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Report a cura di A. Iannitelli e R. Mariani “Incontri di Geografie della Psicoanalisi” 23 e 24 giugno 2017

25/08/17

Report su “Incontri di Geografie della Psicoanalisi”: Psicoanalisi e Processi Culturali, Soggetti dislocati trans-vitae. Roma, 23 e 24 giugno 2017

a cura di Angela Iannitelli e Rachele Mariani 

“Se la psicoanalisi fosse nata in India, mi domando se non avrebbe seguito il modello tradizionale del guru e del discepolo le cui interazioni avvengono all’aperto, all’ombra di un albero”

Sudhir Kakar, Roma, 2017 

Nell’ambito degli incontri di “Geografie della Psicoanalisi”, venerdì 23 e sabato 24 giugno 2017, il Centro Psicoanalitico di Roma e il Centro di Psicoanalisi Romano hanno organizzato due giornate di studio, la prima sul rapporto tra Psicoanalisi e Processi Culturali e, la seconda, sui Soggetti Dislocati – Trans- Vitae, tema che appare come il naturale divenire della ricerca che, su “Geografie”, Lorena Preta e il gruppo di psicoanalisti che con lei collabora, sta portando avanti.

La serata di studio su Psicoanalisi e Processi Culturali è stata introdotta dalle relazioni dei Segretari scientifici dei due Centri. Alfredo Lombardozzi, Segretario scientifico del Centro di Psicoanalisi Romano, ha aperto i lavori presentando l’ospite della serata, Sudhir Kakar, psicoanalista e scrittore, Presidente della Delhi Psychoanalytic Society. Ha ricordato come intorno agli anni Novanta, il suo interesse per i rapporti tra psicoanalisi e antropologia, lo hanno portato a incontrare il pensiero di Kakar, attraverso la lettura del libro “Sciamani, mistici e dottori”. In quel pensiero, ricorda Lombardozzi “trovai molte assonanze tra il pensiero di Kakar è quello di Di Martino sui rapporti tra antropologia e inconscio”. La passione per l’opera di Kakar, che Lombardozzi riconosce come uno dei suoi maestri, è nata dal focus che Kakar pone sui temi dei rapporti della psicoanalisi con le scienze sociali e la cultura, e nell’attualità di questi argomenti per un “approfondimento sui temi della globalizzazione e dei rapporti interculturali, che ci costringono in un faccia a faccia nel rapporto tra le alterità”. Lombardozzi ha ricordato l’interesse di Kakar per lo studio della psicoanalisi culturale. Ha ricordato come il corpo ricopra un ruolo centrale nella cultura indiana e come “i corpi si presentino come soggetti dislocati” e che quindi l’incontro con Kakar si collochi proprio nel percorso di “Geografie” verso questi ambiti di sviluppo e di evoluzione della ricerca. Nella cultura indiana infatti il corpo ha una relazione particolare con la psiche e con il mondo, molto diversa da quanto accade nella cultura occidentale. Conseguentemente, il vertice psicoanalitico nella cultura indiana, alla luce dell’elemento culturale, si declinerà in maniera differente.

Molti sono i temi che ritiene centrali nel pensiero di Kakar e che interrogano la psicoanalisi culturale:

  • la rilevanza del corpo nell’immediatezza della relazione;
  • -la dimensione gruppale molto più accentuata nella cultura tradizionale indiana rispetto alla dimensione occidentale e urbana che privilegia la soggettività e gli aspetti più razionali della dimensione umana;
  • -la dimensione mitico – rituale delle diverse religioni co-presenti in India, che si ritrova in alcune terapie di gruppo a sfondo religioso, con una ricerca sulla dimensione inconscia alla base di questi fenomeni;
  • la mitologia del pantheon che è correlata al mondo interno e ai processi di identificazione nella formazione dell’Io indiano e che si correla non solo con una mitologia astratta ma con una mitologia fortemente ritualizzata, elemento centrale e in relazione con il pensiero di antropologi come Vittorio Lanternari o Claudia Gallini, che hanno messo in evidenza come quello che interroga la psicoanalisi è la dimensione mitica inserita nei processi rituali e dunque in quelli inconsci;
  • la ricerca approfondita del rapporto tra inconscio e cultura. In alcuni studi l’inconscio è stato considerato come qualcosa che viene prima della cultura e quindi la cultura è una formazione secondaria rispetto ai fattori inconsci che sono primari o, viceversa, la cultura viene vista come un elemento fondante rispetto all’inconscio. Kakar propone invece una sorta di co-presenza di cultura e inconscio, una sorta di consustanziazione tra cultura e inconscio. Questo è un concetto che va oltre il dualismo. Da qui si può partire anche per lavorare sui paradigmi psicoanalitici che possono essere presenti in altre culture e studiare il loro variare a seconda delle differenti culture;
  • la dimensione di libertà rispetto ai diversi modelli strutturanti della psicoanalisi (si pensi ad Erik Erikson, con cui Kakar ha collaborato per anni, e alle sue riflessioni sui rapporti tra psicologia dell’Io e dimensione culturale).

Sudhir Kakar ha introdotto la sua relazione ricordando lo scambio epistolare tra Romain Rolland e Sigmund Freud. Rolland inviò a Freud un libro sulla mistica indiana e Freud rispose che era contento di essere guidato da Rolland nella giungla indiana da cui era stato tenuto lontano dalla sobrietà della sua tradizione. Il libro, che è stato tradotto in italiano, dice Kakar “racconta qualcosa della giungla ma forse è la giungla che risponde”. Kakar ha ricordato come la cultura di ciascun individuo sia un sistema dinamico che, se da una parte ci “informa” delle nostre scelte quotidiane, guidandoci lungo il percorso della vita, dall’altra risente del contesto culturale più o meno allargato nel quale si è vissuti. Afferma: “la vita mentale di una persona è il prodotto finale di una interazione complessa tra la sua cultura, il suo ambiente familiare, i suoi bisogni e le sue fantasie basate sui desideri”. Ha affermato come cultura e psiche si co-creino a livello inconscio e che questo dato è confermato da evidenze neurobiologiche; per esempio l’ambiente è in grado di modulare la percezione visiva degli oggetti: l’illusione ottica di Muller-Lyer è valida per bambini cresciuti in ambienti in cui sono presenti edifici di cui viene percepita l’immagine rettangolare mentre lo è molto meno per bambini cresciuti in capanne il cui cervello viene “plasmato” su linee curve. Gli elementi culturali fondamentali costituiscono l’ambiente nel quale il percorso psicoanalitico si svolge e spesso non sono analizzati ma dati per scontati e la diede analitica al lavoro si muove in uno spazio in tensione tra l’amore di transfert e il processo di inculturazione, “eliminando parti del sé dal campo analitico della comprensione”.

Che la cultura sia fondamentale nel modellare la psiche e che questo comporti delle questioni sia nella teoria che nella pratica psicoanalitica è espresso dal tema della connessione nella cultura indu’-indiana: “il corpo è strettamente connesso alla natura e al cosmo e non c’è nulla nella natura che non sia rilevante per la medicina”. Non c’è nella cultura indiana una separazione tra soma e psiche: è la stessa materia che in una forma più tenue dà vita alla mente, mentre in una forma più grezza dà vita al corpo. È’ evidente che la differente immagine del corpo nel mondo occidentale spingerà ad una ricerca dentro la “fortezza del corpo”, eliminando completamente l’ambiente. E’ ancora la cultura che opera nella differenziazione sessuale, così marcata nella cultura occidentale- si pensi agli dei maschi dell’antica Grecia- così poco invece nella cultura induista, dove i corpi maschili sono più morbidi e flessuosi, dove c’è un continuum di infinite culture di differenziazione sessuale che mantengono l’eterosessualità e la possibilità di empatizzare. Ma c’è un’altra importante differenza culturale che assume un più ampio significato epistemologico e che riguarda l’oggetto cervello. Mentre per le neuroscienze occidentali il cervello costituisce la struttura da cui origina la coscienza, nella cultura indiana, il cervello costituisce un filtro attraverso il quale la “coscienza che tutto pervade passa per diventare la coscienza personale”.

 

E’ seguita la relazione di Lucia Monterosa, Segretario scientifico del Centro Psicoanalitico di Roma, che partendo dal libro di Kakar “Cultura e Psiche”, si è soffermata sulle ragioni che hanno sostenuto l’interesse di Sudhir Kakar per la psicologia culturale, un campo da lui coltivato non come un esercizio intellettuale astratto ma utilizzato come supporto fondamentale ad un problema di importanza vitale e personale, connesso alla sua decisione di intraprendere una formazione analitica lontano dalla sua terra: in Europa, a Francoforte. Egli ritiene che la psicologia culturale sia un territorio di ricerca fertile nel fornire nuovi contributi alla psicoanalisi contemporanea, per ampliarne la visione teorica nata all’interno di un’esperienza culturale occidentale moderna. La relatrice ha sottolineato anche come l’Autore ponga in evidenza alcune sostanziali differenze tra la cultura indiana e quella occidentale, differenze che determinano sviluppi diversi nel processo di cura e mettono anche in tensione alcuni principi teorici della psicoanalisi tradizionale. Tra queste, una riguarda l’importanza data ai legami familiari. Le famiglie dei pazienti indiani, anche di quelli altamente scolarizzati e urbanizzati, sono spesso sconcertate nell’apprendere che uno degli obiettivi della psicoanalisi sia quello di accrescere la gamma di scelte dell’individuo e non l’integrazione con la famiglia. Inoltre, molti pazienti concepiscono i loro problemi emotivi non come generati nella loro psiche ma come prodotti di un Karma in una vita precedente.

Un’altra differenza fondamentale, ha sottolineato, riguarda il tema del corpo: nella visione indiana non c’è separazione tra il corpo, inteso come forma «grezza» della materia, e la mente, che viene concepita come forma «sottile» della stessa materia. Il corpo, nella cultura indiana induista, è pensato in profonda connessione con il cosmo ed in continuo cambiamento. La comunità comprende gli spiriti e gli dei. L’ordine dell’essere è inserito in una dinamica allargata a più livelli. Anche l’organizzatore edipico non ha riscontri nella cultura indiana, nella quale è dominante la forza della madre nel mondo interiore del bambino. La forma del materno – femminino sembra essere più centrale nella psiche dei pazienti indiani, rispetto a quelli che hanno vissuto nella cultura occidentale.

La relatrice ha concluso il suo intervento facendo un accostamento tra il pensiero di Sudhir Kakar e quello di Franco Fornari. L’analista indiano si chiede se la psicoanalisi possa essere una «disciplina spirituale», intendendo con ciò la possibilità di ampliare il linguaggio freudiano delle pulsioni ad una dimensione del «Sacro» dove la persona, come sistema di soma, psiche e polis, sia anche il luogo di un principio di unità che si manifesta nella propensione umana per l’altruismo, la compassione, la simpatia. Anche Franco Fornari si muoveva su questo terreno concependo la psicoanalisi come una scienza destinata a conoscere non solo la struttura della personalità degli individui, ma anche a spaziare su ogni attività umana e a dare il suo contributo a livello sociale e politico. Egli asseriva che per la psicoanalisi ogni conoscenza avesse una fondazione affettiva ed usava il concetto di «anima» nel significato di una competenza naturale, relativamente in-variante, comune ad ogni uomo e a ogni donna. Il suo sguardo, come quello di Sudhir Kakar, tende a ricostruire la speranza di un sostegno tra natura e cultura e la sua visione della storia è quella di uno spazio in cui ogni uomo nasce con la spinta a vivere che lo trascende e, nel contempo, racchiude il precipitato dell’esperienza della civiltà.

E’ seguito un dibattito appassionato e articolato. Lombardozzi ha ricordato Kakar come un “induista laico” e come è proprio da questa visione del mondo che può svilupparsi l’idea dell’illusione come momento creativo della religione, contro una visione semplicistica del mondo indiano, costruita sia da Freud che da Jung. Ha ricordato come la posizione di “inconscio culturale” di Kakar sia nettamente distinta da quella di Nathan Tobie che, nel suo lavoro con i migranti, è a favore di una preminenza del culturale sui tratti inconsci, cercando un nucleo identitario che si è trasformato. Ugualmente distinta è dalla posizione di Fethi Beslama che, lavorando sull’interpretazione del Corano, ritiene l’inconscio fondativo della struttura culturale. Il dibattito si è allargato alla riflessione sulla psicoanalisi come disciplina spirituale. Kakar ha ricordato come tolleranza, compassione ed empatia siano qualità da raggiungere nel percorso psicoanalitico e che debbano essere qualità possedute dall’analista, le prime qualità, attraverso le quali, raggiungere l’intimità, intesa come componente spirituale della coppia. Ha ricordato che, sebbene il Buddismo e la Psicoanalisi siano molto vicine, sono inconciliabili visto che per il primo la parola è di troppo mentre per la psicoanalisi il linguaggio è fondamentale.  Ricorda come nella cultura indiana, la psicoanalisi faccia riferimento oltre che agli ordini del soma, della psiche e della relazione, all’ordine della coscienza cosmica cui solo alcuni possono accedere. Chiude la serata Lucia Monterosa, consigliando la lettura dei libri di Kakar, tradotti in italiano, come via di accesso alla cultura indiana.

Nell’evento di “Geografie” del sabato mattina, dal titolo Soggetti dislocati – trans vitae, Lorena Preta ha introdotto le ospiti della mattinata: Gohar Homayuounpour, psicoanalista iraniana, scrittrice, formatasi negli Stati Uniti, e Jeanne Wolff Bernstein, psicoanalista, docente presso lo Psychoanalytic Institute of Norther California. Preta ha inserito l’evento “il soggetto dislocato” nel più ampio percorso svolto dal gruppo di studio “Geografie della Psicoanalisi”. “Ieri sera – ha detto –  abbiamo sentito Sudhir Kakar, un pilastro fondamentale per l’analisi portata avanti da Geografie, mettere in luce chiaramente come la cultura non sia un sostrato successivo nella formazione della psiche ma come essa sia presente fin dall’inizio della vita. La cultura e la psiche si co-creano reciprocamente e non esiste inconscio che, in questo senso, non sia culturale”.

 

 

Lorena Preta ha proseguito sostenendo che Geografie si è data come obiettivo proprio quello di approfondire il senso di questa consapevolezza e di comprendere attraverso le inedite forme di comunicazione e di organizzazione sociale che caratterizzano il tempo attuale, come possiamo trovarci a definire un “nuovo soggetto”, un soggetto dislocato, in altre parole un ibrido come il frutto della combinazione di culture diverse.

La soggettività, dunque, sembra essere dislocata sempre altrove, in un luogo fisico esteso che ormai comprende il dentro e il fuori senza soluzione di continuità. Attore principale di questa scena è il corpo, come si trasforma in questa dinamica la sua rappresentazione e proprio su questo aspetto si incentra la relazione di Gohar Homayuounpour, la quale entra nel merito di una sua visione e analisi delle esperienze transessuali nel suo paese, l’Iran. G. Homayuounpour approfondisce lo spaccato culturale e politico relativo alla gestione di questa problematica ed esplora la questione del transgenderismo dal punto di vista della psicoanalisi contemporanea.

Secondo l’Autrice, l’interpretazione della transessualità ha sofferto di un approccio binario: da una parte, gli psicoanalisti che basano il loro lavoro su una lettura riduzionista, che hanno seguito un percorso eteronormativo, dal piglio patologizzante e moralizzante, dall’altra parte una corrente psicoanalitica più recente che tratta il transgenderismo con una piega umanitaria che rischia di essere superficiale e “politicamente corretta”, la quale, più che spingere ad una maggiore comprensione e alla analisi di ciò che avviene nel soggetto, tende al conformismo e al buonismo. Secondo G. Homayuounpour entrambe le posizioni allontanano dall’ascolto e dalla comprensione che è alla base di una vera trattazione psicoanalitica, che consenta una profonda analisi delle differenze e che sia realmente innovativa. “A volte ho l’impressione – dice G. Homayuounpour – che sostenendo questo discorso psicoanalitico giovane, alla moda e politicamente corretto sui transgenderismi, stiamo soltanto applicando una nuova variazione su un tema vecchio, limitato ed eteronormativo di semplificazione; stiamo catalogando diversi transgenderismi sotto la stessa etichetta. Ne dà un chiaro esempio la prescrizione della Sharia Iraniana secondo cui per stare con degli uomini si deve diventare donne, così da non risultare indigesti in una società che ha una visione limitante di genere e sessualità. Così gli analisti possono evitare di affrontare le proprie ansie sulla fluidità di genere degli esseri umani. Ma questo discorso politicamente corretto ci costringe a un’esistenza banale e tarpa le ali al divenire, che è costantemente in movimento, in cambiamento”. L’Autrice, nelle sue conclusioni, propone di fornire alle persone uno spazio di riflessione e pensiero prima di intraprendere un cambiamento drastico che impatta sul corpo e nel corpo. Come per ogni decisione importante, essa deve esser vagliata in sede di analisi, si dovrebbero dedicare tempo e spazio alla persona, tentando di far emergere fantasie, simbolizzazioni e sogni, libertà, trasformazioni e sublimazioni, al di là della scelta concreta del proprio genere basata sul proprio organo sessuale. La Homayuounpour, inoltre, si chiede come mai nel caso specifico dei transgenderismi, molte domande ancora attendono una risposta: perché una simile crescita nel numero di operazioni? Perché in alcuni paesi c’è un tasso così altro di suicidi post-operazione? Perché classifichiamo transessuali e transgender sotto la stessa etichetta? L’autrice, quindi, propone di “sollevare il tetto”, e rivoluzionare il punto di vista, come ci invitò a fare il poeta Iraniano Hafez nel quattordicesimo secolo.

 

 

Numerosi sono stati gli interventi che hanno stimolato rilevanti questioni e problematiche inerenti questo tema, A. Baldassarro ha rilanciato il tema del “politically correct” e quanto questo aspetto sia centrale nella costellazione culturale differente per ogni paese sul tema omosessualità e sulla bisessualità fondante in ogni essere umano. Quanto sia rilevante il tema della differenziazione nella psicoanalisi contemporanea e come in alcune culture l’intervento della legge possa creare un elemento paradossale, generando una ulteriore confusione come in “Venere in pelliccia” di Polansky. Un successivo approfondimento ha rilevato la diversa gestione politica e culturale nei differenti paesi in merito al cambio di genere sessuale, sottolineando come in Germania si sia introdotta una norma secondo cui si può cambiare identità di genere a prescindere dall’intervento chirurgico o del sesso genetico del soggetto. Questo aspetto può consentire una riflessione sulla questione della nostalgia per il corpo originario pre-operazione e il rispetto in questo modo dell’ambiguità di cui ogni soggetto ha necessità.

E’ seguito l’intervento di Jeanne Wolff Bernstein, che ha presentato un interessante lavoro sulla questione dei trapianti e dei nuovi interventi di biotecnologia che evidenziano nuove problematiche e nuove esperienza del corpo frammentato. Tale tema, insieme alle maternità surrogate, solleva importanti processi psichici coinvolti nell’elaborazione di queste esperienze, soprattutto mettendo in evidenza il lavoro psichico sottostante la possibilità di accettare l’alterità dentro di sé e il suo collegamento al lutto e alla pulsione di morte. “Tutti questi esempi di nuove tecnologie – afferma J. Wolff Bernstein – permettono di sostituire un organo o di rimediare all’infertilità e coinvolgono procedure nate per combattere sofferenze e perdite degli esseri umani. Oggi, grazie al trapianto d’organi, possiamo salvare milioni di vite che cinquant’anni fa avremmo semplicemente perso. Quello che sembrava soltanto un sogno (asportare un organo da un corpo e impiantarlo in un altro per salvarlo o prolungarne la vita) è diventato una realtà tangibile e persino remunerativa. È mia opinione tuttavia che la moderna pratica del trapianto abbia concretizzato il concetto di incorporazione di Abraham e Freud”.

Secondo l’Autrice, la difficoltà elaborativa nel vivere e superare il lutto che la malattia d’organo imporrebbe grazie alle biotecnologie, sembra far appartenere tale processo sempre di più al passato. Questo perché la tecnologia ha sempre puntato a colmare rapidamente i vuoti lasciati dal dolore e dalla perdita. Messi di fronte a malattie potenzialmente letali, alla prospettiva di una relazione senza figli, le nuove tecnologie mediche consentono di rimediare e trovare soluzioni a queste “perdite”. Nonostante ciò, quando questi vuoti vengono trasformati in profitto e la legge si fa da parte, lasciando che sia il mercato a dettare regole su scala globale, l’aspetto anale, avido e spregiudicato di questo amorevole “donare” si mostra col suo volto più orrendo, sadico e disonesto. In questo scenario la Bernstein sollecita la psicoanalisi e il pensiero psicoanalitico a rimanere al passo, di sforzarsi di dare un senso a questi fenomeni in un mondo di organi trapiantati, uteri in affitto e ovuli e sperma fertili disseminati ovunque. La psicoanalisi deve cercare di ri-localizzare i soggetti umani in nuove costellazioni, ricordando loro l’esistenza del tempo, e che le nuove tecnologie del e per il corpo portano speranza ed entusiasmo, ma anche un terribile presagio di tragedia.

Numerosi interventi hanno arricchito le relazioni e ampliato il pensiero su questi temi così attuali ed interessanti.  La chiusura dei lavori da parte delle relatrici ha sollevato ulteriori inviti ad approfondire il confronto sul tema dell’ambiguità dei soggetti nella contemporaneità.

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