Eventi

Badoni M.

10/06/14

Marta Badoni (Discussant nel panel “ Identificazione e formazione delle strutture psichiche”. Relazioni di Paola Marion, Luca Nicoli, Fabrizio Rocchetto, Elena Molinari)

Tra il fare e il dire

Muovendomi sulle tracce dei quattro lavori qui presentati terrei come “filo rosso” , come indicatore di posizione, quello stare tra il fare e il dire che corrisponde a quello che Bion chiama il linguaggio dell’ “achievement “. Achieve è raggiungere una posizione, quasi conquistarla; Racalbuto (1994) sottolinea la necessità di ricorre a questo linguaggio quando è minacciato il passaggio tra bios e psiche; il tema di questo congresso ci porta a pensare che è un linguaggio necessario all’origine e in ogni rapporto originale , un linguaggio che permette di raggiungere e tenere la propria posizione nel confronto con l’altro: non si tratta di raggiungere una posizione definitiva, ma di una condizione che permetta di affrontare l’esperienza del vivere e come Bion ci ha insegnato per poter apprendere dall’esperienza; mi sento di aggiungere che è il linguaggio di base di quello che Cahn chiama l’oggetto soggettualizzante. Egli ne parla infatti come di un movimento che fa di sé, a partire dall’altro, una realtà viva ed esclusiva: è l’entrata in un tempo proprio a partire da una identificazione fondatrice. E’ il linguaggio che usano le madri nei primi accudimenti, quando, mentre fanno qualcosa con i loro bambini, si rivolgono a loro parlando col noi, un plurale che apparentemente sopprime la differenza, ma che di fatto sostiene la separatezza e indica i diversi gradienti ( o gradini) dell’esperienza in corso.

Con queste premesse partirei per un breve viaggio per le quattro situazioni cliniche, che seppur da posizioni diverse, hanno a mio parere molto a che fare con l’utilizzo di questo linguaggio, con i fondamenti di una identità a partire da una identificazione fondatrice. Ho scelto una progressione diversa da quella dell’ascolto di oggi: essa segue i funzionamenti mentali dei pazienti che, proprio perché diversi e apparentemente, nel mio percorso, in progressiva evoluzione, potrebbero aiutarci a giocare coi tempi della cura, seguendo il suggerimento che propone il lavoro di Paola Marion riferendosi alla Nachträglichkeit , quindi a una dimensione non lineare del tempo. Si tratta di insistere sul lavoro di ri-significazione costante che l’apparato psichico promuove, rispetto alla sue memorie.

Inizio dunque dal caso di Elena Molinari (L’azione che attraversa il vuoto), alle prese con Giulio, 4 anni, sofferente di disturbi dello spettro autistico; Giulio è compulsivamente avvolto nei sui scarabocchi, a sua volta nel rischio di avvolgere la sua terapeuta in un sonno ipnotico che paralizza le funzioni mentali.

Elena, seguendo Bion; ipotizza – cito – “che esistano all’inizio dello sviluppo due funzioni che si sviluppano in parallelo su due livelli diversi: un livello in cui il contenimento prende forma attraverso un processo di mimesi, un flusso di forme di identificazione adesiva; un livello trasformativo che attraverso la funzione α spinge la trasformazione dell’esperienza sensoriale verso forme di significazione.”

Il tempo passato con Giulio scorre lento, ripetitivo, piove sul bagnato potremmo dire: resta la fascinazione paralizzante di veder l’acqua scivolare nel bicchiere per poi scorrere da un contenitore all’altro. E’ il tempo dell’indifferenziato.

In un momento in cui tutto sembra perduto, un momento catastrofico potremmo dire, ecco che la situazione cambia di direzione. Do qui il senso primo della parola catastrofe, il cambiamento di direzione repentino; qui la direzione cambia proprio tramite la capacità dell’analista di cambiare a sua volta direzione, trasformando una palude, anche mentale, uno stato mentale indifferenziato, in un gioco. Gioco noto, che da sempre affascina i bambini ed è temuto dalle madri: quello di calpestare l’acqua delle pozzanghere. E’ un gioco antico (quasi quanto quello di buttare i giochi dal seggiolone) anche se accade in una età in cui i bambini sanno camminare. E’ il gioco di rendere vivo qualche cosa che è morto, è il piacere di produrre schizzi là dove è in agguato il pantano, qui con l’aggiunta del piacere condiviso di lasciare una propria impronta, di imprimere il proprio segno nel mondo. Produrre schizzi e attivare proiezioni, richiamando con violenza discreta le madri, semmai fossero troppo assorte o distratte, a un ruolo di presenza attiva e di contenimento. Cambiando direzione Elena fa un tuffo indietro nel tempo: tramite un movimento di identificazione apre a Giulio la strada del gioco: “dai che ci buttiamo”…è questo il noi di cui prima dicevo: puoi giocare con me senza paura perché anche io sono passata di lì e so cosa si prova.

Scrivevo recentemente (Badoni,2012) che lo stare con i bambini nello spettro autistico richiede una “resa creativa al loro funzionamento”. Ritengo che proprio questo succede in questo caso come Elena descrive: la resa qui equivale al restare immersi in “un flusso di forme di identificazione adesiva” – la creatività promuove invece “un livello trasformativo che attraverso la funzione α spinge la trasformazione dell’esperienza sensoriale verso forme di significazione.”

E’ questo il filo sospeso su cui l’acrobata/psicoanalista oscilla, sul quale è sospesa la vita psichica .

Seguendo il mio filo passo ora al lavoro di Luca Nicoli :Dare forma all’informe ( Mi pongo. L’arte della plastilina nel processo di soggettivazione adolescenziale) . Il titolo stesso ci porta dritti a Winnicott (Gioco e realtà e al suo concetto di Informe ) “condizione in cui si trova il materiale prima di essere modellato, tagliato, formato e messo insieme”, nonché all’oggetto malleabile di Marion Milner, ripreso da Roussillon, infine al congresso FEP di Basilea (2013):”Formelessness, deformation, transformation” su cui ha scritto Laura Colombi (2013).

Se l’immagine del “né carne/né pesce” riferita alla preadolescenza, insiste sulla problematica della differenza – in particolare differenza tra i sessi –il caso di Zito, quattordicenne, ha piuttosto a che fare con la fatica e la sofferenza di dare forma al trauma, di presentarlo prima ancora che di rappresentarlo.

Tornando all’oggetto malleabile Nicoli sottolinea le proprietà fondamentali del pongo (plastilina): l’indistruttibilità, che gli permette di sopravvivere all’uso, e l’estrema sensibilità al tocco; queste due, combinate insieme, garantiscono- ci dice- una capacità di trasformazione infinita. Aggiungerei per aver in tante sedute contribuito a questo lavoro di messa in forma, che il pongo è più malleabile se riscaldato, tenuto tra le mani, così come il contenitore relazionale richiede una giusta temperatura perché l’informe possa prendere forma. Sarà la disponibilità dell’oggetto del transfert a farsi usare sopravvivendo all’uso, ad accogliere l’impronta delle emozioni senza irrigidirle in traduzioni affrettate, quello che permette che delle trasformazioni avvengano. Mi sono molto interrogata sulla sequenza di queste trasformazioni nel lavoro analitico con Zito: il riferimento a un episodio di bullismo permette di denunciare un fatto traumatico; sembra, questo primo movimento, una denuncia evacuativa: un mettere a verbale un fatto per scrollarselo un poco di dosso: Zito dice: “Ora che tu conosci questa storia, io posso dimenticarmela di nuovo”. Ma non è solo evacuazione: il potersela dimenticare, dopo averla depositata nell’analista, sembra essere la premessa per poterla risignificare après-coup, in un gioco lungo quanto la vita di risignificazioni. Possiamo così ipotizzare che, tra depositi, costruzioni e ricostruzioni, l’esperienza del trauma continui segretamente a seguire le sue tracce nella memoria del corpo “trovando il pongo” , toccandolo sotto lo sguardo garante dell’analista – non mi farà troppo male – dandogli una forma, sotto la spinta degli affetti; il risultato è una cacca (il pallino nero, o un grumo oscuro di consapevolezza) che si fa perla (fig. 1) , se non che la conchiglia che l’avvolge stretta è penetrata da l’‘accoltellatore’ verde, a sua volta penetrato dal coltello nero. Il tutto apre più enigmi di quanto ne risolva, ma l’importante è farsi domande ( e il danno della domanda è la risposta) e continuare a porre e deporre; le domande continuano nella figura successiva, in cui la mente di Zito sembra effettivamente in lievitazione: anche qui procediamo con congetture solo notando che i personaggi sono due questa volta, uno morto e uno bloccato; la paralisi non impedisce uno scambio di cuori e la denominazione chiara, se ho capito bene di un affetto: rabbia.

Resta piuttosto misterioso per me, ma forse anche per Nicoli, l’ultima seduta prima delle vacanze, quando repentinamente e forse proprio sotto l’effetto della separazione il pongo cessa di essere, come l’ elemento di un sogno, modificabile, plasmabile, trasformabile per essere fissato nella parola scritta; sembra che questo metta la parola fine sul gioco col pongo (ma spero non sul lavoro di rappresentazione) fino a quel momento instaurato tra Zito e il suo terapeuta. Anna Ferruta (2008), commentando uno scritto di Silvana Borutti fa l’ “elogio della presentazione”, l’immagine essendo in grado di “abitare il mondo della mente con una sua autonomia che trascende il soggetto”. Spero che la mia curiosità possa essere appagata nella discussione che seguirà.

Altro destino ha la parola scritta nella situazione di Emanuele, il ragazzo di 18 anni seguito da Fabrizio Rocchetto (Diventare soggetto ed erosione dello spazio potenziale).

Rispetto al mio filo rosso – tra fare e dire – il virtuale occupa una posizione paradossale, perché, appunto in quanto virtuale, potrebbe chiamarsi fuori da questo dilemma; eppure…

Ho ascoltato le canzoni di Noyz Narcoz che, confesso non conoscevo…Nell’ascolto succedono tante cose e succedono soprattutto nel corpo che viene letteralmente percosso dal ritmo mentre una esplosione di beta- parole sollecita la mente a un tentativo forse inutile di alfabetizzazione…ritrovo atmosfere simili a quelle descritte da Elena “un flusso di forme di identificazione adesiva” giacché mi pare che musica e parole abbiano quasi il compito di fornire un collante, di imporre un sentire comune; forse proprio la musica, così ritmata, tiene assieme le parole che invece tendono a schizzare da tutte le parti; credo che il tutto serva a impedire lo sfaldarsi di stati del sé già ai limiti della frammentazione. Siamo di nuovo nell’informe, o, se ho capito bene quanto ci vuole dire Fabrizio, di fronte a una erosione pericolosa dello spazio potenziale. Fabrizio parla infatti di un ragazzo che deve adottare difese eccezionali per contrastare l’urto materno, un troppo di eccitazione (un ragazzo “iper” ci dice Fabrizio ) che tende a mandare in pezzi il suo funzionamento mentale: l’urto musicale potrebbe servire a controbilanciare provvisoriamente l’urto materno? Credo di sì, in quanto controllabile e in quanto condiviso con altri ascoltatori, virtuali o non.

Tuttavia, controbilanciare l’urto materno non basta a garantire a Emanuele che il suo processo di soggettivazione proceda; riuscirà a farlo in quanto Fabrizio, che è tra gli ascoltatori, riesce a mettersi in mezzo, a occupare un’area intermedia di esperienza (Winnicott) , tra gli ascoltatori qualunque, appostati dietro lo schermo del pc/telefonino( e dietro lo schermo beta) e un ascoltatore che offre un suo ritmo, il setting, una sua parola: questa presenza ritmica e attenta (il setting è una promessa di attenzione) favorisce un lento spostarsi da una situazione eccitata a una relazione goduta: “Dottore, m’è piaciuto”. Con il godimento siamo passati anche qui all’area del gioco; essa a poco a poco viene a costituire uno spazio tra analista e paziente, lo spazio della differenziazione, premessa flebile, ma fondante, perché il ragazzo possa gradualmente avvicinarsi al riconoscimento, nella sofferenza, delle figure genitoriali. Il cambiamento è annunciato da un messaggio dal contenuto angoscioso indirizzato però a un solo ricevente, l’analista. L’analista riceve e risponde: “forse ti piacerebbe scrivere” Il racconto che segue porta nel mito: il mito della nascita di Emanuele (e della psicoanalisi): siamo in presenza di un bambino Difettato (piede torto) e anche Capolavoro senza prezzo (vedi l’intervento costoso offerto dallo zio): Emanuele può, passando dal gruppo dei pari, avvicinarsi alla sua realtà. Fabrizio Rocchetto scrive: “L’abuso del virtuale e del digitale gli hanno permesso di sottrarsi al crescere differendo il confronto con il reale e con se stesso”, ma forse, aggiungo, era un differire inevitabile, magari anche dolorosamente necessario. Siamo infatti nella dinamica di base della Origine, quella a cui è assegnato un lavoro di differenziazione, che presume la capacità di affrontare all’origine un lavoro di lutto: il figlio nato non combacia col figlio pensato e il processo di soggettivazione per riuscire necessita che l’oggetto soggettualizzante sappia farsi da parte. Chi cede il passo sulla strada di Edipo?

Il lavoro di Paola Marion –( La sessualità infantile è precoce o profonda? Alcune considerazioni sulla sessualità infantile nel processi di soggettivazione )- ci aiuta riflettere sul tema. Partiamo dunque dalla scena primaria, da quella che ci ha generati e confrontati con una incognita alle origini; essa è fondata peraltro su una ambiguità: il figlio-prodotto della scena primaria, messo sulla scena del mondo ‘a sua insaputa’ nasce in una contraddizione: sta a proiettare nel futuro la generazione dei padri e delle madri, sta anche a dire che i protagonisti della scena primaria nell’atto di generare muoiono, passano infatti da una generazione all’altra. In ogni atto di nascita c’è anche un annuncio di morte. E poiché è il corpo che testimonia della vita, del tempo e della morte, ecco l’immane lavoro psichico che la mente dell’uomo deve fare in virtù di questo legame col corpo che, ci ricorda Paola, è inserito in un legame relazionale e poggia sulla facoltà di esperire: fare e avere esperienza. Da cui il carattere di Giano bifronte della sessualità infantile, costantemente in bilico tra un troppo e un troppo poco, sospesa a un enigma che è lì per promuovere curiosità, che si rinnova continuamente, che si ripete nella relazione analitica.

Arriviamo così al sogno di D. . Il sogno è un prodotto evoluto dell’informe “condizione in cui si trova il materiale prima di essere modellato, tagliato, formato e messo insieme”. Dico prodotto evoluto (rispetto ai prodotti usati nelle situazioni precedenti) in quanto il sognare e il raccontare il sogno al proprio analista presume – qui in ogni caso – la disponibilità ad entrare in un’area di gioco, cui darà forma il lavoro analitico. Una forma tuttavia, fatto della stoffa di cui sono fatti i sogni, quindi lieve, capace di modellarsi di volta in volta sul corpo del transfert e sui tempi del lavoro analitico.

D. sogna l’abito che la farà sposa: nel provarlo e riprovarlo ci immerge nel fare, in un’area di esperienza tattile-percettiva che ci riporta al corpo e all’esperienza del proprio corpo. L’area del precoce potremmo dire. Tuttavia, alle soglie di un passaggio importante della vita D. sa, anche per il lavoro analitico pregresso che non è l’abito che la farà sposa, ma un lavoro di tipo diverso che passa inevitabilmente per una grande scucitura e ricucitura identitaria. D. vorrebbe forse chiamarsi fuori (è fuori dal traffico cittadino, tagliata dalle comunicazioni): poiché nessuno le ha detto che il padre è morto ecco che potrà evitare di andare al funerale. Eppure il sogno le dice che il padre, quello che l’accompagnerà all’altare, ma la lascerà anche sull’altare, il padre che ha contribuito con la madre a dare forma alla sua identità, non è più.
D. lascerà che un movimento emotivo di tristezza entri nei preparativi delle nozze. Precoce e profondo sono quindi intrecciati nel sogno a dare forma all’esperienza e alle strutture identitarie.

I quattro lavori oggi presentati ci hanno permesso di osservare e di riflettere sugli snodi del processo di soggettivazione, sul ruolo dell’oggetto soggettualizzante, sul lavoro identitario. Oggi si parla di topica del soggetto o di terza topica. Mentre le prime due topiche, l’una legata al divenire dei processi inconsci (la teoria del sogno), l’altra all’articolarsi delle strutture psichiche, sono opera del pensiero di Freud, questa terza topica è il frutto direi di una metapsicologia della pratica analitica per come nei decenni, grazie al pensiero ricco quanto insaturo di Freud e al moltiplicarsi ed estendersi del lavoro analitico è andata svolgendosi. Lo sguardo terzo, offerto dalla topica del soggetto sulla natura della relazione analitica, oltre a permetterci una articolazione più ricca tra prima e seconda topica, ci autorizza e direi ci vincola a esplorazioni più ampie nella clinica, a un dialogo più serrato con il tessuto sociale, a una attenzione non inferiore a quella esercitata da Freud nei confronti delle altre scienze. Dobbiamo farci ricercatori e accogliere come lavoro analitico tutto quello che parla di analisi, di funzionamento della mente, di accesso a diversi livelli di funzionamento mentale, dialogando continuamente, ma senza barriere con quanto abbiamo scoperto e continueremo a scoprire nei setting che non chiamerei più classici, ma regolamentari. Sono i confronti con i livelli originali della esperienza, conscia e inconscia, se non ad aprire la strada a una nuova psicoanalisi, certamente a cogliere tutto il potenziale di sviluppo che la lunga pratica analitica ci ha consegnato.

Badoni, M. (2012). A proposito delle linee guida sull’autismo. Rivista Psicoanal., 58:977-986.
Colombi,L. (2013) .26° Congresso FEP 2013: Basilea, 21-24 marzo 2013. Rivista Psicoanal., 59: 523-528.
Ferruta A. (2008). Elogio della presentazione. Rivista Psicoanal.,54: 169-176
Racalbuto, A. (1994).Tra il fare e il dire: l’esperienza dell’inconscio e del non verbale in psicoanalisi, Milano, Raffaello Cortina.

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