La Ricerca

Merciai S.A. (2012) – Intervista sull’impatto della ricerca empirica e delle neuroscienze sulla psicoanalisi.

10/05/12

Silvio A. Merciai Psichiatra e psicoanalista (membro SPI e IPA), lavora a Torino.

Insegna “Neurobiologia dell’esperienza relazionale” alla Facoltà di Psicologia dell’Università della Valle d’Aosta e “Psicoanalisi e Neuroscienze” (con Vittorio Gallese) alla Facoltà di Psicologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È autore, con Beatrice Cannella, de La psicoanalisi nelle terre di confine, Raffaello Cortina Editore, 2009, Milano.

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Intervista a cura di M.Ponsi

 

1 – Settori rilevanti della comunità psicoanalitica intrattengono ormai da tempo un confronto approfondito con le neuroscienze. Quali sono gli effetti più rilevanti che tale confronto ha provocato, o sta provocando, sul piano della teoria e della tecnica psicoanalitiche?

Mi piacerebbe poter condividere l’idea che ci siano ormai settori rilevanti della comunità psicoanalitica ad intrattenere un confronto approfondito con le neuroscienze, realizzando così, tra gli altri, l’auspicio di un dialogo paritario e perciò arricchente espresso da Mauro Mancia nel suo pionieristico libro Psicoanalisi e neuroscienze (2006): Confronto, non incorporazione. Integrazione, reciproco apporto alla conoscenza delle funzioni della mente; reciproco rispetto dei limiti metodologici ed epistemologici di ciascuna disciplina. Ma invece mi sembra che la comunità psicoanalitica, in Italia e nel mondo, reagisca ancora spesso con fastidio o disinteresse, se non aperto rifiuto, al tentativo stesso di porre la questione dell’incontro con le neuroscienze o, più genericamente, di ambire ad uno studio scientifico della psicoanalisi. E quand’anche di neuroscienze si accetti di parlare, spesso non mi pare se ne vogliano trarre le implicite conseguenze a livello teorico e clinico, che necessariamente porterebbero ad un ampio ripensamento dell’impalcatura teoretica della nostra disciplina e ad un’adeguata considerazione delle nostre attuali conoscenze in tema di biologia della mente: ci si limita invece a trovare una narcisistica conferma al fatto che Freud aveva ragione, come nel celebre e fortunato articolo di Mark Solms del 2004; non mi sembra, insomma, che la situazione sia poi così cambiata rispetto al 2001, quando Simona Argentieri scriveva che molti cultori della psicoanalisi, preso atto del clima di riscatto e di ottimismo propiziato dalle neuroscienze, tranquillizzati dal veder riconosciuta anche dall’esterno la dignità della loro disciplina, esonerati dal dispendio energetico della difesa continua, si sono sentiti liberi di dedicarsi indisturbati al lavoro “interno”, senza alcun rimpianto per la frequentazione interdisciplinare. Scrivevamo, nel 2009, prendendo a prestito una nota affermazione bioniana, che questa guerra non è ancora finita, riferendoci alla sensazione che la prospettiva dell’incontro con le neuroscienze sembrasse ancora assolutamente minoritaria nella dialettica di opinioni del panorama internazionale e nell’eco stessa che ne offriva la letteratura specialistica e, se penso alle innumerevoli novità e scoperte prodotte da allora dal mondo delle neuroscienze, mi verrebbe da esprimermi con le stesse espressioni. Rifacendomi alla distinzione operata da Vittorio Lingiardi nel suo contributo, mi collocherei perciò anch’io nel primo gruppo, che tuttavia vorrei crescesse e fosse sempre meno minoritario e marginale …

Sarebbe certamente assai complesso analizzare i motivi di questa resistenza alla creazione di un ponte tra le due discipline, per usare la metafora ormai invalsa nell’uso, sulla scorta dei primi suggerimenti di Mark Solms, e non è questa la sede adatta per sviluppare questo tema: ma il lettore interessato ne potrebbe trovare una plastica ed assai autorevole raffigurazione ascoltando – nel panel Psychoanalysis and Neuroscience: Ten Years Later, dell’ottobre 2010 (2), – la piccata risposta che Robert Michels dà alla proposta di dialogo presentata da Mark Solms (3) (e, pur riconoscendo indubbi elementi di condivisibile perplessità nelle sue parole (4), potrebbe forse ritrovare qui anche una buona rappresentazione dei sette peccati mortali della psicoanalisi di cui ci aveva parlato Robert Bornstein (5) …).

Una difficoltà al dialogo, un ritardo a coglierne gli aspetti propositivi, che mi pare sia una vera e propria occasione che rischiamo di perdere: perché, se pensiamo che psicoanalisi sia (anche?) una forma di terapia che, come tale, deve poter giustificare scientificamente le sue premesse teoriche e rendersi disponibile a verificare la sua efficacia ed i limiti della sua applicabilità (potendosi così “fondare su una teoria biologicamente plausibile ed empiricamente consolidabile”, come scrive Gilberto Corbellini), allora il dialogo con le neuroscienze – in clima di terza cultura e sotto l’egida dell’epistemologia della consilience (6), come recentemente richiamato anche nel bel libro The Age of Insight di Eric Kandel – non può che essere uno dei momenti essenziali di una riorganizzazione e per certi versi rifondazione del nostro assetto teorico. Si tratterà, naturalmente, di ben inquadrare i vincoli metodologici di questo possibile incontro, che non può certo ridursi ad una semplicistica giustapposizione di termini che, pur simili, si riferiscono peraltro ad aree semantiche non biunivocamente corrispondenti (si pensi, per esempio, al costrutto di inconscio che ha certamente accezioni diverse in ambito di neuroscienze cognitive e di psicoanalisi – oltre che tra le varie correnti di pensiero che si rifanno all’ispirazione psicoanalitica) e di costruire modelli di corrispondenza tra l’oggettività biologica studiata dalle neuroscienze e la soggettività psicologica osservata dalla psicoanalisi: e di perseguire il traguardo, per rifarci alle parole di Vittorio Gallese, di uscire dalla medietà statistica dell’analisi di un cervello statistico ed astratto e di passare invece alla possibilità di studiare il cervello specifico di un singolo individuo. Del resto, come ama ripetere Eric Kandel, siamo solo ai piedi della montagna da scalare …

Si farebbe torto, però, al lavoro pionieristico di quanti a questo dialogo hanno comunque creduto e ci si sono impegnati se non si rilevasse che, in un poco più di un decennio, le neuroscienze hanno offerto alla psicoanalisi – per ripensare la sua teoria – una rilevantissima quantità di contributi sul funzionamento mentale. La scossa inizialmente impressa dal movimento neuropsicoanalitico ha sicuramente germinato una messe di dati, che hanno finito con il riparare il peccato originale del primo momento, che era quello di mirare ad esplicitare le conferme neuroscientifiche delle originali intuizioni freudiane, in ciò superando il suo stesso pessimismo (7). Concordo in questo con Gilberto Corbellini quando scrive che il senso più fecondo della ricerca oggi non è quello di cercare una conferma neuroscientifica della dottrina freudiana o di qualche altro modello psicoanalitico ma invece quello di accettare la messa in discussione di idee che sono del tutto incompatibili con le conoscenze neuroscientifiche [che è il senso ultimo della proposta della consilience] perseguendo eventuali coincidenze [io direi, corrispondenze o congruenze] tra modelli psicodinamici e teorie neurobiologiche solo a posteriori.

Se, come scriveva Sidney Pulver alcuni anni fa in un citatissimo lavoro, si poteva parlare di una astonishing irrelevance delle neuroscienze per la pratica psicoanalitica clinica (ma io non penso che oggi si possa ancora sottoscrivere questa osservazione …), resta invece largamente dimostrata la preconizzata astonishing relevance per la teoria psicoanalitica, cioè per la precisazione e delineazione del modello di mente e di relazione interpersonale da cui il nostro lavoro terapeutico promana. In negativo, questo dialogo potrebbe salvarci una volta per tutte dall’ebbrezza della psicogenesi, che ha nel tempo affastellato affascinanti quanto indimostrate e indimostrabili teorie psicopatologiche (la fantapsicoanalisi, di cui parlava Simona Argentieri), aiutando gli psicoanalisti a sopportare le reazioni allergiche che possono avere nei confronti di idee che ci sembrano estranee, secondo la felice espressione di Mary Target. In positivo, leggere un compendio moderno di neuroscienze (come i recenti volumi di Baars & Gage o di Schachter e Coll.) finisce con il fornirci mille suggerimenti per ripensare alle teorie della mente su cui basiamo la lettura del nostro ed altrui mondo interno e potrebbe consentirci di salvare le scoperte di Freud (e della psicoanalisi, dopo di lui) senza necessariamente continuare a portarci dietro, reificati, i suoi vecchi modelli metapsicologici: un obiettivo sul quale, da noi, si è speso a più riprese Antonio Imbasciati.

Proverò qui di seguito ad elencare, in estrema sintesi, i settori del lavoro neuroscientifico che mi paiono di immediato interesse per lo psicoanalista:

  • Emozione e affetto sono il campo di studio dell’Affective Neuroscience, con i contributi fondamentali, tra gli altri, di Jaak Panksepp, Joseph LeDoux e Antonio Damasio: un enorme lavoro di studio che ha sottolineato la centralità dell’emozione in tutti i processi della vita psichica e la sua pervasività di ogni nostro atto mentale; suggerisco la lettura dell’ultimo libro di Antonio Damasio (Self Comes to Mind), recentemente tradotto in italiano per i tipi di Adelphi (Il sé viene alla mente), e il recente articolo di Joseph LeDoux, che suggerisce la revisione del concetto di emozione alla luce di costrutti meglio integrabili nella prospettiva evoluzionistica che informa ormai – vero paradigma, nel senso kuhniano del termine – la nostra riflessione scientifica.
  • L’emozione si è rivelata centrale anche nell’ambito del processo decisionale (Decision-Making), che è probabilmente una delle frontiere più battute della ricerca contemporanea, all’intersezione di molteplici discipline concorrenti (oltre alle neuroscienze ed alla psicologia, le scienze computazionali, l’etologia, la genetica e l’epigenetica, etc.) e che, allo stato attuale delle conoscenze, ci restituisce un’illustrazione, per certi versi molto preoccupante, del duplice meccanismo di funzionamento della nostra macchina cerebrale (con una dualità sicuramente ben intuita già dall’opera freudiana, ma, ancora una volta, non certamente ad essa direttamente riducibile: rimando qui il lettore all’ultimo libro di Daniel Kahneman, Thinking Fast and Thinking Slow) e della sua vulnerabile influenzabilità da parte dei meccanismi di priming.
  • Memoria, apprendimento e linguaggio sono argomenti abbastanza noti nell’ambito della psicologia del mainstream, ma certo le acquisizioni neuroscientifiche che si vanno susseguendo specie sull’ultimo dei tre temi (si pensi al costrutto dell’embodiment ed alla sua applicazione anche alla comprensione della metafora) stanno cambiando molti nostri punti di vista e sono forse stati i primi ad implicare una certa evoluzione del pensiero psicoanalitico …
  • Conscio e inconscio sono termini ormai di casa nell’evoluzione del pensiero neuroscientifico (un bel libro, fra i tanti: Incognito di David Eagleman) e qui si è superata di gran lunga – riconfermandola, ovviamente – la sottolineatura freudiana sulla centralità dell’inconscio: oggi sappiamo che praticamente tutta la nostra attività mentale è inconscia, che lasciamo svolgere all’inconscio – in outsourcing, per così dire – quasi tutte le nostre incombenze (e le svolge egregiamente!) tanto che la coscienza non è solo più un lusso, come ama ripetere Edoardo Boncinelli (arriva tardi; funziona meno bene; è limitata dalle nostre modeste risorse di attenzione e dalla limitatezza della nostra memoria di lavoro; non è capace di multitasking perché, a differenza dell’inconscio, opera in seriale e non in parallelo), ma è diventata quasi un puzzle della ricerca evoluzionistica, incerta su quale realmente sia il vantaggio di fitness che sicuramente essa implica essendosi affermata nella nostra specie. Della coscienza, infatti, sappiamo per certo solo che serve per l’apprendimento (simbolico) nella sua fase iniziale (le conoscenze apprese vengono poi depositate nelle memorie e permangono in noi in una modalità di fatto inconscia). Un problema già assai intricato che si è ulteriormente complicato con la recente scoperta delle reti neuronali che agiscono durante il cosiddetto resting state cerebrale, quando cioè il cervello non è occupato in nessuna specifica incombenza: una condizione ad alto dispendio energetico e che viene ritenuta, in qualche modo, correlato neurale dell’esperienza del sé. Il che, unito agli esperimenti – da Libet in poi, fino ai più recenti ottenuti con registrazioni intra-neuronali in pazienti svegli (8) – sulla cosiddetta free will ed agli studi sulla motivazione (il circuito dopaminergico del reward, di centrale importanza in tutti gli studi sulle dipendenze, e quelli, ancora poco compresi, del liking e del wanting secondo la distinzione proposta da Berridge), apre interrogativi certo inquietanti sulla struttura stessa delle nostre facoltà ritenute più elevate (la morale, studiata dalla neuroetica, la legge, la responsabilità personale, il controllo, la libertà e così via). E di qui, per esempio, gli studi sui meccanismi, e quindi sul possibile significato, del fenomeno onirico …
  • Un altro campo fondamentale di studio di fenomeni a noi consueti è quello della Developmental Cognitive Neuroscience, una modalità di studio dello sviluppo cerebrale (in senso sia filogenetico sia ontogenetico) che ci sta offrendo molteplici suggestioni (sul funzionamento dell’adolescente, per esempio).
  • Ma sono certamente le neuroscienze sociali (Social Cognitive Neuroscience) il settore di più diretta applicazione al nostro lavoro, perché vanno sempre più chiarendo i meccanismi cerebrali che presiedono alla costruzione della relazione interpersonale e forniscono quindi i correlati neurali dell’intersoggettività, articolandosi in grandi aree tematiche come quelle dell’attaccamento, dell’innamoramento (Romantic Love) e dell’amore (si pensi alle miriadi di studi sull’ossitocina, il possibile mediatore del Binding), della Teoria della Mente (la mentalizzazione). E, in questo ambito, il fenomeno del mirroring sta rivoluzionando tutto il nostro modo di pensare alla relazione interpersonale, costruendo possibili fondamenta neurali a molti dei fenomeni cruciali con cui facciamo i conti tutti i giorni, dall’imitazione all’empatia, dall’identificazione al transfert al controtransfert all’identificazione proiettiva …

Ai piedi della montagna, si diceva prima: con il possibile compito, negli anni a venire, di ricostruire una teoria psicoanalitica che di queste acquisizioni faccia tesoro per meglio comprendere i fenomeni che la clinica ci consente di osservare e quanto meno tentare di superare le mille psicoanalisi in cui si è frammentata l’intuizione freudiana; e, soprattutto, di evitare la pericolosa reificazione che troppo spesso, nella nostra storia, ha trasformato un’idea suggestiva in una pseudo-verità da difendere: così le neuroscienze potrebbero offrirci una forma di decantazione delle e nelle teorie della psicoanalisi da tanti orpelli dialettico-filosofici, alla ricerca di quello specifico su cui ancora dibattiamo, come ha recentemente ben scritto sulla nostra mailing list Mario Pigazzini.

Un lavoro che alcuni Autori hanno cominciato ad intraprendere – Mark Solms, Peter Fonagy, Daniel Stern, Mauro Mancia, Allan N. Schore, Daniel Siegel, per citarne i più noti (9) – e che io penso ciascuno di noi, avendo letto di neuroscienze e mantenendo un cervello in mente (una bella espressione, varie volte riproposta anche da Maria Ponsi) contribuisce umilmente a creare, giorno per giorno, nel suo ascolto psicoanalitico, perché, rifacendomi di nuovo alle sue parole, la soggettività dell’analista è fatta anche delle teorie che ha nella testa.

2 – Oggi, grazie allo sviluppo delle tecnologie di indagine cerebrale, è possibile mettere a confronto l’effetto terapeutico prodotto da uno psicofarmaco con quello prodotto da una psicoterapia e mostrare che entrambi producono la stessa modificazione in un’area cerebrale. Anche se siamo ancora agli inizi di questo tipo di studi e non disponiamo ancora di dati rilevanti, quali scenari apre la possibilità di mettere direttamente a confronto l’effetto terapeutico prodotto dalle terapie farmacologiche con quello prodotto dalle psicoterapie?

Mario Rossi Monti e Stefano Blasi hanno già lucidamente enumerato i problemi e le trappole della ricerca empirica in psicoterapia (10): la situazione diventa ancora più complessa quando si cerca di trovare, con l’ausilio delle tecniche di neuroimaging, elementi di conoscenza circa il funzionamento della psicoterapia che è, indubbiamente, una terapia biologica, e della terapia psicoanalitica in particolare, che, per comune esperienza, finisce con l’essere molto malamente traducibile in costrutti operazionali e manualizzabili.

In attesa di dati consistenti desunti dall’applicazione – ancora iniziale – delle tecniche trattografiche, dalle quali ci si aspetta una delineazione ed un’analisi dei percorsi e dei collegamenti all’interno della macchina cerebrale (lo Human Connectome Project), lo studio dei correlati neurali dell’intervento psicoterapico è proceduto, per questi motivi, assai lentamente: dando per scontato che la psicoterapia cambia il cervello e che quindi si tratta sostanzialmente di un’esperienza educativa, di apprendimento – come avviene in tutto il corso e in tutte le tipologie di relazione interpersonale – ci si è mossi con grande cautela e molte incertezze nel tentare di costruire le risposte alla domanda  “What works for whom, how and when”, compresa la variante troppo spesso dimenticata “What does not work for whom, how and when”, che riprendo dal testo di Vittorio Lingiardi.

La domanda sul come è stata la prima ad essere affrontata ed inizialmente, soprattutto estrapolando il lavoro di Joseph LeDoux sul cervello emozionale, si è ritenuto di poter asseverare (ma non dimostrare!) che, mentre il lavoro psicofarmacologico è essenzialmente mirato a ripristinare il corretto funzionamento di circuiti in qualche modo disfunzionanti, il lavoro psicoterapico, invece, è inteso a creare nuove connessioni o a rafforzarne di esistenti (in questo senso un apprendimento) soprattutto nell’ambito della dialettica corticalità-sottocorticalità (per esempio, corteccia vs. amigdala) con una certa analogia al concetto freudiano della psicoterapia come migliorata capacità dell’Io di governare l’Es.

Il già ricordato recente testo a cura di R. A. Levy, J. S. Ablon e H. Kaechele (Psychodynamic Psychotherapy Research: Evidence-Based Practice and Practice-based Evidence) offre nella sua sezione The Neurobiology of Psychotherapy uno spaccato delle ricerche più recenti in corso, che si sono complicate anche alla luce delle conoscenze genetiche ed epigenetiche che vanno accumulandosi, con particolare riferimento alla depressione. Non entro qui nel merito della descrizione dei singoli articoli, ma ne riassumo le conclusioni: vi è ancora molta incertezza e dati discordanti circa il fatto che farmacoterapia e psicoterapia agiscano producendo cambiamenti cerebrali rilevabili nelle stesse aree (come per lo più si riteneva sulla scorta dei primi studi, in particolare sulla sindrome ossessiva) o in aree diverse del cervello, come pure incertezza permane circa la possibilità che i cambiamenti osservati siano significativamente correlabili o no al dato clinico. Siamo dunque ancora in una fase molto iniziale e inconclusiva delle conoscenze in argomento, anche se conforta che comincino finalmente a comparire studi che si occupano di psicoterapia psicodinamica e non solo, come quasi sempre in passato, di terapie cognitivo-comportamentali (11). Segnalo, in tal senso, lo studio appena pubblicato da Anna Buchheim et al. (tra cui Horst Kächele e Otto F. Kernberg) che dimostra, dopo quindici mesi di trattamento psicoterapico ad indirizzo psicodinamico, variazioni significative della reattività delle corteccia cosiddetta limbica e di quella mediale prefrontale, quest’ultima in stretta correlazione con il miglioramento sintomatico.

Si aprono a questo punto, evidentemente, delle strade importanti di ricerca, anche clinica: non solo nei termini di quale terapia consigliare a chi, come si diceva, ma anche di come costruire forme nuove di integrazione tra terapia farmacologica e terapia della parola e di come articolare tipologie di interventi specificamente tagliati su misura del paziente (così come la farmacogenetica ci avvia a personalizzare il trattamento farmacologico sulla base della specifica dotazione genetica ed epigenetica del paziente, allo stesso modo cominciano ad apparire studi che cercano di stimare la prognosi di successo di una determinata psicoterapia sulla base del corredo genomico del paziente e della sua variabilità genica ed epigenetica).

Ma, per concludere, vorrei sottolineare che, se questi approcci sembrano – e sicuramente sono – alquanto avveniristici e sicuramente molte evidenze di ricerca dovranno ancora accumularsi prima che possano entrare nella pratica quotidiana dei nostri studi, nondimeno alcune riflessioni ci si impongono anche dal punto di vista tecnico già sulla base delle acquisizioni di cui disponiamo. Tali, per fare solo qualche esempio, l’uso del lettino alla luce del fenomeno del mirroring e delle acquisizioni sempre più significative circa la dinamica della percezione del viso e degli occhi e la sua rilevanza nella costruzione implicita della relazione interpersonale; il senso del concetto di libere associazioni (o dei vari costrutti da esso derivati) alla luce del fenomeno del priming, che ci parla dell’attivazione di reti neurali da parte di stimoli del tutto inconsci anche al soggetto che ne è, in un certo senso, vittima, ridimensionando quindi il possibile significato di derivati transferali che spesso siamo portati ad attribuirvi; il significato del sogno, che probabilmente è più da attribuirsi all’incontenibile bisogno umano di dare senso a qualsiasi esperienza mentale, e quindi alla cosiddetta funzione di interprete che Michael Gazzaniga attribuisce all’emisfero sinistro, che non ad una complessa elaborazione di desideri o contenuti rimossi; il ruolo dell’elaborazione analitica nei termini di rimaneggiamento della traccia mnestica dinamica (rievocare un ricordo significa averlo per un certo periodo in uno stato di instabilità che ne consente il re-immagazzinamento con una formulazione che tiene conto delle nuove associazioni e dei nuovi stati emozionali del momento) secondo i brillanti studi condotti, tra gli altri, da Cristina Alberini; gli studi in generale sulla plasticità cerebrale, a cominciare dall’inquietante The Brain That Changes Itself, di Norman Doidge; una vasta serie di lavori sulla regolazione emozionale, conscia e inconscia: e la lista potrebbe continuare.

Le neuroscienze non sapranno mai dirci come relazionarci con un paziente, come ascoltarlo e che cosa dirgli e sciocco sarebbe aspettarselo: ma mi piacerebbe molto che fossimo in grado di accettare la loro sfida per la costruzione di una disciplina che offra spazi interdisciplinari per la comprensione del funzionamento mentale e delle sofferenze dell’intersoggettività, e quindi, in prospettiva, per aiutarci come terapeuti e come gruppo umano, a vivere meglio. Perché in fondo, come ricorda Peter Fonagy in un’intervista a cura di Eliot Jurist, C’è un cervello solo: non c’è un cervello della terapia cognitivo-comportamentale, un cervello psicoanalitico, un cervello sistemico e un cervello kleiniano. Alla fine dei conti ci sono solo poche cose che fanno stare meglio le persone e sono queste le cose che dobbiamo davvero capire.

Note

1 – Ringrazio Beatrice Cannella che ha collaborato con me nella stesura di queste risposte e Maria Ponsi per la sua lettura critica di una prima bozza.

2 – La registrazione del seminario è disponibile in rete all’indirizzo

http://www.youtube.com/watch?v=zlkliGaIBQI

3 – Sostiene Michels nel suo intervento, tra l’altro, che sono i neuroscienziati a sentire come rilevante l’incontro con la psicoanalisi, perché delusi da quanto poco la loro disciplina sia capace di dirci circa il nostro funzionamento mentale, e non viceversa; che la psicoanalisi non può, per il momento, trovare niente di utile nello studio delle neuroscienze; e che quindi tra psicoanalisi e neuroscienze si potrebbe immaginare solo un improbabile ponte come tra Tokyo e Los Angeles …

4 – Per esempio laddove critica il fatto che l’incontro avverrebbe per lo più rifacendosi alla psicoanalisi freudiana classica, tralasciando quindi la sopravvenuta evoluzione del pensiero psicoanalitico da Freud a oggi: il che è anche vero, salvo che Michels lo dice nello stesso panel in cui, poco più tardi, Vittorio Gallese parlerà della rilevanza della scoperta del fenomeno del mirroring per la psicoanalisi relazionale contemporanea …

5 – E cioè:

  • insularity (l’isolamento autoreferenziale);
  • inaccuracy (l’utilizzo di concetti invalsi nell’uso anche dopo che gli stessi siano stati contraddetti o invalidati dall’evidenza sperimentale);
  • indifference (la tendenza ad ignorare come irrilevanti i risultati delle discipline contermini);
  • irrelevance (il ritiro progressivo dai grandi problemi della psichiatria e della società);
  • inefficiency (il ricorso a teorie astruse ed a costrutti idiosincratici);
  • indeterminancy (la mancanza di precisione e di operatività di molti costrutti chiave);
  • insolence (l’abitudine a guardare con un forte senso di superiorità e talora di arroganza le altre teorie).

6 – Il concetto di consilience (che, per i suoi riferimenti epistemici, dovrebbe rendersi in italiano pressappoco come convergenza esplicativa) rappresenta una proposta stimolante dell’epistemologia e della sociobiologia contemporanea: derivato dalla filosofia della scienza, esso è stato formalizzato nel 1998 da Edward O. Wilson e riproposto poi come segnale di un’esigenza irrinunciabile in relazione da un lato alla frammentazione del sapere e dall’altro alla teoria post-modernistica per la quale tutte le teorie sono ugualmente relative. Se la realtà è in ultima analisi unica, unificata dovrebbe esserne la conoscenza: consilience è per l’appunto il tentativo di mettere insieme in modo armonico ed integrato i vari “pezzi” del sapere, cioè le varie conoscenze che differenti discipline propongono dei medesimi ambiti di realtà, provvedendo a che le teorie costruite sui fatti empirici da parte di ciascuna non siano conflittuali con le altre consimili e offrendo così sia una sorta di criterio interno di verità sia una prospettiva per lo sviluppo.Applicata abitualmente alle discipline naturali – dalla fisica alla biologia – questo tipo di principio meta-teorico dovrebbe trovare ora impiego, secondo molti, anche nel campo delle discipline umanistiche, la psicoanalisi tra queste. Freud, da questo punto di vista, si preoccupò molto di questa dimensione e la sua originale teoria era fortemente consilient con la cultura dei suoi tempi, ma le successive revisioni intervenute nella storia del pensiero psicoanalitico hanno spesso avuto come conseguenza di reificare le sue concezioni in una sorta di dimensione astorica, una posizione, ovviamente, di scarso respiro e mortificante.

7- La biologia è veramente un campo dalle possibilità illimitate, dal quale ci dobbiamo attendere le più sorprendenti delucidazioni; non possiamo quindi indovinare quali risposte essa potrà dare, tra qualche decennio, ai problemi che le abbiamo posto. Forse queste risposte saranno tali da far crollare tutto l’artificioso edificio delle nostre ipotesi. [Sigmund Freud, 1920, pag. 245]

8 – Itzhak Fried, Roy Mukamel, and Gabriel Kreiman (2011). Internally Generated Preactivation of Single Neurons in Human Medial Frontal Cortex Predicts Volition. Neuron, Volume 69, Issue 3, 548-562, 10 February 2011.

9 – Per una panoramica del lavoro di questi Autori mi permetto di rimandare al nostro libro …

10 E quanto agli atteggiamenti assai controversi con cui la comunità psicoanalitica si rivolge al tema della ricerca in psicoanalisi rimando al recente dibattito Psychoanalysis and Empirical Science: A Discussion ospitato sul numero di febbraio 2012 del Journal of the American Psychoanalytic Association, con gli interventi di Steven T. Levy, Irvin Z. Hoffman, Jeanine M. Vivona, C. Seth Warren, Gary Walls, Morris N. Eagle e David L. Wolitzky a continuazione dello scambio tra Hofmann e Eagle & Wolitzky di cui aveva già dato conto Maria Ponsi con una sua nota pubblicata in questa stessa sezione del sito.

11 – Colgo l’occasione per segnalare al lettore che il libro di cui stiamo parlando rappresenta una buona visione complessiva dello stato dell’arte della ricerca in psicoterapia psicodinamica, come dimostrano i titoli delle sezioni in cui è articolato:

1)Outcome Research

2)The Neurobiology of Psychotherapy

3)Theory, Technique, and Process

4)Single Case Studies

5)Assessing Change

Bibliografia

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16 Maggio 2012

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