The Voice of Hind Rajab. Recensione di V. Marchesin e M. Montemurro

The Voice of Hind Rajab. Recensione di V. Marchesin e M. Montemurro

28/08/25
The Voice of Hind Rajab. Recensione di V. Martesin e M. Montemurro

Parole chiave: guerra, angoscia

Autrici: Valentina Marchesin e Mirella Montemurro
Titolo: “The Voice of Hind Rajab”
Dati sul film: regista di Kaouther Ben Hania, Tunisia, Francia, 2025, 90’
Genere: drammatico

“The Voice of Hind Rajab” di Kaouther Ben Hania, Leone d’Argento – Gran Premio della
Giuria alla 82° Mostra del Cinema di Venezia, si è già imposto come evento culturale e
simbolico. La sua forza non risiede soltanto nell’opera cinematografica, ma nell’eco che ha
saputo generare: ventitré minuti di applausi, un impatto mediatico immediato, una
discussione internazionale che lo ha trasformato in un segno del nostro tempo.
Il film ricostruisce gli ultimi istanti di vita della piccola Hind Rajab, intrappolata a Gaza in
un’auto trivellata dal fuoco, mentre chiede aiuto alla Mezzaluna Rossa, prima che lei e i
soccorritori vengano uccisi. Un’immagine insostenibile dell’innocenza spezzata che
continua a parlare, anche dopo la morte.
Ben Hania sceglie la via del docudramma a partire dalla voce reale della bambina: il suono
diventa testimonianza, la voce ferita e memoria. Nessuna immagine della violenza viene
mostrata: ciò che resta è la pura sonorità, segno di un reale insopportabile. Lo spettatore è
così costretto a confrontarsi con il trauma nella sua intrusività, senza difese percettive;
accanto alla voce di Hind risuona il silenzio del mondo.
La regista ambienta tutto in un’unica centrale operativa, lasciando la violenza fuori campo.
“Volevo concentrarmi sull’invisibile: l’attesa, la paura, il suono insopportabile del silenzio
quando l’auto non arriva. A volte ciò che non vedi è più devastante di ciò che vedi”,
spiega. Le registrazioni autentiche delle telefonate con la Mezzaluna Rossa diventano il
cuore pulsante del film, intrecciate a una narrazione minimalista in cui ogni gesto, respiro e
silenzio amplificano l’angoscia.
Lo spettatore è trascinato in un processo di identificazione: siamo, a tratti, Hind che
implora, e i soccorritori che non riescono ad arrivare. Il film fa emergere una colpa
condivisa, la responsabilità di un sistema che ha fallito, e i ventitré minuti di applausi a
Venezia assumono il valore di un rito collettivo di espiazione.
Dove la politica genera rimozione e negazione, il cinema restituisce parola e ascolto.
Questo lavoro non offre consolazioni narrative: la voce resta sospesa, non pacificata.
Spetta allo spettatore assumersi quella memoria come responsabilità.
The Voice of Hind Rajab è già entrato nel discorso collettivo e nella coscienza pubblica. È
un atto psichico e politico: un cinema che non consola, che non mostra ma fa ascoltare,
trasformando la voce di una bambina in un monito universale. La vittoria al Leone
d’Argento conferma che il cinema ha ancora il compito di custodire le voci che rischiano di

perdersi nel rumore del mondo. Hind Rajab non è più soltanto una bambina palestinese
vittima della guerra: è la voce che ricorda che dietro i numeri e i titoli dei giornali ci sono
vite concrete e irripetibili.
Il film interroga i confini stessi del cinema, oscillando tra documentazione e finzione, e
solleva domande etiche difficili sull’uso di registrazioni autentiche. La sua forza risiede
nella verità che nessuna recitazione avrebbe potuto rendere, facendo della voce di Hind
un monito indelebile: non voltarsi dall’altra parte.

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