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Discussione al lavoro di Boccara P., Monari M., Riefolo G. – Claudio Cassardo

18/12/12

Milano 24 – 11 – 2012     

Claudio Cassardo 

Note al lavoro di Riefolo, Boccara, Monari 

Proporrò alcune brevi osservazioni che questo lavoro mi ha suggerito, e una nota sulla discussione che è seguita alla lettura in aula. 

Intanto vorrei notare come l’uso insolito dell’ idea di dissociazione, proposto da Bromberg e ripreso dagli autori, per ragionare sulla fatica, a volte terribile, che ha l’uomo a cambiare idea, cioè l’uso capovolto di una parola nata per descrivere eventi traumatici, se per un verso, come suggerisce Correale, può favorire confusione e abuso concettuale, per un altro verso è esempio di vivacità intellettuale e capacità poietica di giocare con le idee presenti nella comunità psicoanalitica. In fondo proprio questo uso capovolto del concetto di dissociazione è un esempio di processo dissociativo creativo rispetto a una tradizione teoretica.Nel loro lavoro gli autori si soffermano su questo processo interiore e su come possa, questo processo, costituire non solo la premessa essenziale alla capacità, nell’uomo, di cambiare idea, ma al contempo la bussola nel fare clinico con pazienti difficili: ciò che va cercato durante la seduta.Il lavoro d’altra parte si occupa di mettere in campo gli elementi che possono favorire lo sviluppo di questo processo dissociativo.

Un elemento che pare essenziale, specie in riferimento ai pazienti istituzionali con profili antisociali, o importanti disturbi della condotta, persone potenti nella capacità di risultare intollerabili, è la presenza di una squadra, un team di curanti. È al contempo la capacità da parte dello psicoanalista di amministrare questo team.Da questo punto di vista la formazione degli autori non è un dato ininfluente in capo a un ragionamento sulla clinica del paziente grave, e assume implicitamente la fisionomia di un suggerimento, ‘non lavorare da soli’, rispetto alla strada da seguire per affrontare pazienti in difficoltà a dissociarsi ‘fisiologicamente’; ossia pazienti in difficoltà a oscillare, all’interno del processo dissociativo, tra un polo emotivo difensivo legato alla sicurezza, al passato, al noto, e un polo propensivo legato alla creatività, al qui e ora, al futuro e all’ignoto.I tre autori lavorano come psichiatri, e uno di loro con funzioni primariali, in tre rispettivi servizi psichiatrici, e hanno dunque l’occasione di cimentarsi a essere (non a fare gli…) psicoanalisti in un contesto sociale e in capo a un doppio ruolo, non solo in un contesto privato: questa doppia identità istituzionale, questa doppia posizione, possiamo pensare che aiuti il clinico a dissociarsi dalle sue attitudini di partenza; possiamo immaginare che lo aiuti a separarsi da certi vincoli concettuali rispetto ai quali  lo psicoanalista solo impegnato nel suo studio può avere più fatica a porsi in modo critico e più attitudine a porsi in modo dogmatico. 

Non solo ma i tre autori, come mi hanno raccontato, formano un gruppo di lavoro, si sentono e si confrontano via mail e quando possono de visu, e questa solidarietà li può aiutare a sentire la squadra nella propria testa mentre hanno davanti al naso il paziente difficile.Ora questa formula mi sembra degna di nota, mi sembra un dispositivo interessante, un indice di quanto nella clinica esasperante, com’è quella che leggiamo nelle pagine di questo lavoro, la presenza di un gruppo, di un team, più o meno esterno, e la sua ricerca quando non è già lì (Il caso dello psicoanalista che lavora solo in studio) diventi un attrezzo di grande utilità. Diventi in altre parole un oggetto interno capace di consolare, offrire solidarietà e doni di pensiero, e un oggetto adatto, per rimanere sul nostro punto, a favorire nel clinico la disponibilità a spostarsi da una prospettiva all’altra, a esplorare i generi, a offrire a se stesso e poi al paziente un menù dei modi di essere e di pensare e non un addestramento al modo giusto; ossia la disponibilità a mantenersi in uno stato della mente costituito da una permanente vocazione dissociativa.  

La dissociazione può essere favorita da un ambiente che per sue caratteristiche le somiglia, la corteggia. Se siamo tanti curanti naturalmente abbiamo differenze e dobbiamo convivere con queste differenze. E dunque diventiamo un esempio di coesistenza di prospettive diverse. Un esempio di processo dissociativo fecondo. E questa circostanza può darsi naturalmente nell’ambulatorio pubblico, ma anche, sotto forma di inclinazione interiore e presenza interiore del team, nello studio privato.Un altro elemento che pare essenziale è la capacità da parte del clinico di muoversi tra un atteggiamento tradizionale, madre ambiente, più legato a un ascolto fluttuante e non indirizzato, apparentemente passivo, e un atteggiamento attivo, nel canone fraterno forse, talvolta, più che genitoriale, in capo a un cambiamento di ruolo e di talenti.Questa capacità offre al paziente un esempio vivente di processo dissociativo, di oscillazione tra un polo difensivo e un polo creativo. L’esempio di un essere vivente, o più di uno, che sa, può, essere una cosa e un’altra; l’esempio vivente che si può essere passivi e attivi, cioè che non c’è da vergognarsi a essere passivi e non c’è da vergognarsi a essere attivi: soprattutto che non c’è da vergognarsi a essere un pò uno un pò l’altro.Un ulteriore elemento proposto dagli autori, capace di favorire il processo dissociativo sulla scia del concedersi il fluttuare tra atteggiamento passivo e atteggiamento attivo, è l’uso da parte del clinico dell’enactment, e la capacità di ammettere il proprio sentimento, il proprio difetto, il cosa mi è successo a stare con te: il ‘proprio’ e non solo il sentimento del dottore, io come uomo e non solo io come dottore… Aiutando così il paziente a deludere la sua tentazione a idealizzare, a irrigidire ‘in uno solo’ l’oggetto, il dottore, perdendolo fatalmente di vista; la sua tentazione a custodire l’oggetto, il dottore, in una cornice emozionale e percettiva di marca bidimensionale. Questo impiego dell’enactment ha in particolare due vantaggi, o meglio possiamo scorgerne due dotati di particolare interesse.In primo luogo mostra al paziente che si può vedere un proprio punto debole e ammetterlo senza crollare, senza ‘perdere’, letteralmente, la faccia.In secondo luogo facilita il clinico a custodirsi in uno stato aperto alla dissociazione; mi aiuta a rimanere o a tornare pronto a vedere in maniera diversa me stesso lì, e pronto a imparare una cosa che non sapevo. 

Ancora due osservazioni

Si può vedere in questi pazienti (ma solo in questi?) la spinta a moltiplicare per – 1 l’idea di cambiamento. In base alla presenza del trauma ogni cambiamento si lega al timore di tornare indietro a quel punto in cui non me lo aspettavo ed è successo l’incidente. Dunque la paura di cambiare, in questa prospettiva, sarebbe legata alla paura del passato e non alla paura del futuro. 

Inoltre il problema del processo dissociativo possiamo immaginare, come abbiamo visto, che riguardi non solo il paziente ma anche il dottore, e non solo il dottore ma anche la psicoanalisi e la nostra istituzione. Si potrebbe aprire, usando in questa prospettiva capovolta il concetto di dissociazione, una attraente discussione sulla fatica dello psicoanalista a dissociarsi dai suoi modelli teorici elettivi, a frequentare nel corso di una seduta non solo un impianto concettuale, ad autorizzarsi ad abbandonare l’imperio della coerenza.

Una nota finale a partire dalla discussione in aula 

La discussione in aula, insieme ai vari punti che ha toccato, si è rivolta con specifica enfasi sul modo in cui l’uso capovolto di un concetto tradizionalmente associato a un evento patogeno e legato al trauma, può aiutare il clinico a modificare lo stato della mente a partire dal quale guarda il paziente e ciò che accade nel corso della seduta.Il gruppo di lavoro, in aula, si è aggregato intorno all’idea che questo uso capovolto del concetto di dissociazione (Ma, implicitamente, non solo di questo concetto) favorisca in effetti una inclinazione a porsi in maniera fluttuante nei confronti del proprio modo di pensare, ossia, come rilevava a un certo punto Anna Ferruta, a usare il corredo teorico di cui lo psicoanalista dispone in seduta, secondo una predisposizione associativa, in linea con il principio che distingue e caratterizza la clinica psicoanalitica, il principio delle libere associazioni.A questo riguardo, un’altra suggestione efficace l’ha suggerita Giovanni Foresti, che traendo spunto da una raccomandazione presente nella cultura ebraica, talmudica relativamente al modo di stare insieme in un gruppo di discussione, ricordava come in psicoanalisi sia fecondo potersi attestare sull’orlo tra un uso dei concetti capace di conservarne, non dimenticarne, la fisionomia e la funzione originaria (l’importanza che Dio rimanga saldo al suo posto senza arrendersi), e un loro uso, al contempo, capace di ampliarne la valenza, il potenziale semantico, la pensabilità (l’importanza che Dio sappia farsi da parte senza offendersi). 

Un’ultima suggestione, ancora a questo specifico riguardo, a proposito dei possibili vantaggi legati all’usare, nella clinica, la dissociazione come evento fisiologico e auspicabile e non invece come evento patologico e compromettente.

Dunque, la sfumatura traumatica e la tradizionale assegnazione della dissociazione a uno stato grave del sé, può autorizzare con singolare risalto il clinico, nel momento in cui questa parola viene usata in maniera capovolta, a ‘essere provvisoriamente matto’. Più precisamente può autorizzarlo a concedersi pensieri e atti altrimenti difficili da tollerare e concepire come compatibili con la faccenda molto seria di essere uno psicoanalista che aiuta la gente a sopportare la vita.Se io mi dissocio, e in modo cospicuo, da un setting classico per aiutare il paziente difficile, e tuttavia la psicoanalisi mi autorizza a credere che dissociarsi è bello, che se mi dissocio sono un un uomo coraggioso e non un matto, io allora sono aiutato e legittimato a sentirmi comunque uno psicoanalista e non un traditore o un matto. Sono legittimato  a sentire che a volte per essere un buon psicoanalista devo concedermi di far cose del tutto estranee al protocollo, concedermi di diventare provvisoriamente, o talvolta regolarmente, traditore, o per così dire matto, dissociato, per andare a raggiungere persone altrimenti irraggiungibili.

Claudio Cassardo

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