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Marco La Scala

18/12/12

L’offerta del limite nel trattamento dei pazienti borderline

Marco La Scala 

In questo lavoro penso alla cura dei pazienti borderline come ad un’area che riguarda sia lo psicoanalista alle prese col paziente nel suo studio, e dunque al suo bagaglio clinico teorico, ma anche all’analista come parte di un progetto di cura più ampio infatti questo tipo di pazienti soprattutto se gravi, necessitano di reparti per periodi di ricovero, di day-hospital, di psichiatri, psicologi, infermieri educatori ecc.  Il setting nella sua visione più ampia e nei casi più gravi è necessariamente multifocale o integrato e l’analista in questo contesto offre la propria specificità psicoanalitica, come co-conduttore, come inter-visore, alle volte come super-visore. 

Identità di confine, identità del confine, questo il titolo da me scelto per un convegno organizzato dal CV nel 2006.

Questo titolo era forse più chiaro nella sua prima  parte, per il rimando ai cosiddetti stati-limite e alle patologie borderline, con il riferimento a quelle identità di confine, ambiguamente caratterizzate dal non essere, dal non collocarsi né da una parte né dall’altra rispetto a nevrosi e psicosi. Si tratta di pazienti in grado di utilizzare, quando necessario e con un assetto assolutamente variabile, tutto l’armamentario difensivo disponibile sia nell’area nevrotica che psicotica. In quell’occasione è stata proposta un’ottica particolare: non tanto patologie di confine, quanto piuttosto patologie del confine, una prospettiva lungimirante che aveva proposto Napolitano ancora nel 1996 (Napolitano 1996). Il riferimento era a Identità nelle quali è proprio il senso del confine a essere carente e precario, un rimando dunque ai confini dell’identità, o meglio, al ruolo del confine nel costituirsi e nel mantenersi del senso di identità.

Freud in Il disagio della civiltà (1929) ci mostra come la delimitazione dell’Io possa essere precaria: “La patologia ci fa conoscere un gran numero di stati in cui la delimitazione dell’Io nei confronti del mondo esterno diventa incerta o in cui i confini sono effettivamente tracciati in modo scorretto; ci sono casi in cui parti del proprio corpo, perfino porzioni della propria vita psichica, percezioni, pensieri, sentimenti, appaiono come estranei e non appartenenti all’Io; ci sono altri casi in cui al mondo esterno viene attribuito ciò che manifestamente ha avuto origine nell’Io e che da esso dovrebbe essere riconosciuto”. 

Vi raccontoil primosogno di una paziente che dopo un ricovero in Psichiatria  aveva da poco iniziato una psicoterapia e che mi è sembrato una raffigurazione molto forte e condensata attraverso la quale la paziente cercava di avvertirmi sui rischi nell’iniziare un trattamento con lei:“Dovevo pulire una vecchia brocca di vetro che era ricoperta di calcare. Ero molto preoccupata perché il calcare era così tanto e il vetro così sottile e temevo che la brocca non potesse resistere e si sbriciolasse.”.Un avvertimento, che vista l’estrema fragilità della paziente in quel momento, mi metteva in guardia rispetto ai rischi nel trattare i contenuti senza porre costante attenzione all’Io in quanto contenitore, già messo a dura prova nella sua integrità e capacità di tenuta e garantito nella sua esistenza da difese che per quanto patologiche e ai limiti di un’ideazione delirante erano comunque le uniche risorse possibili. La brocca di vetro mi sembra una potente raffigurazione del confine dell’Io e della sua fragilità, mentre lo strato di calcare, unito senza soluzione di continuità con il vetro, appare come una efficace raffigurazione delle barriere difensive che sostengono e rinforzano il confine stesso rendendolo però opaco.Il lavoro che mi trovai a portare avanti con la paziente del sogno prima riferito, mi fece comprendere come bastasse ridurre lo strato del calcare perché la trasparenza del vetro che metteva in contatto realtà esterna ed interna si costituisse come un elemento portatore di potenti valenze traumatiche a causa di percezioni intrusive e violente.E. Gaddini quando descrive il Sé nel suo prendere forma afferma che lo spazio del Sé individuale, diversamente da quello del Sé totale, è per la prima volta interno e delimitato da un confine che per questo viene esposto ad un mondo esterno illimitato. Esso è uno “spazio concluso” (fra il 1976 e il 1978). Questo confine concluso e  la conseguente angoscia di perdita di sé rimandano, per la condizione di fragilità, all’immagine della “vescichetta” descritta in Al di là del principio di piacere in cui Freud usa la metafora della pelle il cui strato più esterno, quello corneo, con la propria morte protegge gli strati sottostanti permettendo alla pelle stessa di mantenere la propria struttura quando viene sottoposta alle stimolazioni esterne di natura traumatica, cioè a “quegli eccitamenti che provengono dall’esterno e sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo” (Freud 1920). “In alcuni individui lo strato morto esterno si espande verso l’interno in misura maggiore rispetto ad altri. Può succedere addirittura che lo strato esterno morto renda il Sé vivente quasi irraggiungibile (Ingham 1998)”. E’ questo il caso dell’organizzazione difensiva descritta da Esther Bick (1968) e da lei definita “seconda pelle”.

Pertanto il delicato equilibrio tra esposizione e riparo del Sé nascente può essere compromesso:

–         sia per il prevalere della funzione di riparo, quando un eccesso del sistema paraeccitatorio agisce come una “pelle cornea”, impedendo la permeabilità dell’involucro psichico, o quando a un altro livello l’assetto narcisistico, rappresentabile anch’esso come un involucro che protegge l’identità dal riconoscimento oggettuale, diventa un fattore di isolamento dell’individuo e rende il soggetto incapace di riconoscere ed investire l’oggetto nel suo essere altro;

–         ma anche, viceversa, per eccesso di esposizione quando una carenza o violazione traumatica del sistema paraeccitatorio -anche di quello offerto dalla madre all’infans- costringe a una ipersensibilità dolorosa e intollerabile in cui domina quella che potremmo definire una percezione iperrealistica che non può usufruire della mediazione da parte di altri elementi psichici (come nell’esempio riportato della trasparenza della brocca).

Questo nei pazienti borderline continua ad avvenire perché non si è sviluppata quella indipendenza dal polo percettivo a favore di quello rappresentativo inconscio che è in grado di obliare e conservare tramite la rimozione. La rimozione infatti attraverso l’après-coup può sempre permettere la riattivazione di tracce mnestiche rielaborabili. Diversamente nei pazienti borderline si attivano le difese alla superficie dell’Io, a livello della percezione, come la forclusione o preclusione, l’allucinazione negativa, il diniego delle percezioni, la conseguente scissione ecc. Si passa così dal conservare attraverso l’oblio della rimozione, al bloccare, al respingere o al pesante compito paradossale di trattenere fuori quanto all’interno non può prendere forma per mancanza dell’interno stesso o del contenitore del contenuto. Ovviamente nel lavoro clinico in certe fasi o condizioni, possiamo riconoscere quanto sia delicato il compito del curante, dico curante perché non riguarda solo l’analista ma ogni forma di intervento anche riabilitativo, soprattutto nei pazienti che sviluppano un transfert “ambientale” laddove il curante e l’ambiente della cura è impegnato a sostenere quella funzione di interfaccia che con Anzieu possiamo riconoscere come involucro psichico, una struttura in grado di attivare sia una protezione e un filtro rispetto ad un eccesso di eccitamento, sia di permettere, favorire, modulare l’inscrizione di messaggi nello psichico (Anzieu 1985), un contenitore che non ha solo un ruolo passivo, bensì attivo. ( Voglio richiamare lo sviluppo del concetto di involucro psichico: Freud definisce l’Io come un essere di frontiera, dice che esso origina come proiezione della superfice del corpo, oltre ad esserne il rappresentante; definisce la sua origine dal corpo tanto da individuarlo all’origine come Io-corporeo.  Da qui Anzieu sviluppa il concetto di Io-pelle, molto vicino a quello freudiano di Io-corporeo, prima un Io-pelle comune alla madre e all’infans e poi un Io- pelle individuale. L’Io pelle evolve in Io-pensante continuando a mantenere la sua natura di essere di frontiera e la sua funzione di interfaccia tra lo psichico, la realtà esterna e a monte il corpo. E’ una prospettiva attraverso cui esplorare l’Io anche nella complessità delle  sue componenti percettive per cui si parla di involucro tattile, di involucro o schermo ottico ecc.). 

Il ruolo attivo dell’involucro psichico si può comprendere non pensando soltanto a una struttura interposta tra l’esposizione al fine di ricevere impronte e segnali e il riparo allo scopo di annullarli, ma come luogo, zona di trasformazione tra la spinta integrativa a creare legami e significazioni e l’attivazione di un para-eccitatorio che garantisce un riparo  adeguato a questa inscrizione di messaggi evitando  l’eccesso di eccitamento. Questo riparo e questa protezione i pazienti borderline in qualche modo li ottengono ma solo al prezzo di mantenere un congelamento, uno slegamento se non addirittura una auto-mutilazione di aree dello stesso apparato psichico. Questo può farci pensare anche alla cronicità come riparo e alla riacutizzazione come esposizione, la cura nella sua accezione più ampia, si colloca in questa soglia e i cambiamenti verso la guarigione riespongono necessariamente al rischio della riacutizzazione, che spesso ne costituisce dei passaggi obbligati. 

Come intendere il limite dunque ?

Il limite, può essere considerato come concetto in sé, come una zona, un area di elaborazione psichica (Green 1990b), come elemento che svolge una funzione basilare ordinatrice e regolatrice della vita psichica, garantendo nell’apparato psichico quello che nel mondo biologico è riconosciuto come semipermeabilità delle membrane: un ruolo di interfaccia di regolazione e di protezione selettiva (Anzieu 1985, Green 1990b). Ma questo, come evidenzia Conrotto, vuol dire riconoscere al limite che separa anche una funzione di collegamento: “…la nozione di confine cioè di distinzione-separazione deve accoppiarsi con quella di relazione, cioè di collegamento” (Conrotto 2008). Se questa funzione di collegamento viene a mancare come negli “stati-limite “ manca una relazione e una collaborazione tra i vari distretti dell’apparato, tra le varie modalità del suo funzionamento, tra la rappresentazione dell’interno e dell’esterno e tra l’eterogeneità dei significanti.” (ibidem).

Questa accezione e funzione del limite non è da considerarsi soltanto per quanto riguarda il punto di vista intrapsichico ma anche per quello relazionale: Il lavoro sul area del limite dal punto di vista relazionale, nell’analisi, nella terapia, ma in forma ancora più evidente nelle varie forme di intervento della psichiatria, nelle proposte riabilitative ambulatoriali o residenziali, ha effetti che possono essere clamorosi per le ripercussioni sul versante intrapsichico. Ora come nell’analisi dei pazienti borderline si propone un setting e si avvia un processo trasformativo così nelle molteplici proposte in cui possono articolarsi i vari setting della psichiatria, comunque, si può avviare un processo e questo è importante che venga verificato nel tempo, anche nei tempi lunghi e soprattutto che venga correlato al processo che contemporaneamente si svolge nell’ambiente della  cura e delle sue articolazioni tra luoghi, funzioni e competenze professionali diverse. Luogo della cura che è anche sempre il luogo che riflette le scissioni del paziente, luogo che ne diviene scenario, insopportabile alle volte, comunque decifrabile. Ma è importante avere interiorizzato la consapevolezza che la proposta terapeutica e i setting che la sostengono e che la articolano ( tra luoghi e professioni diverse),  sono per questi pazienti anche e prima di tutto l’offerta di quegli spazi e quelle funzioni di cui il loro Io è carente. Se l’esterno è il luogo privilegiato per questi pazienti, che difettano dell’interiorizzazione, l’articolarsi degli spazi esterni del setting psichiatrico si riflette negli spazi interni del paziente e le funzioni di distinzione e collegamento proposte attraverso di essi si riverberano all’interno con un effetto che può essere ordinatore e strutturante. Questa offerta va al di la del semplice contenimento coesivo potendo sviluppare le molteplici funzioni che caratterizzano l’involucro psichico e che permettono a qualche livello anche una riorganizzazione topica dell’intrapsichico. 

Lo spazio tra due: l’area di transizione e l’area transizionale

Mi sembra importante riconoscere, e distinguere dall’area transizionale, quella che ho definito area di transizione (La Scala 2008), area che contiene solo in nuce lo sviluppo di quelli che Winnicott definisce come fenomeni transizionali: la capacità di simbolizzare, l’illusione, la capacità di giocare, la creatività, etc. Con la definizione di area di transizione intendo indicare uno spazio di separazione sé/altro da sé, percorribile come luogo di contatto e distacco, metaforicamente deputato ad accogliere la vera e propria area transizionale, e poi a trasformarsi in essa. Un’area che, se deprivata o impoverita della transizionalità, nelle situazioni estreme, come nei pazienti borderline,  diverrà uno spazio reso indistinto da una caparbia pretesa di giustapposizione se non di coincidenza, o da aree di sovrapposizione confusiva sé-oggetto, per quelli più vicini alla psicosi; o al contrario diverrà uno spazio fatto di distanze illimitate, di contatti impossibili, di mete irraggiungibili, alla fine uno spazio altrettanto irrappresentabile.

Se intervengono difficoltà nella realizzazione dello spazio transizionale, si crea una sorta di fissazione alle continue sperimentazioni in quest’area di transizione, una fissazione caratterizzata dalla coazione a ripetere e dal fallimento. Quest’area di transizione è anche il luogo di quelle che Winnicott definisce come agonie primitive, di alcune forme di vertigine, dei cosiddetti attacchi di panico e dell’agorafobia. Winnicott definisce lo spazio transizionale anche come un “posto di riposo per l’individuo impegnato nel perpetuo compito umano di tenere separate, e tuttavia correlate, la realtà interna e la realtà esterna” (Winnicott 1971). L’area di transizione invece è un luogo di tensione continua, in cui domina una profonda insicurezza dei propri limiti, in cui si assiste al tentativo continuo di ripristinare un confine rigido e non transitabile, perché l’angoscia è sempre in agguato. La difesa in questi casi è quella di erigere al posto di un limite transitabile che porterebbe all’intrusione di un’estraneità intollerabile, una barriera psichica impenetrabile a protezione dell’Io che è all’origine delle necessarie scissioni patologiche.

Come ho detto soltanto qualora vi sia una costellazione di difese che fanno capo alla rimozione, o che ne siano sua diretta espressione in quanto testimonianze di una rappresentanza pulsionale nello psichico, possiamo pensare a un conflitto completamente interno all’area psichica e all’Io. Nelle situazioni in cui invece non è in primo piano la rimozione, o essa non appare funzionare adeguatamente, allora il conflitto interno allo psichico non si costituisce e le difese rimangono collocate alla periferia dell’Io sul fronte della percezione che diviene luogo di contrasti, non di conflitti, senza possibilità di adeguate mediazioni da parte dello psichico e del rimosso. Così se nelle nevrosi l’oggetto privilegiato della psicoanalisi è l’inconscio e i limiti tra questo e il preconscio conscio, l’oggetto privilegiato della clinica borderline è invece l’Io (Green 1990b) in quanto essere di frontiera, questo modifica uno dei paradigmi centrali della psicoanalisi, perché le difese operano tra interno ed esterno  e fanno si che il paziente sia dipendente da un oggetto posto prevalentemente  nella realtà sterna e non prevalentemente nella realtà interna attraverso la traduzione simbolica e l’elaborazione del lutto. Per questo motivo Green ha insistito sul concetto di doppio limite: “fra il dentro e il fuori, da una parte, e fra le due parti separate che dividono il dentro (limite dei sistemi Conscio-Preconscio e Inconscio) dall’altra. E’ così che potrebbero essere riunificati i due grandi settori della psicopatologia: psicosi e nevrosi, con tutto lo spazio attribuito alle strutture che non sono né nevrotiche né psicotiche” (1990). 

L’integrità dell’Io nella sua funzione di interfaccia è quindi  in parte salvaguardata, ma attraverso una “limitazione”, sia dell’esperienza, che dell’Io: ne consegue la necessità di una protezione-demarcazione rigida, che implica anche aspetti mutilanti, e questa “limitazione” si sostituisce a quella fisiologica “delimitazione” che si pone invece come una frontiera adeguatamente elastica e permeabile sia verso l’esterno, l’altro, che verso l’interno, la spinta pulsionale dell’Es e, a monte, il corpo

Se il diniego con il suo controinvestimento non è sufficiente a costituire una barriera sulla superficie dell’Io, questa verrà spinta all’interno dell’Io sotto forma di scissione: una linea di demarcazione non transitabile dividerà l’Io da/in se stesso nel suo funzionamento, delimitando aree di esso non comunicanti. Da qui le continue e repentine oscillazioni tra gli opposti che connotano l’aspetto più evidente della psicopatologia del borderline e che non è riducibile solo a buono e cattivo ma a tutte le declinazioni possibili del piacere dispiacere: vicino distante , pesante leggero, qui altrove, , caldo freddo, stretto largo, pieno vuoto, aperto chiuso ecc.

VIOLA :

Viola per il suo diciottesimo compleanno desidera emanciparsi, e vuole festeggiare: compra un abito da sera lungo e scollato come quelli della mamma e per organizzare la festa tappezza la sua stanza di bigliettini di appunti così come fa il padre in studio. E` chiaro il suo desiderio di assumere due aspetti idealizzati dell’identità dei genitori, ma la sua è una pretesa magica e onnipotente tant’è che per la preparazione della festa si spersonalizza, entra in uno stato di eccitamento confuso e sarà costretta a un ricovero. In seguito a questo episodio mi verrà inviata. Quella di Viola è stata una terapia lunga, tre volte interrotta, il setting è stato  costruito gradualmente fino a poter continuare come analisi. Di lei mi stupì il contrasto tra elementi adesivi e compiacenti espressi anche dalla sua voce flebile quasi fatua e un corpo e un’espressione una motilità che mi facevano sentire che covava sottopelle una rabbia enorme, come se potesse esplodere dalla rabbia. 

Primo periodo 

Riprendo un particolare relativo al primo periodo di terapia in cui prevalentemente mi parlava dei suoi complicati tragitti in casa obbligata a difendersi dall’angoscia non mettendo mai un piede a cavallo fra due mattonelle, non potendo mai interrompere una linea che lei poteva scorgere sul pavimento. Anche la soglia del mio studio era una di queste linee fonte di angoscia e lei ogni volta si fermava fuori, distante dalla soglia di marmo chiaro e da li mi tendeva il braccio e la mano. Solamente quando sentiva il contatto, mano nella mano, lei riprendeva a camminare ed entrava mantenendo questo contatto per il tempo necessario a transitare da fuori a dentro. Quando ha iniziato a parlare dei suoi comportamenti con le linee lei non si definiva come un soggetto che taglia una linea ma diceva : se la linea si taglia…. la linea non si deve interrompere.  Le sue frasi costituite da un soggetto grammaticale e un verbo senza complementi,   l’uso riflessivo del verbo, l’indicare la trasformazione di una caratteristica geometrica o fisica di un corpo che implica una deformazione, una trasformazione della forma, tutti questi elementi stanno a indicare quanto descritto da D. Anzieu  come “significante formale”,  espressione di una confusione dentro fuori, vissuti come un sogno angosioso o un incubo e da attribuire ad un funzionamento prefantasmatico. 

 Ripetutamente lei venendo in città, dove risiedeva per i giorni delle sedute, lasciava a casa della madre chiavi portafoglio e documenti, quando poi vi ritornava lasciava il cancello aperto e la macchina in discesa senza marcia e senza freno che dopo poco se ne usciva nella strada con effetti clamorosi. Ha rischiato di interrompere la terapia perchè i soldi non bastavano più a pagare me e contemporaneamente i vari muratori, fabbri, carrozzieri, nonché i biglietti autostradali persi che si dovevano pagare dalla frontiera con la Germania. quando queste cose accadevano avevo l’impressione che fosse in gioco una particolare forma di splitting e un’azione espulsiva ad imperare che non erano permeabili ad alcuna simbolizzazione il cui scopo prevalente era quello di segnare un limite, l’unico possibile oltre il quale collocare in modo espulsivo ciò che non poteva tollerare e di ricostituire con questo un senso di coesione e di non rottura.

Questa pretesa non riuscita di vivere in un mondo privo di antitesi (l’indifferenza dell’Io realtà primitivo )  la costringe a prendere atto di un interno e di un esterno e su questa differenziazione promuovere quell’attività proiettiva che va a costituire l’Io purificato ipotizzato da Freud, cioè l’Io che funziona attraverso una ripartizione in cui “il soggetto coincide con tutto il piacevole e il mondo con tutto lo spiacevole, ripartizione che si compie mediante una introiezione della parte degli oggetti del mondo esterno che è fonte di piacere e con la proiezione all’esterno di ciò che è all’interno occasione di dispiacere.” (Freud 1925) 

Patologia borderline

La patologia borderline mette in scacco la nosografia, i sistemi e le dottrine di ogni genere e pone degli interrogativi più generali sui fondamenti delle classificazioni, sui modelli della psicopatologia, sul funzionamento psichico ai diversi livelli di organizzazione (Brusset 2006).

Sarà Gaddini a superare l’idea di una patologia di confine tra nevrosi e psicosi e ad ampliare l’area di questo confine ad altre forme patologiche. In “Note sulla struttura borderline” Gaddini scrive: “Ciò che nella mia esperienza considero più rilevante, non è tanto la patologia manifesta, quanto la varietà della patologia latente. Intendo, per latente, una patologia organizzata, ma non strutturata … e che può diventare manifesta se necessità lo impone. …Non basta dunque, per definirlo, dire che l’Io del borderline non è psicotico ma è al margine e neppure dire che ha un nucleo psicotico (cosa certamente vera). Il fatto importante è che se non è psicotico può, quando occorre e per il tempo che occorre, diventarlo. Alla stessa stregua si può dire che il suo non è l’Io di un coatto (o perverso ecc.) ma può, se e per il tempo che occorre, diventarlo. Nessuna di queste diverse forme di patologia è strutturata nell’Io: piuttosto, l’Io sembra essersi sviluppato in modo da usarle come organizzazioni difensive di ricerca, a cui potere temporaneamente ricorrere in caso di bisogno … “(Gaddini 1979). L’Io del futuro borderline per questo autore ha dovuto rinunciare a strutturarsi in funzione dei suoi compiti specifici e “ha dovuto di necessità piegarsi alla richiesta imperiosa e perentoria dei bisogni di un Sé seriamente danneggiato” (Gaddini1984) impedendo l’evoluzione verso il consolidarsi di una struttura psichica stabile. Un’impostazione analoga propone anche Bergeret (1974) che definisce la patologia borderline sulla base di una non strutturazione e dell’affermarsi di un’organizzazione mentale fluttuante e non definita che chiama “organizzazione a statuto provvisorio”.

Nel momento in cui l’angoscia originaria può essere affrontata soltanto, come nell’infans, mediante il ripristino di un confine che viene trovato nel contatto sensoriale con l’ambiente [madre]: “Percepire [o meglio sentire]ed essere diventano allora la stessa cosa, coerentemente con il concetto freudiano di identità di percezione, ed il carattere (imitativo) di questo funzionamento è analogo a quanto accade ad un liquido che assume la forma del suo contenitore: essere tutt’uno con [quello che noi sappiamo essere] l’altro è l’unica possibilità per essere”(Genovese 2009). Già noi sappiamo  che si tratta dell’altro ma il paziente nelle sue sperimentazioni nel momento in cui non  lo sa, se lo ritrova invece come un estraneo addosso o  dentro e ne soffre l’intrusione.

Ma proprio per questo motivo, per questo essere costretti a prendere la forma dell’altro continuamente ritroviamo rimandi di tipo claustrofobico in tutte le personalità borderline; intendo qui elementi claustrofobici in senso lato come può essere il loro sentirsi intrappolati in un ruolo, in una definizione, in una relazione, in qualunque forma di definizione che proprio in quanto definizione non lasci aperte e praticabili tutte le vie possibili per mantenere uno stato di controllo onni e toti-potente. E’ questa onni-toti-potenza, una condizione irrinunciabile, in chiunque non abbia raggiunto un grado di individuazione sufficiente per attuare una scelta e affrontare, insieme ad una nuova acquisizione, anche l’imprescindibile quota di perdita che ogni scelta comporta. Il funzionamento mentale, al pari del Sé, sembra orientato a evitare di assumere una qualsiasi forma perché comunque sarebbe una forma aliena alienante e questo non aver né forma, né struttura, sembra essere l’unica difesa da una condizione di intrusività altrimenti non sostenibile.

Si tratta anche di un’angoscia claustrofobica connessa al sentire l’esiguità e l’immobilità dell’Io rispetto alla concretezza ingombrante e parassitante degli oggetti sempre troppo vicini al polo percettivo della realtà esterna, e che all’interno si trovano in uno stato di incorporazione o di introiezione molto precaria. Non si tratta allora soltanto dell’Io dentro…, ma del dentro dell’Io, e che ci fa pensare ad un Io vincolato, tiranneggiato da un Sé che per garantirsi la sopravvivenza non consente il movimento e il funzionamento strutturale dell’Io.

Anche se il soggetto e l’oggetto restano in buona parte differenziati, diversamente che nella psicosi in cui lo sono molto meno, nella situazione border saranno il simbolico e il reale a trovarsi privi di adeguate mediazioni e la personalità non potrà che organizzarsi sotto gli influssi di una scissione tra questi due mondi e cioè tra interno ed esterno.

A. Green nel suo libro  La folie privée (1990a) individua la scissione tra esterno ed interno come un elemento che costituisce” un involucro che delinea i contorni dell’Io, i cui limiti sono meglio definiti, ma non tanto da funzionare come barriera protettiva. In realtà le frontiere dell’Io si presentano come molto precarie e la scissione le segue nei loro movimenti … alternando espansione e contrazione, che altro non sono se non una modalità reattiva all’angoscia di separazione (perdita) e/o all’angoscia di intrusione (implosione)”…  un sistema che costituisce “l’ultima barriera protettiva contro la disintegrazione o il disfacimento … questa barriera non protegge abbastanza un Io vulnerabile, contemporaneamente rigido e privo di coesione” (Green 1990b corsivo e grassetto mio).

Questa definizione di stato limite di Green ancora del 1990 comprende oltre che gli effetti della scissione sull’Io e sul suo funzionamento che ho cercato fin qui di descrivervi, anche l’idea di una separazione-perdita  impossibile, di un lutto inelaborabile che prende la forma di una “depressione primaria” nel senso di un disinvestimento radicale (Green 1990b p 115).  Questo genera uno stato di “ vuoto del pensiero, senza componenti affettive quali il dolore e la sofferenza” sul modello della psicosi bianca. L’incapacità ad elaborare il lutto originario, questione centrale in questa patologia e nelle analisi di questi pazienti , spiega molti dei sintomi degli stati limite ma anche secondo l’ultimo Green “l’aspirazione verso il vuoto, verso il nulla come espressione della pulsione di morte: “ per ottenere quello stato di quiete e di riposo che segue la soddisfazione (ma) attraverso l’estinzione stessa di ogni speranza di soddisfazione” (Green 1990b p 85).

Due aspetti sono dunque da considerare pensando all’origine della patologia bordeline ma anche allo sviluppo del processo terapeutico :

-Una pulsione di morte disimpastata e dunque non neutralizzata, non legata dalla libido attraverso quello che Freud ha individuato alle origini come il masochismo erogeno (1924) in grado di legare libido e distruttività piacere e dispiacere. (San Sebastiano….la sofferenza che questi pazienti procurano al curante demandando a lui l’integrazione….)

-Il meccanismo di contrapposizione libidica selettiva accennato da Freud (1924) e ripreso da Gaddini (1974 p 332) che crea fin dalle origini un accumulo di cariche libidiche all’interno a protezione del sé e del narcisismo, per contrastare le cariche distruttive legate alla pulsione di morte che vengono all’origine convogliate all’esterno ma che minacciano di irrompere all’interno. A causa di questo eccessivo gradiente, si crea e si fissa una “polarizzazione” (Rosenberg 1991) al posto di un impasto pulsionale. (bello e cattivo tempo … contrasti… voltafaccia ecc… capovolgimenti di scena… contrapposizioni tra i curanti) 

Una tensione dunque è presente tra: interno/esterno, piacere dispiacere, libido/distruttività: oscillazioni che caratterizzeranno la natura borderline della relazione oggettuale; questa sempre si dibatterà tra narcisismo e oggetto, tra buono e cattivo, tra dentro e fuori; infine, per quanto riguarda il limite, come area di elaborazione psichica, tra la tendenza a creare legami propria di Eros e quella a slegare propria di Thanatos, pulsioni che potranno fissarsi in una polarizzazione invece che legarsi tra loro.

Capisco che la pulsione di morte sia un argomento evitato da molti analisti e quindi penso che possa suscitare perplessità, ma di fatto per me rappresenta una delle più importanti chiavi di lettura per questa patologia e torna pure utile nel cercare di dare una qualche spiegazione ai comportamenti autolesivi, spesso inferti proprio sulla pelle, e alle condotte suicidarie di alcuni di questi pazienti, che poi sono proprio quelli  che occupano di più i gruppi di lavoro e i reparti di ricovero e per i quali vengono chieste supervisioni agli psicoanalisti.

A questo proposito sono rimasto molto stupito nel verificare che pazienti borderline a un certo punto del lavoro analitico possono aprire una via melanconica, l’altra potente espressione del disimpasto pulsionale, che avviene secondariamente  per una perdita o una forte delusione da parte di un oggetto che è stato maggiormente identificato rispetto a quello borderline.

Negli stati limite l’identificazione narcisistica come regressione che caratterizza la via melanconica  viene ad avere un ruolo relativo, come anche la re-introiezione della pulsione di morte perché questa resta incanalata prevalentemente all’esterno con scarse possibilità di legame (se non da parte dell’ambiente che viene per questo sempre messo a dura prova in quanto ambiente di cura) e scarse possibilità di ri-legarsi all’interno dell’apparato psichico.

Per questo negli stati limite la partita sembra svolgersi prevalentemente all’esterno e trova la sua difesa centrale nel diniego delle percezioni sul limite interno/esterno

Il destino dello Stato limite è dunque legato ad una sviluppo difettuale della soggettività, mentre il melanconico, pur dovendo fare i conti col suo “niente di rappresentazioni” (Lambotte 1993) è comunque più organizzato come soggetto; lo Stato limite, più radicato alla logica del confine, è più in balia dell’angoscia di intrusione rispetto ad un’estraneità dentro, che non può essere identificata. Al di là dell’essere identificati alle origini dal desiderio della madre, diverso è poi non identificare l’oggetto come avviene nei borderline, dall’identificarsi ad esso cosa che avviene nei melanconici.

Poste queste differenze tra le due forme non c’è da stupirsi se persone la cui personalità definiamo appartenere alla patologia degli Stati limite, per le vicende che la vita può imporre tra cui la cura, appaiano in grado, ad un certo punto della loro storia, di avviare la costruzione della via melanconica o si sentano spinti, inaspettatamente, in una dimensione melanconica ingestibile.

Queste aperture alla via melanconica degli Stati limite caratterizzano situazioni di estrema gravità, perché la spietata lucidità del Super Io, si unisce all’impulsività che tipicamente caratterizza il paziente Borderline nel realizzare il suicidio.

Dunque in alcuni casi, per fortuna pochi, vi può essere una continuità tra le due vie:  un certo signore si era ridotto a fare il barbone in casa in una condizione di gravissimo degrado, nella casa dei suoi genitori morti anni prima, l’ambiente in cui era immerso  aveva fatto perfino i vermi, mentre la stanza dei genitori era assolutamente rimasta come era al momento della loro morte. L’equipe ha programmato interventi diversificati sul piano farmacologico, attraverso colloqui clinici, gli infermieri hanno programmato interventi domiciliari ecc. Un po’ alla volta il paziente migliora torna a socializzare, ma più progredisce e riduce le sue barriere e più si avvicina al lutto  e inizia a verbalizzare intenti suicidari. Il setting multifocale proposto dall’equipe prevede allora anche un dovuto aiuto psicoterapico, uno spazio in cui  permettergli di esprimere il suo dolore mentale, potendolo mettere in parole  e non solo facendolo agire e controagire  nella messa in scena dell’intera equipe. Questa vignetta può farci molto pensare, questo paziente non ha sognato la brocca col calcare per avvisare del pericolo però ci invita ad essere coerenti nel progetto di cura fino in fondo, o fino a dove si può.

VIOLA:  quarto periodo……….

Bibliografia

Anzieu D. (1985), L’Io-pelle, Borla, Roma, 1987.

Bergeret J. (1974), La personalità normale e patologica, Raffaello Cortina, Milano, 1984.

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