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REPORT: 2° seminario di ricerca sulle patologie borderline, 24 novembre 2012 MILANO

12/12/12

Report a cura di di Gabriella Giustino 

In un clima di pacato e proficuo confronto scientifico si è svolto a Milano il 24 novembre 2012, il 2° seminario di ricerca sulle patologie borderline, iniziativa  promossa dall’Esecutivo nazionale.

Ha aperto i lavori Giovanni Foresti Segretario Scientifico della SPI. Giorgio Campoli, chairman della sessione plenaria,  ha introdotto il  poderoso contributo di  Antonello Correale.

La relazione verteva su un’ approfondita sistematizzazione teorico-clinica del disturbo borderline. Il tentativo di distinguere le caratteristiche fenomenologiche e dinamiche di quest’ultimo dai cosiddetti stati limite della letteratura francese (in particolare attraverso un’erudita trattazione di Green) mi è parso alquanto convincente. Percorrendo divergenze e somiglianze, Correale ci ha guidato verso una progressiva chiarificazione  della  specificità del disturbo  borderline  che non rimanda tanto ad un vuoto ma ad un “pieno” tumultuoso di emozioni violente senza contenitore-confine. La trattazione della difficile questione del nucleo psicotico, la precisazione del concetto di dissociazione che rimanda ad uno stato ipnotico della mente in cui l’Io è segregato dal resto della personalità, lo stato umorale tipicamente “disforico” di questi pazienti (Rossi Monti, 2005)  e molte altre osservazioni teorico-cliniche,   hanno caratterizzato un’ utilissima disamina sul disturbo e su come tentare di comprenderlo e curarlo.

A mio parere il contributo di Correale rappresenta un  modo di fare ricerca in psicoanalisi che cerca di far chiarezza (e ci riesce) senza sacrificare la complessità.

Dopo l’ascolto concentrato del contributo di Correale abbiamo seguito le relazioni dei due discussant della sessione plenaria.

La prima relazione (scritta da Benedetta Guerrini Degl’ Innocenti) verteva soprattutto sulla prima parte della relazione di Correale e riguardava particolarmente l’approfondimento di quel collocarsi  “tra” che caratterizza lo stato limite mentre la seconda,  scritta da Paolo Chiari,  era centrata sulle caratteristiche del disturbo borderline “vero e proprio” .

Non mi soffermo sulla ricchezza di questi contributi : rimando alla loro lettura poiché saranno pubblicati integralmente.

Discussione

Al termine della sessione plenaria si è aperta  un’interessante discussione che  vorrei cercare di riportare nei contenuti, con l’aiuto dei colleghi che sono intervenuti.

Nel suo intervento Franco  De Masi ha prima di tutto ricordato il lavoro di Kernberg,  utilissimo per definire in modo preciso lo spettro dello stato borderline; quindi ha sottolineato la sua idea che un elemento che differenzia il paziente psicotico da quello borderline è talora rappresentato dalla storia psicodinamica. Entrambi i tipi di pazienti partono dall’ esperienza di non esser stati aiutati dai genitori a sviluppare un funzionamento inconscio ricettivo-emotivo (che è alla base della capacità di pensare e di comprendere le proprie emozioni).Tuttavia, mentre i borderline sono stati spesso oggetto di traumi violenti ( aggressioni, abusi sessuali etc.), i pazienti psicotici di solito non hanno subito un trauma violento ma un’assenza di strutturazione mentale dovuta a genitori assenti, incapaci di contatto emotivo. Tali pazienti  costruiscono un ritiro sensoriale in cui vivono  perdendo  la loro aggressività vitale.

I borderline, invece,  mantengono la loro aggressività che usano in modo reattivo e vendicativo, entrando in un circuito sado-masochistico difficile da trasformare in analisi. De Masi ha  riportato infine una sintesi di un lavoro recente di Baron Cohen ( La scienza del male, Cortina, 2012) in cui viene illustrato  un interessante punto di vista neuroscientifico sulla mancanza di empatia e sul conseguente mancato contenimento dell’ aggressività nei borderline

Gabriella Giustino ha integrato l’intervento precedente sull’empatia affermando di ritenere che nei pazienti borderline si assiste piuttosto  ad  una sorta di “ disempatia”, una disorganizzazione della comprensione delle  emozioni proprie ed altrui. Inoltre Giustino ha concordato con la visione di Correale riguardo al concetto  di stato dissociativo della mente che ha effetti di tipo ipnotico ed ha ricordato che anche Winnicott ne aveva parlato diffusamente  sia in “Gioco e realtà” (descrivendo la fantasia dissociata ad occhi aperti, il sogno che non si ricorda),  che “Nelle origini della tendenza antisociale” dove aveva descritto lo stato dissociativo del Sé  di una bambina cleptomane di otto anni in terapia con lui.

Marco La Scala ha riportato altri interessanti spunti:  si è soffermato in particolare sul significato che Green attribuisce alla parola esternalizzazione. La Scala ha sostenuto  che Green forse  non pensava all’esteriorizzazione come ad un mettere fuori proiettivo (pur essendo l’ identificazione proiettiva molto attiva in questi pazienti) ma pensava, come Winnicott,  al valore dell’oggetto reale esterno; quello trascurato dalla psicoanalisi classica che ha visto l’oggetto all’interno della teoria sulla pulsione come un  elemento sostituibile.

Rispetto ad una possibile differenziazione tra stati limite e borderline, ha aggiunto ancora La Scala nel suo intervento,   molto dipende da quanto nell’infans si sia costituito un buon assetto narcisistico e dunque anche una difesa narcisistica e da quanto invece l’esposizione all’oggetto come elemento di per sé traumatizzante sia avvenuto o troppo  precocemente o anche  in tempi adeguati ma con una funzione paraeccitatoria  carente.  Queste condizioni possono comportare una sorta di fissazione, in cui l’incontro-scontro con l’oggetto è “bruciante” e viene a mancare la gradazione delle tinte intermedie all’interno delle coppie di opposti che soltanto la protezione narcisistica in quanto involucro psichico può permettere.

La Scala ha infine ricordato  come Eugenio Gaddini si fosse espresso  sulla patologia borderline superando il problema dell’attrazione da parte del nucleo psicotico e avesse individuato la sua area di appartenenza come

“ non strutturazione”. Sarà Gaddini a superare l’idea di una patologia di confine tra nevrosi e psicosi e ad ampliare l’area di questo confine ad altre forme patologiche. L’Io del futuro borderline per questo autore ha dovuto rinunciare a strutturarsi in funzione dei suoi compiti specifici e “ha dovuto di necessità piegarsi alla richiesta imperiosa e perentoria dei bisogni di un Sé seriamente danneggiato” (Gaddini1984) impedendo l’evoluzione verso il consolidarsi di una struttura psichica stabile.

Giovanni Foresti ha ricordato che spesso i pazienti su cui lavoriamo sono diversi a seconda del contesto in cui avviene la terapia (es. contesto istituzionale oppure no) ed ha ricordato ha questo proposito la diatriba teorico- tecnica tra Kernberg e Kohut a proposito dei pazienti narcisisti.

Irene Ruggiero ha molto apprezzato l’impegno di Correale nel distinguere stati limite e disturbi borderline perché,  anche se nella clinica la distinzione è piuttosto difficile (mentre lo ascoltava, si chiedeva in che area si collocasse il paziente di cui aveva parlato nella prima Giornata SPI sulle patologie gravi), il  lavoro discriminatorio di Correale permette di delineare meglio il campo e di affinare  i nostri strumenti di osservazione e di comprensione.

A questo proposito, Ruggiero si chiede se il controtransfert non possa costituire un utile strumento per orientarsi nella discriminazione tra  disturbo borderline e stato limite: da una parte la rabbia, elemento controtransferale abbastanza specifico nella relazione con il paziente border, paziente arrabbiato e che fa arrabbiare, forzando spesso l’analista ad assumere il ruolo di quell’oggetto sufficientemente cattivo che il border va continuamente ricercando; dall’altra il vuoto,  la noia e la devitalizzazione, elementi controtransferali più frequentemente osservabili nella relazione con i pazienti limite.

Per quanto concerne il funzionamento mentale dei border,  esso appare caratterizzato da un disturbo della memoria  e dell’ elaborazione che  talvolta si esprime in quello che Ruggiero si rappresenta come “un procedere con i paraocchi”, con un conseguente “effetto teleobiettivo”: viene perduta la capacità di contestualizzare, il che fa sì che un particolare marginale possa essere scambiato per un elemento centrale  e diventare l’unico focus,  assumendo un valore assoluto, estraniato dal contesto che permetterebbe di comprenderne il senso  relativo (una sua paziente  diceva che  le sue sfuriate, mentre erano in atto,  le apparivano come delle “Sante Crociate”, tanto  si sentiva – finché era in quello stato di debordante turbolenza emotiva – dalla parte della ragione, completamente e senza alcun dubbio); in queste situazioni, all’oggetto sembra riservata la parte di entrare in un ruolo già scritto e recitare un copione, come ben raccontato nel film “Copia conforme” di Kiarostami (2010).

Laura Colombi nel suo intervento  ha posto l’enfasi sulla clinica infantile e, in particolare, l’attenzione al legame tra ambiente relazionale traumatico e distorsione evolutiva del normale funzionamento immaginativo-mentale del bambino, le ha fatto porre  una domanda:  se è possibile un’ulteriore  precisazione su quelle che Correale considera differenze di fondo nella  qualità traumatica (in termini di precocità e/o ripetitività) dei due contesti ambientali  nei quali si incistano le premesse per lo sviluppo   per uno stato limite o borderline.

Infine Colombi ha aggiunto, sempre dalla prospettiva evolutiva,  un suo parere sugli apporti che la teoria dell’attaccamento – in particolare in relazione all’attaccamento disorganizzato –  può offrire alla clinica psicoanalitica di queste  patologie .

Filippo Marinelli è intervenuto chiedendo  se non possa essere rischioso confondere ciò che Correale descrive come una sorta di afflato etico di fondo, quasi teleologico , del borderline, con la intensa idealizzazione (inconscia) di un oggetto interno, non necessariamente fondato su Eros. Ad esempio il suicidio, vero o simbolico, come soluzione salvifica.

Marinelli ha inoltre domandato se, se  sul concetto di psicosi,  Correale considera come tale solo il completamento del processo con il “secondo tempo” che interviene dopo la esteriorizzazione del mondo interno nel tentativo di ricostituirlo,  oppure sostiene come  più convincente indicare come psicosi già l’effetto dell’esteriorizzazione, in linea con il concetto di psicosi bianca e con il “vuoto ” winnicottiano descritto nell’articolo sullo sguardo materno come specchio.

Marinelli ha sostenuto infine che è  molto importante raccogliere la ricchezza di esperienze cliniche e di riflessioni teoriche diverse attualmente esistenti nella SPI su queste problematiche che invece spesso restano in una dimensione solo individuale. Tutte le esperienze e ricerche più recenti concordano nel ritenere che il trattamento psicoanalitico sia particolarmente indicato per le patologie borderline e che richieda una riflessione per modularne  le specificità del setting, degli interventi/interpretazioni, della durata degli stessi.

Anna Ferruta è intervenuta in conclusione chiedendosi innanzi tutto se la formula  organizzativa del Seminario di ricerca sia la migliore o se dobbiamo pensarne altre, per non disperderne la ricchezza e sviluppare la ricerca. Poi ha ripreso due aspetti in particolare della relazione di Correale:

1) La sua distinzione tra borderless e borderline che le è parsa di utilità teorica e clinica. Il borderline sta  veramente su una linea, su un sottile confine, che nella relazione con l’analista viene inevitabilmente  ripetutamente violato, almeno in tre direzioni, perché il borderline non ha avuto l’esperienza di un posto in cui stare per un tempo sufficientemente lungo che gli permettesse di acquisire una sua pelle psichica.

L’analista, sostiene Ferruta,  invece di struggersi per stabilire una diagnosi o una scena traumatica, è chiamato continuamente a varcare con il paziente queste linee , a fargli vedere che sta cercando un suo posto,  ma che non è quello che di volta involta crede di avere raggiunto, e mostrargli che a poco a poco ha conquistato un posto nella mente e nella relazione con l’analista. Ferruta ha raccontato che le capita spesso con questi pazienti di utilizzare la riflessione sul fatto che il suo studio praticamente è equidistante dal Policnico dal Tribunale e dal Conservatorio. Di volta in volta il border si sente in preda a una sofferenza senza nome al punto di invocare il ricovero in ospedale; altre volte si scatena in furie di denuncia al tribunale dei traumi subiti; altre ha la capacità di ritrovare in produzioni artistiche la rappresentazione della sua storia. Ogni volta crede di aver trovato il suo posto e scivola dalla linea sottile in cui si è assestato, cade nell’Ospedale o nel Tribunale e Conservatorio e poi non ci si riconosce e viene via. Con lui l’analista in numerosi enactment lo accompagna offrendogli un posto nella sua mente che a poco a poco prende forma.

2) L’altro elemento della relazione di Correale preso in considerazione da Ferruta nel suo intervento è la descrizione del trauma del border come esperienza di morte psichica:  un’accezione più esplicativa, in quanto mette in evidenza che cosa avviene nel mondo interno del paziente; il crollo dei processi di soggettivazione che comportano il rischio di spegnimento dell’attività psichica, la ricerca di rivitalizzazione attraverso gli agiti etero e autolesivi, le accensioni, le rabbie, l’abuso di sostanze. La dizione di trauma per Ferruta accentua troppo ciò che è già avvenuto: lo spegnimento della soggettivazione e la sopravvivenza trionfante dell’oggetto traumatizzante.

Anche le relazioni e le discussioni dei panels pomeridiani saranno pubblicate integralmente (tranne l’ultima che non è ancora pervenuta)

Mi limiterò dunque ad accennare brevemente ai principali contenuti di queste:

-De Masi si è concentrato  principalmente sul deficit di sviluppo dell’inconscio emotivo-ricettivo di questi pazienti.

-Panizza ha sviluppato molto il concetto di reverie e l’utilità della capacità immaginativa dell’analista col paziente che non riesce a mentalizzare.

-La Scala ha parlato di patologia del confine più che al confine e ha ripreso, tra l’altro, il bel concetto d’Io pelle di Anzieu

-Boccara , Monari e Riefolo     hanno trattato soprattutto il tema del Sè border e delle vicissitudini della dissociazione (blocco dissociativo) di questi pazienti

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