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Le quote di estraneità – Clelia De Vita

20/11/15

Spunti su generatività, maternità e identità nella migrazione.Riflessioni sul rapporto tra materno, madre e ‘madre lingua’

La genitorialità di soggetti che, a causa della migrazione, si trovano a far nascere figli in un paese diverso da quello in cui hanno passato la loro infanzia, può collegarsi a percorsi emozionali inaspettati, poiché il tema della genitorialità va ad intrecciarsi, da un lato, a quello delle identificazioni primarie, e, dall’altro, con l’estraneità generata dalla sospensione identitaria che origina dalla frattura insita nella migrazione; nella migrazione, infatti, si possono ritrovare fenomeni emotivi legati al lato nascosto di un esilio psichico.

Allo stesso tempo, come diceva Bion, “non è la costruzione della torre di Babele, ma il suo fallimento che da’ vita, inizia e nutre l’energia di vivere, di crescere, di prosperare” (Bion W. R., Autobiografia).
Per i bambini figli di migranti il tema della filiazione non di rado si trova in conflitto con le necessità di affiliazione insite, anch’esse, nello sviluppo delle identificazioni; tale conflitto, infatti, può ostacolare la crescita identitaria del soggetto, quando la famiglia tramanda cultura e lingua diversa da quella del luogo in cui il bambino cresce; il bambino si trova ad assimilare ed essere portavoce di una realtà culturale diversa da quella di cui i genitori sono depositari; si tratta di un conflitto profondo poiché non è riducibile all’apprendimento linguistico, che pure contiene in se’ varie questioni che rischiano di cambiare le logiche della dipendenza genitori-figli quando questi ultimi sono più competenti linguisticamente dei primi, ma comporta invisibili conseguenze nel processo della trasmissione culturale e della filiazione. Non è raro imbattersi clinicamente in bambini o adolescenti che, a dispetto della loro conoscenza dell’italiano, vivono forme di vergogna patologica, che arrivano fino al ritiro o all’abbandono della scuola in età adolescenziale; queste situazioni sono chiaramente collegate al conflitto tra i due poli di appartenenza culturale difficilmente integrabili.

Se c’è una difficoltà specifica per il figlio, analogamente il genitore si trova a vivere condizioni di anomalia nel momento in cui la sua cultura madre sembra perdere di valore nel nuovo contesto culturale. La dimensione genitoriale, in questi casi, viene esposta ad una fragilità che porta in se’ i conflitti relativi al passaggio figlio-genitore, vissuti nella terra madre, stressati dal passaggio genitore-figlio nella terra di migrazione. Questo passaggio risulta particolarmente significativo sul versante materno, dal momento che è il corpo della madre a portare in se’ le tracce sensoriali del primo accudimento, in esso, e nell’identità della donna che diventa madre lontana dalla propria terra d’origine, la frattura della migrazione può far sentire a carico della generatività.

La vicenda di una madre e della sua bambina di sei anni, che ho incontrato in consultazione nella scuola con alto tasso di bambini migranti e stranieri nella quale, da anni, collaboro come consulente esterno, mi sembra prestarsi per focalizzare il complesso intreccio tra condizione migrante generativi e vissuti materni.

 

La bambina straniera.

La madre di Cloe mi chiede un colloquio in preda all’ansia e al dispiacere dopo uno scambio di battute con la maestra della figlia che ha iniziato da poco la prima elementare; la maestra le ha riferito che la bambina è in difficoltà con gli apprendimenti, affermando, con sua sorpresa, che “la bambina parla male l’italiano”. La signora si è sentita mortificata dall’espressione utilizzata dalla maestra, poiché le è sembrato che considerasse sua figlia una dei tanti bambini stranieri presenti nella classe e nella scuola, che vengono inseriti nel percorso scolastico senza padronanza della lingua. La madre di Cloe mi specifica di essere rimasta stupita perché la bambina è nata qui e ha frequenta la scuola materna, dello stesso istituto, in cui è stata inserita all’età di tre anni. (La maestra della materna, mi dirà che Cloe non è mai stata considerata una bambina straniera, bensì una bambina intelligente, capace, ben inserita nel gruppo, un po’ fragile e in difficoltà se posta in un ambiente sfavorevole.)

L’immagine della bambina straniera sembra, dunque, emergere proprio adesso che Cloe deve imparare a leggere e scrivere in italiano, nella lingua del paese in cui lei è nata ma che la madre ha dovuto apprendere in età adulta, dopo la migrazione.

Propongo alla madre di Cloe vederci per qualche incontro di consultazione; nel secondo incontro accenno alla possibilità che il problema che mi ha segnalato a proposito della figlia possa aver a che fare con l’identità culturale, ovvero con il confronto tra la loro storia d genitori venuti da altrove e il primo contatto formale con la lingua italiana che la bambina sta imparando a scrivere.

Durante il secondo incontro, chiedo alla madre di raccontarmi la storia di Cloe; scopro che la bambina è nata inattesa tre anni dopo che i genitori avevano adottato una bambina proveniente da un orfanotrofio del loro paese di origine; l’adozione della bambina conterranea era avvenuta dopo alcuni anni in cui la coppia, già trasferita in Italia, aveva provato a generare un figlio senza riuscirvi.
La bambina adottata dal paese d’origine aveva già un anno e mezzo al momento in cui è stata portata via dall’istituto, dove a causa dell’alto numero di bambini, era stata poco stimolata, e la signora e il marito si sono dedicati molto a farle recuperare le tappe di sviluppo.

Chiedo alla signora come ha vissuto il momento della nascita di Cloe.

La madre ammette di avere avuto più difficoltà a svolgere il proprio ruolo di madre con la seconda figlia rispetto alla figlia più grande, e non si spiega il perché; paradossalmente, la signora crede di sentirsi meno madre con la sua figlia naturale, nata e cresciuta qua in Italia, e più a suo agio con la figlia adottiva, nata e vissuta per il primo anno e mezzo nella madre patria. Della prima figlia nessuna maestra ha mai detto che era straniera.

Raccontandomi più nello specifico le difficoltà a svolgere il proprio ruolo, la madre di Cloe ammette di non sentirsi capace di rispondere con dolcezza e pazienza alle richieste o difficoltà della figlia più piccola, con la quale le capita di arrabbiarsi più che con la grande. Di fronte alle richieste di Cloe tende ad irrigidirsi, proprio come faceva sua madre con lei; trova strano che le venga di riproporre uno stile materno che pure l’ha fatta soffrire da figlia.

Si apre, quindi, in seduta il ricordo-contatto della signora con la propria madre, donna severa e piuttosto esigente, modello genitoriale che nel rapporto con la bambina adottata, deprivata, non era stato troppo sollecitato.

Cloe, al contrario, è considerata dalla madre la figlia del nuovo benessere, quella a cui non manca nulla, e la signora sente di non essere incline a gratificarla o accontentarla, ma più propensa e sollecita a punirla.

Dalla ricostruzione della madre sembra dunque che Cloe debba pagare per la sua condizione privilegiata di nata nell terra del benessere, rispetto ai genitori e alla prima figlia che condividono il retroterra deprivante del paese d’origine.

 

Estranea o straniera? Gli incontri con Cloe.

Quando vedo apparire Cloe sulla porta della stanza di consultazione, mi colpisce subito la forte somiglianza con la madre, similitudine perturbante rispetto al vissuto di estraneità trasmesso dalle parole della signora durante i colloqui; la prima impressione di somiglianza viene rafforzata quando Cloe inizia a parlare, poiché la bambina pronuncia le frasi con lo stesso accento straniero della madre, la quale, pur parlando molto bene italiano, conserva una pronuncia tipica del paese d’origine (Macedonia).
Mentre sono in seduta con Cloe, mi viene da pensare che la bambina abbia cercato di identificarsi con il modo di parlare della madre, forse per ridurre il senso di estraneità che deve aver avvertito nel vissuto del genitore, collegato alla sua nascita e crescita nel paese della migrazione.
Con quell’accento da straniera, Cloe sembra restituire suoni omologhi a quelli prodotti dalla madre, che, dopo tanti anni di vita in Italia, presenta ancora alcune incertezze linguistiche (unite ad un eloquio delicato, quasi fragile), le stesse presenti nell’eloquio della bambina che, attraverso quel tratto, sembra cercare un segno di appartenenza alla madre; allo stesso tempo, penso che in quei suoni incerti, si sia iscritta la trasmissione dell’incertezza materna nel momento in cui declinava il proprio ruolo nella lingua straniera, avendo scelto di parlare da subito in italiano con la bambina anziché nella sua lingua madre.

Alla fine del secondo incontro, la madre verrà a riprendere Cloe accompagnata dalla figlia adottiva; mi rendo conto, da alcuni scambi tra le sorelle e la madre, che la ‘primogenita’ parla un italiano senza incertezze e tratti di estraneità, elemento che rende ancora più significativo il fraseggio di Cloe, tenendo conto che è nata e cresciuta in Italia mentre la sorella è la vera bambina straniera, adottata ad un anno e mezzo ed esposta alla lingua madre del paese d’ordine nella fase di apprendimento del linguaggio.

Nel corso delle tre sedute di gioco Cloe metterà spesso in scena delle drammatizzazioni del rapporto maestra-alunni, in cui i bambini riceveranno dei bei voti dalle maestre, altrettanto generose nel rifornirli di enormi pizze da mangiare. Penso al significato di questo gioco in relazione alla preoccupazione della madre di Cloe su quanto la bambina mangi poco (del resto è visibile dalla magrezza di Cloe, quasi filiforme); mi viene da pensare che l’estraneità del vissuto materno rispetto alla figlia avuta durante la migrazione, deve aver creato una perturbazione nel primo contatto della bambina con il seno e il nutrimento.

Il dialogo che Cloe anima nel gioco, oltre che per l’accento straniero, mi colpisce anche perché veicola alcuni tratti da bambina più piccola della sua età, come se avesse timore di crescere, uscendo dal rapporto stretto con la madre che pure appare perturbato. Cloe appare ancora molto presa ancora dal gioco e, come la made ha sottolineato, rifiuta di fare i compiti, al contrario della sorella più grande, molto brava e dedita alla scuola. La madre si sente delusa dallo scarso interesse di Cloe per gli apprendimenti, ma è chiaro che per la bambina l’uso della lingua che li veicola ha un portato simbolico rispetto alla sua storia tale da assumere una valenza conflittuale.

Nell’ultima seduta di gioco, Cloe sceglie, tra i giochi da bimbi più piccoli presenti nel cesto, alcune costruzioni di gomma con le quali vuole creare la casa per i suoi personaggi; cercando di tirare sù dei muri, si accorge il loro spessore non lascia spazio sufficiente all’interno, cerca comunque di creare un ambiente e di arredarlo con i mobiletti di legno; ne risulta un ambiente ingombro in cui manca la possibilità di muoversi. Credo che, con tale creazione, la bambina abbia inscenato alcuni aspetti della relazione con il con la madre, che appare pre-occupata nei confronti di questa figlia, mentre, ipotizzo, dell’altra sia stata capace di occuparsi. La lingua italiana che Cloe parla da straniera, mi sembra segnalare un tratto ‘egoalieno’ di cui la bambina si fa portavoce. Cloe è una bambina con buone capacità espressive, ma sembra imitare la madre più che potersi identificare con lei, cercando in tale imitazione-adesione una soluzione rispetto ad una conflittualità e separatezza che non può ancora articolare. Attraverso un’inconsapevole imitazione sonora e ritmica del linguaggio materno, Cloe sembra cercare quella vicinanza e sintonia con la madre che non è avvenuta nei primi scambi.

 

Quale alfabeto nella migrazione?

Dopo gli incontri con la madre e la bambina (il padre lavorava fuori Roma per tutto il periodo in cui si è svolta la consultazione), mi sembra che la maestra di Cloe, segnalando alla madre che la bambina non conosceva bene l’italiano, aveva riverberato un transfert materno, sottolineando l’estraneità della bambina piuttosto che la sua familiarità, data la provenienza di Cloe dalla materna dello stesso Istituto; la maestra sembrava, pertanto segnalare, la preoccupazione presente anche nella madre, di non essere sicura di ‘essere capita’, non potendo sapere che la bambina era stata alfabetizzata nella lingua italiana, anche se figlia di genitori stranieri.

La relazione tra Cloe e la maestra mi è sembrata, pertanto, riproporre il problema originario tra madre e bambina, di una madre che ha vissuto come ‘estranea’ la propria figlia naturale, nata in un paese straniero anche per la rinuncia ad esprimersi nella propria lingua madre, per tentare di alfabetizzarla da subito nella lingua straniera.

La madre di Cloe ammette di essere preoccupata dalla possibilità che Cloe possa non capirla, poiché nata in una famiglia che vive una realtà molto diversa di quella della loro terra.

Nonostante la scelta della nuova lingua,  la signora si è resa conto di aver incarnato il genitore esigente, riproducendo, senza volerlo, il comportamento rigido di sua madre. Mi viene da pensare che la signora, rinunciando a parlare la propria lingua alla bambina, si sia trovata confrontata con la rabbia dell’abbandono, che ha favorito l’identificazione con la rigidità della propria madre.

Dirò alla signora che gli incontri con Cloe mi hanno fatto pensare che la bambina, unico soggetto della famiglia ad essere nata e cresciuta nel paese straniero d’accoglienza, sembra rivendicare con il suo modo di parlare ‘da straniera’ quell’appartenenza identitaria ad un altrove che non ha direttamente conosciuto e che caratterizza gli altri membri della famiglia. Osservo anche che Cloe le somiglia molto e non deve essere stato semplice per lei trovarsi ad accudire una piccola se’ stessa lontana dalla propria madre. Le due lingue parlate in famiglia sono collegate a processi emotivi differenti; due lingue che hanno segnato le due esperienze di maternità e le due diverse relazioni con le figlie: la prima adottata e di terra madre, la seconda naturale e di terra straniera.

Creatività e Generatività.

Penso che per per la madre di Cloe la generatività biologica sia stato un momento di confronto anche con i temi dolorosi e conflittuali legati alla propria filiazione femminile, che con l’adozione non erano stati altrettanto mobilitati.

Riflettendo su alcuni temi sollevati nell’elaborazione gruppale del tema “generatività e migrazione”, ho pensato che l’esperienza vissuta dai genitori di Cloe è stata duplice; la prima bambina si è caratterizzata come “figlia di una collettività” (il paese d’origine, la guerra, l’orfanotrofio, la deprivazione subita da tutti in quel paese), mentre la seconda bambina, è nata come “figlia di una dimensione genitoriale soggettiva” ma coincidente con l’esilio migratorio.

Ogni lingua ci induce a mentire, esclude una parte dei fatti, ci frammenta in noi stessi ma è anche vero che attraverso diverse lingue si fa strada una parte di verità che riporta a noi ciò che è stato frammentato, rinnegato e disperso (La Babele dell’inconscio pag. 365); tutto ciò che sappiamo su di noi lo apprendiamo dagli altri per effetto anche di un’inevitabile alienazione, condizione che ha dei risvolti emotivi significativi sulla nostra capacità di essere creativi e generare.
I genitori di Cloe svolgono, entrambi, un lavoro creativo; la madre lavora in una casa editrice e seleziona le opere che verranno pubblicate, il padre è attivo nel campo del cinema. Sicuramente si tratta di due persone che hanno investito creativamente nel loro lavoro, ma che hanno trovato difficoltà a spendere la loro creatività al servizio della generatività quando hanno deciso di avere un figlio nel nuovo paese ospitante.

Possiamo ipotizzare che le difficoltà incontrate, in un primo tempo, dalla coppia nel concepire un loro figlio naturale, abbiano a che fare con la mancata elaborazione del lutto per la terra madre e con il tema tradimento di essa.

Non è raro che un figlio naturale possa nascere da una coppia che ha adottato già un bambino. E’ chiaro che il figlio adottivo fa da apripista alle dinamiche della genitorialità in assenza di un concepimento che mette in gioco il corpo; è come se il bambino adottato fosse, al contempo, colui che adotta due genitori che non sentono di esserne ancora capaci di diventarlo biologicamente, mentre il figlio adottivo è già espressione e traccia di un’accoppiamento, di una via percorsa nel corpo della madre che l’ha generato.

Per i genitori di Cloe, l’adozione di una bambina abbandonata nel proprio paese, sembra esser stato il risarcimento necessario della terra madre e della parte di Se’ perduta a causa della ferita della migrazione. Solo dopo esser divenuti simbolicamente genitori di un figlio della loro terra, la madre e il padre di Cloe  hanno potuto concepire e far nascere una loro bambina in terra straniera.
Possiamo ipotizzare che in termini di identificazioni, il conflitto tra filiazione e affiliazione sia rimasto silente nella coppia fino al momento in cui non si è posto il tema della genitorialità.

I processi di filiazione nella migrazione, ovvero la nascita della femminilità tra madre e figlia all’interno della catena generazionale, si complicano come è evidente nel caso di Cloe e di sua madre; partorire e allattare una figlia in assenza di una madre (lasciata in una terra che si è abbandonata), fa vivere un senso di orfananza, quella a cui i genitori di Cloe hanno riparato attraverso l‘adozione della bambina abbandonata, estranea ma non straniera.

Con Cloe si è posta la questione di essere genitori non sostenuti da una ‘cultura genitoriale’, non padroni della lingua che cercavano di passare; la madre di Cloe, infatti, aveva parlato nella sua lingua d’origine alla figlia adottiva, sforzandosi di parlare in italiano alla figlia naturale. La ‘lingua nuova’ che la madre ha cercato di parlare con la secondogenita, ha corrisposto al suo tentativo di inaugurare una modo diverso di essere madre, escludendo dal dialogo con la ‘propria bambina’ quelle aree conflittuali derivate dalla propria relazione originaria, senza, di fatto, riuscirci.

Potremmo dire che la madre di Cloe ha tentato protettivamente di far rimanere Cloe ‘estranea’ ai propri conflitti con il materno, ma, esponendo la bambina alla lingua straniera parlata da lei in modo ‘straniero’, ha inserito precocemente nella relazione una “quota di estraneità”, che ha preso la forma sonora rendendo la madre “straniera a se’ stessa”, ovvero estraniata dalla propria discendenza femminile (Cloe), mancando della lettura di tale familiarità all’interno della cornice del proprio materno, lontano, non elaborato in termini di perdita dolorosa della propria matrice identitaria, femminile e materna.

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