Eventi

Marchiori E.

18/06/14

L’esproprio della soggettivazione: riflessi di immagini filmiche nel lavoro psicoanalitico(1)

Elisabetta Marchiori

La dialettica va intesa come una collisione moltiplicata di parole e di immagini:
le immagini urtano fra loro affinché sorgano le parole,
le parole urtano fra loro affinché sorgano le immagini,
le immagini e le parole urtano tra loro affinché il pensiero abbia luogo.
(G. Didi-Huberman, 2003)

Come ha scritto Gianni Rodari, geniale Autore per l’infanzia, un’immagine “può dire tantissime cose che si potrebbero dire ma solo con troppe parole, e altre che con le parole proprio non si possono dire” (1973, 88). Tra queste tantissime cose si può includere l’esproprio, in un essere umano, della possibilità di ‘divenire soggetto’, processo non lineare inteso come un costante andirivieni tra ciò che appartiene all’intrapsichico e ciò che emerge nel campo dell’intersoggettivo (Garella, 2012, Ogden, 1994, Wainrib, 2012, Winnicott, 1965).
Il fallimento precoce del mutuo riconoscimento, le mancanze e le fratture intervenute sin dal ‘grado zero’ della soggettivazione e della formazione dei legami soggettualizzanti (Wainrib, 2006, 2012) possono essere complicati dal sopravvenire di relazioni perverse, psichicamente e sessualmente traumatiche. Queste possono inserirsi in tale ‘falla’ in età preadolescenziale e adolescenziale (Campanile, 2003, Cahn, 2006, Kennedy, 2000, Richard, 2006, Roussilion, 2006) e sono caratterizzate dalla ‘confusione delle lingue’, laddove il linguaggio della ‘tenerezza’ viene malinteso e scambiato per linguaggio della ‘passione’, agita dall’adulto (Ferenczi, 1932).
Forme diverse di violenza ‘nascosta’ ostacolano, inceppano e deviano la ‘scorrevole continuità’ (seamless continuity, Wainrib, 2012, 1115) del divenire soggetto, facilitata dal silenzio, dai discorsi di circostanza, da parole svuotate di senso, vettori di menzogna e protettrici di segreti. Omertà, compiacenza, negazione, da parte della famiglia e del gruppo di appartenenza, sono complici necessari in situazioni di ‘formale’ normalità dove regna la legge dell silenzio psichico, ovvero la proibizione di pensare (Cabré, 2014).
L’incontro con una giovane paziente mi ha imposto, di recente, un duro ‘faccia a faccia’ con l’evidenza dell’esproprio della funzione dell’essere e del sentirsi soggetto, facilitato da una matrice relazionale e transgenerazionale traumatica (Bonfiglio, 2010) e determinato da ‘traumi cumulativi’ (Khan, 1963), tanto protetti e congelati dal ‘non-pensiero’ da rischiare di bloccare la funzione immaginativa e ‘creativa’ dell’analista (Mangini, 2011).
Nel trattamento di questo caso clinico la visione del film ‘Miss Violence’ (Grecia, 2013) di Alexander Avranas(2) ha aperto un nuovo spazio di riflessione sul mio lavoro analitico. Un film può essere esperienza emozionale affettiva potente e complessa, aprire spiragli di comprensione sul mondo interno, su quello reale, su situazioni cliniche particolarmente impegnative (Golinelli, 2004, Marchiori, 2006).
Le immagini di questo film riescono a rendere visibili sia le dinamiche che possono trasformare il processo di soggettivazione in assoggettamento, sia quelle che possono invertire l’intersoggettivazione in anti-soggettivazione (Wainrib, 2012, 1118). Esse danno corpo a quelle alleanze inconsce che si sviluppano e si strutturano in un ‘patto perverso’ tramite e attorno al segreto, difensive e alienanti (Kaes, 2006, 166). La vitalità dell’essere in divenire si trasmuta in ‘un’agonia psichica indotta da una congiunzione traumatica nella quale disperazione, impotenza e mancanza degenerano in prostrazione assoluta’ (Roussillon, 2006, 87) e, per mettervi fine, l’agito suicidario può essere sentito come l’unica via di fuga possibile. Come accade nelle sequenze iniziali del film, che riprendono l’eterea Angeliki mentre passa dallo spegnere le sue undici candeline della torta di compleanno, attorniata dalla famiglia, al volare fuori dalla finestra, sulle note dell’evocativa Dance me to the end of love(3), di Leonard Cohen. Sul volto un lieve ed enigmatico sorriso.
Nella famiglia di Angeliki i rapporti di parentela sono confusi, sovvertiti. I personaggi danzano, scambiandosi i ruoli, in un ballo mortifero, in stanze con porte serrate o scardinate, come se non esistesse un ‘esterno’. “Qui è come se non fosse successo mai nulla”, dice un’assistente sociale, che indaga sulla morte della ragazzina. Ciò che non è detto, che non si vede, non esiste.
Sequenze perturbanti e implacabili s’insinuano con estrema lentezza nello spettatore, avvolgendolo in un crescendo di violenza, psichica e fisica, resa esplicita nel finale: compiere undici anni significa oltrepassare la soglia di ‘quella porta’, soggiacere alla sessualità adulta, all’espropriazione definitiva della possibilità di divenire se stessi.
È questa ‘la normalità’ per i protagonisti, vittime e nello stesso tempo complici, la cui psiche si è organizzata intorno all’indifferenziazione, alla negazione dell’alterità, al segreto e al trauma, assoggettata alla perversione, che esige sia riconosciuta come sola legge quella della pulsione d’impossessamento (bemächchtigungstrieb, emprise), già presente in Freud (1905)(4) : fare ciò che si vuole della mente e del corpo dell’altro. Nel momento in cui l’oggetto cerca di uscire da tale controllo, annichilente e annientate, è di fronte al bivio: rientrare nella spirale soccombendo o ‘farsi fuori’.
Quel lieve ed enigmatico sorriso l’ho riconosciuto con inquietudine sul volto dai lineamenti perfetti, senza un filo di trucco, di quella giovane donna di ventisei anni, al nostro primo incontro.
Seduta composta e rigida, inizia spontaneamente a parlare, con straordinaria appropriatezza di linguaggio, senza inflessioni del tono della voce e senza cambiamenti nell’espressione del volto, lo sguardo impenetrabile. Mi fa venire in mente Biancaneve (la chiamerò quindi B.).
Il suo racconto produce nella mia mente immagini contrastanti, nitide e potenti, iperrealistiche e paradossalmente derealizzanti, ma come estranee alla paziente stessa. La rivedo, in après coup, che danza nella sua fiaba, al contempo fanciulla innocente e matrigna cattiva.
“Ho individuato il mio problema in G.” – esordisce – mio professore alle superiori. Con quest’uomo ‘affascinante’, di cui tutte le allieve erano ‘innamorate’, più anziano di lei di quarant’anni, sposato, con figli adulti, B. ha avuto una relazione di sette anni, iniziata quando ne aveva diciassette.
Lui l’aveva improvvisamente lasciata, due anni prima, nel momento in cui gli è stato diagnosticato un cancro. “Pensavo che sarei morta – continua B. – per fortuna mi sono fidanzata con S., un bravo ragazzo, con cui andava tutto magnificamente fino a quando gli ho raccontato di G. e ha iniziato a smontare il mondo che mi ero costruita e insinuare il dubbio che questa persona mi abbia plagiata. Io non ci avevo mai pensato. Mi ha proibito di vederlo e di sentirlo, ma per me è impossibile, per questo sono qui, non riesco a staccarmi. G. ha fatto un grosso lavoro su di me, mi ha plasmata per farmi diventare una donna migliore, più seria, più colta. Non è stato facile, perché ero frivola e ribelle. Mi ha insegnato a fare l’amore, mi ha insegnato tutto”.
Mi risuonano nella mente i versi di Dylan Thomas: “Nessuna idea può turbare le mie pose malsane/ […]/Vieni, stai per perdere la tua freschezza/ Vuoi scivolare da te nella rete/ O devo io trascinarti nella mia esotica compostezza?” (1980).
Se ‘le parole sono pietre’(5), B. non sembra sentirne il peso, rese inconsistenti dalla non-rappresentazione e non-raffigurabilità (Botella e Botella, 2001).
Nel proporle di rivederci sono molto cauta: mi limito a dirle che credo stia soffrendo più di quello che lasci trasparire. Controtransferalmente, percepisco che B. sta provocando in me una curiosità voyeristica e, nello stesso tempo, con quella sua fissità disarmante, sta avvisandomi della sua estrema fragilità.
Quando, poco dopo l’inizio del nostro lavoro analitico, vedo il film di Avranas, riconosco gli stessi affetti che continuo a provare nell’ascoltare B: disagio, impotenza, rabbia, desolazione, dolore, a fronte dell’imperturbabilità dei protagonisti del film e di quella della paziente.
Rimango una ‘presenza attenta’ (Chabert, 2006) a dare risonanza alle parole di B. durante sedute ingolfate di sogni con trame e scenari incredibilmente complessi, descritti nei minimi particolari, che si confondono con i racconti fiabeschi della sua relazione con G. e le fantasticherie in cui ‘da sempre’ s’immerge. “Con lui – mi dice – tutto era perfetto, ero la più bella, la più affascinante, la più intelligente. Lui era il mio specchio, dove mi riflettevo rapita. Non mi sono fatta domande: quello che voleva lui era quello che volevo io. Mi ripeteva: tu sei una bambina, la mia bambina, te lo devi mettere in testa. Eravamo insieme nel luogo della passione, dove tutto è permesso, mi aveva promesso un figlio, che avrei cresciuto da sola, a ricordarmi per sempre di lui”.
B. è restia a parlare della sua vita quotidiana, della sua famiglia, del suo rapporto con S.: si sente ‘un automa’, non riesce a provare coinvolgimento ed emozioni.
Io cerco di appigliarmi a qualche elemento onirico, ai personaggi che popolano i suoi sogni, in continue metamorfosi, per cercare di creare un nesso tra ‘il mondo in cui vive’ (per dirla con Winnicott, 1971) e il suo ‘teatro interiore’, tanto ricco d’immagini quanto assiderato nell’affettività.
B. è la maggiore di tre figli. Il padre, cinquantenne affermato professionista, è descritto come un uomo ‘splendido’, attento alla propria ‘immagine’, completamente ‘dedito alle sue cose’. Con i figli e la moglie ha un comportamento distaccato, critico, persino ‘crudele’, ed è ‘incapace di mantenere le promesse’. Li ha sempre invitati a rivolgersi a lui in caso di bisogno, ma questo esponeva al rischio di essere umiliati, quindi è cresciuta con l’idea di ‘dover arrangiarsi’. Lo sente ‘ostile’, non si parlano e non può credere alla madre quando sostiene che lui ‘la adora’.
La madre, anche lei cinquantenne, era bellissima, ma negli anni si è trascurata e chiusa sempre più in se stessa, succube del marito. Si è dedicata alla crescita dei figli, con poco coinvolgimento affettivo. Ricorda di averla sentita dire ‘sono pentita di avervi fatto’. Era molto ‘stressata’, per anni sono stati costretti a convivere, senza privacy, con i nonni e la sorella paterni.
Tra madre e figlia il rapporto è ‘di ghiaccio’, non ricorda un abbraccio o un incoraggiamento: “Mi ha partorito e quindi sono sua figlia, tutto qui. Dice che ero una bimba ingestibile”.
B. a diciassette anni smette di vedere gli amici, esce dalle sei alle nove di sera ogni giorno (orario in cui G. era disponibile), ma lavora nei fine settimana e continua a essere brava a scuola, quindi i suoi genitori non hanno mai fatto un commento o una domanda. Scoprirò, nel corso dell’analisi, che sospettavano, che sapevano delle ‘voci’ sul comportamento del ‘professore’ con alcune allieve, per le quali erano stati ‘convocati’ a una riunione con i docenti. G. ‘aveva convinto tutti’, con le sue capacità oratorie, di essere per queste ragazze solo ‘un punto di riferimento’(6) .
B. riferisce con lucido distacco del suo primo rapporto sessuale con G., consumato in un bosco, nel fango, al freddo, proprio il giorno del suo diciottesimo compleanno. Lui le ha chiesto se era pronta e lei ha risposto di sì. Afferma convinta: “Ero una donna matura”.
Con un moto transferale di stupore le chiedo: “Una donna matura?! Ha festeggiato così i suoi diciotto anni?”
All’immagine di Angeliki che spegne le candeline si aggiunge quella di Biancaneve, nel bosco con il cacciatore che, sovvertendo la fiaba e obbedendo all’ordine della matrigna, le ‘strappa’ davvero il cuore.
B. (dopo un lungo, insolito silenzio) risponde: “Non ho mai pensato di avere un’alternativa”.
La seduta successiva sento per la prima volta la voce di B. alterata dall’angoscia: “Sono rimasta sconvolta dalla scorsa seduta, tornata a casa sono corsa davanti allo specchio, mi sono guardata e non ho visto nulla, come se mi fossi svegliata da un incantesimo. Ho riguardato una foto in cui eravamo insieme e per la prima volta ho visto un vecchio con una bambina e ho sentito un senso di vomito, mi son detta ‘il dolore è lì, in quella relazione, devo affrontarlo’. Lui si è installato dentro di me e ho paura, se lui si toglie, non so cosa rimane di me”(7) .
“Quello che potrebbe apparire come un ideale, un paradiso, un nirvana, scopre, una volta strappato il velo dell’idillio, la violenza selvaggia di un mondo senza linguaggio” (Chabert, 2006, 157)
Mi sono detta: ecco, ci siamo, siamo sul davanzale della finestra, in bilico, dobbiamo tessere insieme una rete di protezione.
Commento semplicemente: “Ci credo, che abbia paura”.
B. risponde: “Mi accorgo che il libro di favole che avevo scritto è un film dell’orrore, di quelli che non son mai riuscita a vedere”.
Un film, penso fra me, come ‘Miss Violence’, che mi rendo conto di avere guardato attraverso una prospettiva ribaltata, invertendo la direzione dello sguardo dall’interno verso l’esterno, accogliendo il turbamento che le sollecitazioni di quelle immagini mi hanno offerto (Golinelli, 2004) aiutandomi, in après-coup (André, 2009), a dare raffigurabilità e pensiero alle dinamiche transferali e controtransferali messe in moto in questa relazione analitica.
Per B., in pieno caos adolescenziale, G. è stato lo specchio delle sue brame, trasformando Biancaneve nella regina pronta a tutto pur che la risposta fosse ‘sei tu, la più bella del reame’. Una soluzione magica, intrisa di masochismo e perversione, nutrita dal co-eccitamento sessuale, messa in atto per soffocare le esperienze traumatiche disorganizzanti e, illusoriamente, ‘sentirsi se stessa’, costretta dalla coazione a ripetere a essere addestrata e plasmata.
Le potenzialità di B. come soggetto vitale in divenire si sono trovate schiacciate dall’imposizione di ruoli alienanti, da una relazione genitoriale governata dal sadomasochismo, in assenza di una terzietà strutturante, senza un ‘luogo in cui vivere’ (Winnicott, 1971).
Questa seduta segna un momento di svolta: B. inizia a poco a poco a entrare in contatto con i suoi affetti e a renderli con-divisibili: “Sono divisa, spezzata, ma non mi sono polverizzata, tutte queste B., possiamo metterle insieme?”.
Il film non mostra vie di scampo: o una porta serrata o una finestra sul vuoto.
Il processo psicoanalitico, con il dispositivo del transfert/controtransfert, può uscire dal bivio mortifero e aprire una terza via: ri-vedere, ri-ascoltare, ri-costruire, cercare gli affetti che circolano, trovare una traiettoria per una funzione soggettualizzante (Wainrib, 2006, Roussilion, 2006).
In après coup, ipotizzo che il mio intervento, sul ‘versante dell’’interpsichico’ (Bolognini, 2008, Wainrib, 2012), affrontando il confronto con una realtà fin troppo brutale, abbia fatto sentire a B. uno sguardo che la stava cercando là dove era e l’ha riconosciuta, creando un primo ‘nesso soggettivante’.
Se il bambino vede se stesso nel viso della madre, egli dipende dalle risposte del viso della madre quando la guarda, per accertare il proprio senso di sé (Winnicott 1971, 191). Se lo sguardo è vuoto, opaco o diretto altrove, la percezione, non assistita dalla significazione, rimane priva di rappresentazione e prende il posto di quel processo a due vie in cui l’arricchimento personale si integra con la scoperta del mondo (La Scala, 1995). Quello che dà valore all’immagine è il suo riflettersi, il posarsi sullo sguardo di una mente che recepisce attraverso l’ascolto e la rimanda, arricchita di senso.

Note

(1)Il titolo evoca quello di un lavoro di G. Sacerdoti Riflessi di Venezia nel lavoro analitico (1982), dove l’Autore mostra come le caratteristiche peculiari di Venezia, città in cui lavorava, si riflettessero nella realtà interna dei pazienti in analisi.
(2)Vincitore del Leone d’Argento per la regia alla 70. Mostra del Cinema di Venezia e Coppa Volpi per il miglior protagonista maschile, l’attore Themis Panou
(3)Portami danzando ai bambini/che chiedono di nascere/guidami danzando oltre il velo/ che i nostri baci hanno consumato/poni una tenda a rifugio ora/ anche se ogni filo è strappato/guidami danzando fino in fondo all’amore.
(4) Il concetto è ripreso da vari Autori (Bergeret, 1981, Denis, 1997, Dorey, 1981, Laplanche e Pontalis, 1967, Munari 2013)
(5)Uso il titolo del libro di Carlo Levi (1955) ‘Le parole sono pietre.Tre giornate in Sicilia’, perché è un’espressione che rende bene, con la sua polisemia, la necessità che la parola sia legata ad affetti e pensiero, per avere una funzione simbolizzante.
(6)Questo avviene dopo la diffusione sui media del caso del professore di liceo di Saluzzo, arrestato per le relazioni con studentesse minorenni, riproposto su la Repubblica del 8/1/2014 in occasione delle deposizioni delle consulenze, che titola’Un patto di sangue con le sue allieve. Così il professore imponeva sesso e silenzio’. Le ragazze erano ‘iniziate a una sessualità pervertita’. B. ne rimane sconvolta e mi comincia allora a parlare di tutto questo, affermando di averlo ‘dimenticato’, ‘di non averlo voluto vedere’, di ‘non aver capito’.
(7)L’immagine di quell’uomo ‘installato’ dentro la paziente richiama al concetto di Ferenczi denomiato ‘trapianti estranei’, ricordato da Cabrè (2014), vincolato a quello di trauma e alle tracce traumatiche transgenerazionali.

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