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15 Giugno 2015 CMP Cristina Alberini – Consolidamento della memoria

25/08/15

Report a cura di Giorgio Mattana

Centro Milanese di Psicoanalisi

Il 15 giugno, alla Casa della Cultura di Milano, nell’ambito di una serie di incontri interdisciplinari aperti al pubblico, organizzati dal Centro Milanese di Psicoanalisi, Cristina Alberini, neuroscienziata e psicoanalista statunitense di origini italiane, ha illustrato i risultati dei suoi studi sulla memoria. Dopo la presentazione di Antonio Imbasciati, Alberini, scopritrice, nel 2011, di un importante fattore di fissazione dei ricordi, l’ormone IGF-II (fattore di crescita insulino-simile II), si è soffermata sulle modalità, i tempi e i meccanismi biologici del consolidamento e riconsolidamento a lungo termine della memoria. Muovendo dalla distinzione fra memoria esplicita, o dichiarativa, e memoria implicita, o procedurale, non senza sottolineare, peraltro, le complesse interazioni fra le due, la neuroscienziata ha sottolineato come entrambe facciano parte della memoria a lungo termine, in quanto distinta da quella a breve termine, o di lavoro. I ricordi immagazzinati nella memoria a lungo termine durano giorni, settimane, mesi o anni, mentre le informazioni contenute nella memoria a breve termine decadono, in genere, nel giro di pochi minuti. Il circuito della memoria esplicita vede le sue strutture principali nel lobo temporale mediale, in particolare nell’ippocampo e nelle cortecce paraippocampali, mentre per quello della memoria implicita si tratta principalmente della neocorteccia, dell’amigdala, del corpo striato e del cervelletto. Siamo, dunque, nell’ambito della memoria a lungo termine, che nelle sue componenti esplicite, legate al ricordo consapevole di eventi specifici, fra cui in primo luogo quelli autobiografici, costituisce parte integrante della nostra identità, di quello che Damasio definirebbe il nostro “sé autobiografico”. Di esso, tuttavia, a un livello più profondo, fanno parte anche le componenti implicite della nostra memoria, che presiedono a fenomeni come il priming – il riconoscimento inconsapevole di un oggetto – e alla conservazione di apprendimenti motori e di reazioni emotive, anch’essi non suscettibili di rievocazione cosciente.

La scoperta illustrata da Alberini non è tanto relativa al carattere generalmente dinamico della nostra memoria, che come illustrano da tempo le scienze cognitive non consiste certo in un archivio in cui sono conservate in modo statico le rappresentazioni degli eventi, ma riguarda più specificamente le modalità, i tempi e i meccanismi biologici che presiedono alla sua continua “programmazione” e “riprogrammazione”. Ciò, con particolare riferimento agli eventi negativi, genericamente stressanti, e ancora più in particolare in riferimento al trauma. Tale scoperta è supportata da studi comportamentali sull’apprendimento e la memoria animale, in particolare dei ratti, dall’analisi di casi di amnesia anterograda e retrograda dovuti a danni cerebrali, a partire dall’ormai classico paziente H.M., al quale furono asportati entrambi gli ippocampi, e da ricerche sui fattori biologi di fissazione dei ricordi condotte sul cervello dei ratti. Esiste, dunque, nell’archiviazione a lungo termine dei ricordi, una fase di consolidamento, appena successiva alla loro acquisizione, che li conduce dalla labilità alla stabilità, con contemporanea perdita di parte dell’informazione e selezione delle componenti più significative, cui generalmente seguono, in occasione delle loro eventuali rievocazioni, diverse fasi di riconsolidamento, durante le quali i ricordi ridiventano temporaneamente labili, per poi consolidarsi ancora più stabilmente. E’ evidente l’interesse di tali risultati per la psicoterapia e la psicoanalisi, in modo particolare per quanto riguarda il trauma. Come per tutti i ricordi che si fissano, e a maggior ragione nel caso degli eventi traumatici, è la componente emotiva, in quanto indice della loro salienza, a fungere da attivatore della loro archiviazione a lungo termine nella memoria esplicita, con tanto di contestualizzazione spaziotemporale, ma anche nella memoria implicita, per quanto riguarda le componenti più squisitamente emotive che li hanno accompagnati. Nel primo caso, entra in gioco inizialmente l’attività dell’ippocampo e secondariamente un’elaborazione “rientrante”, di lungo periodo, fra ippocampo e corteccia paraippocampale, mentre nel secondo caso è determinante l’attività dell’amigdala. Tali conoscenze – sostiene Alberini – permettono di chiarire alcuni equivoci e di orientare la pratica clinica coerentemente con quanto la ricerca scientifica ci insegna sul funzionamento della memoria.

I punti da tenere presenti, schematizzando un po’, sono i seguenti: appena dopo l’esperienza emotivamente significativa avviene la fase del consolidamento a lungo termine del suo ricordo, il cui meccanismo biologico principale è quello della sintesi proteica, insieme ad altri fattori come l’azione dell’ormone IGF-II. A distanza di tempo, in occasione delle sue successive, eventuali rievocazioni, il ricordo attraversa nuovamente una fase di “labilizzazione”, per poi fissarsi in modo ancora più stabile nella memoria grazie a un’ulteriore sintesi proteica (riconsolidamento). Fino a questo punto, la curva del consolidamento del ricordo segue una fase ascendente, dopo la quale, a lungo andare, esso tende a decadere. Ne consegue che la semplice rievocazione del ricordo dell’esperienza traumatica non è, di per sé, utile alla sua elaborazione terapeutica, essendo, al contrario, la rievocazione un fattore di stabilizzazione del ricordo. Fondamentalmente, rievocare un ricordo spiacevole, in modo particolare un ricordo traumatico, significa avviarne il riconsolidamento e fissarlo in modo ancora più indelebile nella memoria. Tuttavia, se nel corso della rievocazione si produce un’interferenza, come quando, nell’uomo, al compito di rievocazione di una lista di parole si sovrappone quello della memorizzazione di una seconda lista, o come quando si inibisce la sintesi proteica nel cervello dei ratti con agenti farmacologici, appena dopo aver indotto in essi la rievocazione di un’esperienza spiacevole, si assiste a un significativo indebolimento o addirittura a una perdita del ricordo. In altri termini, tali interferenze “approfittano”, nel corso del processo di riconsolidamento, della fase di “labilizzazione” che precede il rafforzamento del ricordo. A riconsolidare e, dunque, a ridiventare temporaneamente labili, sarebbero soprattutto le componenti emotive, piuttosto che quelle cognitive, dell’evento spiacevole o traumatico: un dato piuttosto incoraggiante per il trattamento psicoanalitico e psicoterapeutico dei casi di disturbo post-traumatico da stress, depressione, fobie e in genere disturbi che si basano sulla presenza di memorie patogene. Non solo, ma è anche dimostrato che quanto più l’esperienza spiacevole (una lieve scarica elettrica, nel caso dei ratti) è recente, tanto più, in seguito alle rievocazioni (esposizione alla stessa situazione, ma in assenza di scossa), essa tende a fissarsi, mentre quanto più essa è remota, tanto meno le rievocazioni tendono a stabilizzarla. In altri termini, il riconsolidamento è relativo a una “finestra temporale”, che nell’uomo può durare mesi o anni, ma che comunque è temporalmente limitata. Pertanto, quanto più il ricordo è recente, tanto più, in occasione delle sue rievocazioni, è sensibile alle interferenze, che, se efficaci, possono indebolirlo o cancellarlo, mentre quanto più il ricordo è remoto, tanto più esso tende a essere stabile, a non riconsolidare e, dunque, a non essere sensibile all’interferenza. Tuttavia, come mostrano gli esperimenti sui ratti, ciò non sembra verificarsi nel caso del trauma, inteso come evento non semplicemente spiacevole ma altamente stressante (una scarica più intensa), il cui ricordo, quando è recente, non va incontro al riconsolidamento e alla connessa fase di “labilizzazione”. Il ricordo del trauma tende a riconsolidare più tardi e, dunque, a essere accessibile all’interferenza solo in un secondo tempo, oltre a manifestare una resistenza all’estinzione più elevata degli altri ricordi.

Alberini e i suoi colleghi si sono chiesti quale sia il fine biologico del riconsolidamento dei ricordi: si tratta forse di un processo di updating, in cui si confronta la vecchia esperienza con la nuova in vista di una sintesi? L’esempio è quello del ratto che entra nella gabbietta in cui gli è stato somministrato lo stimolo elettrico, senza riceverlo di nuovo. Ebbene, gli studi sperimentali sulla memoria di evitamento mostrano che, a seguito della rievocazione, non avviene alcuna modificazione del ricordo in vista dell’integrazione della nuova esperienza, bensì accade semplicemente che al primo ricordo se ne aggiunga un secondo. Non esiste, dunque, un meccanismo di “aggiornamento”, ma accade semplicemente che si formi un nuovo ricordo: il vecchio ricordo riconsolida e a esso se ne aggiunge uno nuovo. Quali conclusioni terapeutiche possono essere tratte da tali dati, nell’ipotesi, ancora da dimostrare, che i meccanismi scoperti operino anche nell’uomo? Una considerazione di carattere generale è che, come già notato, la rievocazione di un evento spiacevole, e in modo particolare di un evento traumatico, ha effetti diversi a seconda della fase in cui avviene, cosa che suggerisce di riservare una notevole attenzione alla variabile tempo. Inoltre, bisogna tenere presente che, nella fase di riconsolidamento, la rievocazione, in assenza di interferenza, tende a fissare ancora di più l’evento nella memoria. Non solo, ma l’interferenza, per indebolire l’impatto patogeno del ricordo, deve essere efficace, pena l’ottenimento dell’effetto opposto a quello desiderato. Un’altra conclusione importante è che, contrariamente a una concezione diffusa in psicoanalisi e avallata, a giudizio di Alberini, da una cattiva pubblicistica neuroscientifica, quando si produce un’interferenza nel corso del riconsolidamento successivo alla rievocazione, che nella situazione clinica potrebbe essere rappresentata dall’assenza dell’oggetto traumatico e dalla presenza empatica del terapeuta, quest’ultima non modifica la memoria traumatica, ma vi aggiunge un altro ricordo. In altri termini, il ricordo del trauma non viene modificato dalla nuova esperienza e non avviene alcuna sintesi o updating fra le due esperienze, bensì si mette a disposizione del soggetto un nuovo ricordo – potremmo dire una nuova funzione – che gli permette di elaborare il primo. A ciò si deve aggiungere che le componenti cognitive del trauma, relative al suo contenuto e alla sua contestualizzazione spazio-temporale, depositate nella memoria esplicita, sono molto più resistenti all’estinzione di quelle emotive, appannaggio della memoria implicita, il che autorizza una certa fiducia nella pratica terapeutica. Come commenta Anna Ferruta intervenendo nel dibattito, coordinato da Michele Stuflesser, il discorso neuroscientifico converge con alcune recenti concettualizzazioni psicoanalitiche del trauma e del suo trattamento, in particolare con l’indicazione di Antonello Correale, che suggerisce di lavorare “ai bordi dell’area traumatica”, modificandone la ricezione emotiva piuttosto che cercando di intervenire sul suo contenuto. Come auspicato da Imbasciati, il dialogo fra psicoanalisi e neuroscienze può avvenire con reciproco vantaggio, e la convergente indicazione delle modalità attraverso le quali è possibile incidere sul trauma ne rappresenta un esempio significativo.   

Luglio 2015

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Vedi anche: http://www.cmp-spiweb.it/iniziative/evento.asp?id_notizia=476

In Ricerca:

Merciai S.A. “Intervista sull’impatto della ricerca empirica e delle neuroscienze sulla psicoanalisi”. 2012

Ultime di Ricerca e Neuroscienze a cura di Maria Ponsi

In Spipedia:

 “Memoria Implicita” di Cristiana Pirrongelli

“Trauma precoce cumulativo” di Franco De Masi

“Trauma/Psicoanalisi”

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