lotem,  ebrea , storica, nata in Israele , vissuta a Trieste e tornata nella Terra natale.

Sono due interviste “sofferte”, entrambe ci danno una misura della similitudine  e della contemporanea opposizione  delle due culture e della impossibilità di andare oltre il conflitto. Le ho lette, cercando in ogni momento una apertura, un filo di speranza, un po’ di luce nel buio dei ricordi, nello stretto passaggio dei pregiudizi,  nella massiccia scissione tra bene e male, in cui il male è proiettato nell’altro e il bene, la ragione, il diritto, sono solo propri.

I conti delle reciproche sofferenze e rivendicazioni, sono talmente lunghi, che è già un passo notevole trovare lo spazio di un’intervista per fermarci a parlarne.

Come elaborare , ci si chiede ascoltandoli, tutto questo odio? Dove mettere tutte queste macerie? Come far smettere questo enorme bisogno di vendetta?

Troppo simili i due intervistati, entrambi si sentono sradicati dalla loro terra, sia Ajalà che ha sempre sentito che Israele era il proprio paese e nonostante vi abiti se ne sente espropriata, sia Mohammad, che vi è tornato, ma non ha potuto comperare la casa nel luogo che sognava, il campo del nonno, perchè quel luogo è stato espropriato e devastato. Una profonda nostalgia pervade il loro discorso. Entrambi rivendicano per il loro popolo la primogenitura, l’essere arrivati per primi là. E il diritto divino di restarci. E’ casa loro.

Ajalà sostiene che l’esercito israeliano ha a cuore l’educazione dei ragazzi, che la guerra è stata necessaria, che il Muro difende e protegge, che l’esercito combatte, ma non fa terrorismo. Che nei territori bombardati gli arabi trascurano i loro beni, che non ricostruiscono le case, che non tengono con cura le loro cose, né i bambini, che non educano ma istigano all’odio. Anche le riflessioni sulle donne, sulla sessualità, i matrimoni e il velo, che partono  dalla costatazione di elementi comuni nelle due etnie, portano alla fine a mettere in luce il disprezzo e la svalutazione dell’altro.

Mohammad dice le stesse cose rovesciate, come in uno specchio,  chiama gli israeliani terroristi, afferma che lo Stato è pensato solo come uno Stato degli ebrei e perciò non andrà a votare. Anche riguardo alla propria professione di psicoterapeuta arabo-israeliano, che lavora in un centro israeliano, si coglie un conflitto profondo :”Nei convegni a cui vado ci troviamo tra terapeuti ebrei e palestinesi. I nostri dati hanno una specificità che non sempre i colleghi ebrei riescono a capire. Con loro è difficile aprire un discorso…..”

In qualche momento mi è parso di cogliere nelle due interviste un barlume di speranza, ma poi, la risposta successiva me lo cancellava.

Forse questo è quello che Cusin ha cercato di comunicarci,  quando, a conclusione della  seconda intervista,  parla con il suo interlocutore del sogno che ella stessa coltiva : “A volte ho sognato l’utopia di un unico Paese, dove viviate assieme in pace, nella ricchezza e nella prosperità di questa terra meravigliosa”.

Ma è un’utopia. Da Ajalà, a cui aveva chiesto come vede il suo futuro in Israele, non aveva avuto risposta. Solo silenzio.

Bibliografia

La  Sacra Bibbia.. CEI UELCI  Editrice Vaticana 2008

Franceschini. L’uomo della Città Vecchia. Feltrinelli. Milano. 2013

Freud S. (1912-13) Totem e tabù. OSF. Boringhieri. Vol. VII

Freud S. (1915) Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. OSF. Boringhieri. Vol. VIII

Freud S. (1929) Il disagio della civiltà. OSF. Boringhieri. Vol. X

Freud S. (1932) Perchè la guerra? Carteggio con Einstein. OSF. Boringhieri. Vol. X

Freud S. (1938)  L’Uomo Mosè e la religione monoteista. OSF. Boringhieri. Vol. XI

Freud S. (1938) Una parola sull’antisemitismo. OSF. Boringhieri. Vol. XI

Montagner Patrizia

Settembre 2017

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