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Report del 24° congresso FEP, Copenaghen 14-17 aprile 2011.

6/09/11

Angoscia e metodo in psicoanalisi

a cura di Gabriella Giustino

Nell’introduzione al Congresso della Fep  Peter Wegner ha ribadito che la scoperta, la formulazione e la trasformazione delle angosce inconsce, costituisce il  principale obiettivo d’ogni seduta d’analisi. L’autore ha ricordato che le angosce controtransferali  rischiano di essere proiettate nei nostri pazienti se non si fa ricorso alla  competenza  specifica di distinguere  le “proprie” angosce personali da quelle che sono state proiettate in noi.  Wegner ha concluso dicendo che, se è vero che  l’angoscia ci accompagna in ogni trattamento analitico, dobbiamo ammettere che ci accade attualmente di confrontarci sempre più anche con la preoccupazione riguardo al futuro della psicoanalisi. Alcuni approfondimenti, non a caso, sono stati dedicati  all'”outreach” della nostra disciplina ed alle ansie che questo aspetto può generare in noi. Nel complesso i lavori del Congresso hanno ri-delineato il percorso  della concettualizzazione dell’angoscia nel pensiero psicoanalitico e dedicato notevole attenzione e spazio al tema della ricerca. Da un punto di vista teorico-clinico sono stati approfonditi soprattutto  quegli aspetti dell’angoscia che determinano serie difficoltà nella relazione transfert-controtransfert.

 Mi scuso sin da ora  se in questo breve report  non potrò accennare  a numerosi e validi  lavori che sono stati discussi. Per non dilungarmi troppo, ho dovuto selezionarne solo alcuni.  Giuseppe Scariati ha aperto il panel di venerdì mattina con una relazione che ha posto l’accento  soprattutto sull’angoscia che alcuni pazienti generano nell’analista quando elicitano in lui vissuti  arcaici (attraverso la proiezione inconscia di propri aspetti precoci e non elaborati). In questi casi, si è chiesto Scariati, stiamo parlando solo del controtransfert dell’analista (in senso più ristretto o piu esteso  secondo le diverse concettualizzazioni) oppure  anche del transfert dell’analista verso quel determinato paziente? L’ansia dell’analista in questi casi, per l’autore,  deve essere elaborata silenziosamente mediante l’autoanalisi. E’ un lavoro sulla propria esperienza interna (che a volte passa attraverso vissuti corporei) e  che talora permette all’analista di entrare in contatto con aree primitive  e  dissociate della mente del suo paziente. Anche Bjorn Salomonsson  si è occupato, tra l’altro, delle ansie controtransferali dell’analista soprattutto riguardo a quei casi clinici destinati ad essere presentati ad altri colleghi in occasione di Congressi o Seminari.

Marta Badoni ha presentato un lavoro in cui ha  introdotto il concetto-strumento clinico dell'”accompagnamento”. Si tratta di una funzione analitica che si affianca a quella dell’holding e della rêverie e che consente di contenere l’angoscia accompagnando il paziente in un percorso di sviluppo che promuove la soggettività. Insomma, per l’autrice,  “accompagnare è essere assieme riconoscendo la separatezza”. Il forum sull’adolescenza  si è svolto nelle giornate di giovedì e venerdì. Tra i bei  lavori presentati ho trovato molto originale il caso clinico illustrato da Jones De Luca e moderato da Irene Ruggiero. In questa esemplificazione clinica  il lavoro dell’analista con un adolescente “difficile” e concreto nelle comunicazioni, si pone come aiuto a metaforizzare e  dare senso agli agiti del paziente ed al  suo rifugiarsi “quasi autistico” in un mondo anemotivo e meccanico. L’analista pone i presupposti per  comprendere, contenere e mentalizzare le angosce di cui è inconsciamente portatore risalendo alla  sua storia familiare e alla sua predestinazione di ” giustiziere”  (il “mandato transgenerazionale inconscio”, direbbe René Kaës).

 Il panel moderato da Eglé Laufer su angoscia e adolescenza, comprendeva due interventi principali: il lavoro  di Catalina Bronstein e la discussione di Ronny Jaffé. Nella sua relazione la Bronstein ha  evidenziato , con due casi clinici molto ben descritti,  lo stato permanente di angoscia, la tendenza all’enactment o il ricorso a difese maniacali  di alcuni pazienti  adolescenti. Ronny Jaffé,  riprendendo uno dei  casi della collega inglese, ha discusso la relazione con integrazioni cliniche puntuali ed ha  sottolineato ulteriormente la  centralità del corpo in trasformazione dell’adolescente (spesso sottovalutata o ignorata dagli adulti che per lui sono significativi). E’ stato particolarmente interessante il riferimento di Jaffé alla teorizzazione mente-corpo di Eugenio Gaddini.

Ho trovato nel complesso questo panel molto stimolante anche a proposito di tematiche cliniche  e riflessioni che sono emerse durante la discussione. Come noto Eglé Laufer ha scritto molto sulle  trasformazioni del corpo dell’adolescente che sviluppa progressivamente funzioni e performances somatiche. Queste abilità corporee (ad esempio la capacità di procreare),  spesso non trovano un corrispondente sviluppo delle competenze mentali ed emotive. Il desiderio di gravidanza, ad  esempio, può rispondere  a fantasie regressive di  simbiosi o a bisogni di gratificazione narcisistica anziché configurarsi come vero e proprio desiderio di maternità. Questo fatto comporta serie  conseguenze psicopatologiche che si evidenziano dopo la nascita-separazione del figlio dal corpo adolescente.

Franco D’Alberton ha letto un lavoro sulle difficoltà dello “psicologo” che opera in una clinica pediatrica, evidenziando quanto sia complesso per lo psicoanalista  “giocare fuori casa”. In effetti l’autore  ha sottolineato come, in generale, sia un compito difficile per l’analista quello di esaminare ed assimilare nuove e necessarie modificazioni tecnico- cliniche senza perdere il senso della propria identità analitica. Nino Ferro ha  dedicato il suo intervento di sabato mattina alla ricerca che ogni analista può svolgere in un laboratorio privilegiato come la stanza d’analisi,  dove è possibile osservare moltissimi fenomeni della relazione analitica seguendo il concetto bioniano di “scienza delle emozioni”. Ronny Jaffè, invece,  ha discusso sul fatto che le teorie o i modelli di riferimento dell’analista non sono sempre  da considerare ostacoli intellettualizzati che impediscono  un ascolto aperto dell’inconscio del paziente.  Talora, secondo l’autore,  i modelli impliciti possono “sgorgare” direttamente dal profondo della mente dell’analista in quanto strumenti assimilati e spontanei.  Nell’ambito degli approfondimenti sull'”outreach” della nostra disciplina, Serge Frisch e Paola Marion si sono soffermati  sulle problematiche di “visibilità” sociale dell’analista e si sono interrogati sul problema di trovare un modo di comunicare all’esterno il nostro saper fare. Si tratta di provare ad esprimersi con un linguaggio abbastanza comprensibile ma non banale, che non sacrifichi la complessità e che ci restituisca serietà.

 Franco Borgogno ha moderato, tra l’altro,  un panel sulle ansie che può avere lo psicoanalista che opera nell’Università e che cerca con difficoltà di rendere visibile e credibile  il metodo psicoanalitico. L’autore ha fatto il punto su cosa è stato fatto ed è possibile fare in questo senso ed ha analizzato una ricerca empirica recente di Samuel Elrich su questo tema. Angelo Battistini,  in una sessione individuale (che io stessa ho moderato), ha discusso di quelle manifestazioni transferali occulte che la struttura caratteriale del paziente talora non permette di esprimere. L’analista in questi casi può essere fuorviato e dare ascolto al materiale verbale distogliendosi dalla comunicazione più profonda. Per  aiutare il paziente ad avere il coraggio di svelare l’uso occulto dell’oggetto- analista, l’autore ha proposto uno stile interpretativo insaturo e non oracolare.

 

Marc  Hebbrecht della Società Belga  (che presentava un lavoro individuale nella stessa sessione)  ha letto invece una relazione sul sogno del paziente considerato come supervisore interno, una sorta di Io osservante dell’analista che lo aiuta a rimettersi in contatto con l’inconscio dell’analizzato. Cosimo Schinaia era “l’autore da incontrare”. Un riconoscimento al suo lungo e pionieristico lavoro sulla  pedofilia con la presentazione della recente traduzione in inglese del suo libro sull’argomento. Molti  panels sono stati dedicati alla ricerca ed alle riflessioni provenienti dai gruppi che,  come ormai di consueto,  precedono il Congresso vero e proprio. Da segnalare anche una ricerca empirica sulla sintonizzazione emotiva di coppia  a cura di Anna Nicolò, Luigi Solano ed altri Autori. Infine il film “The good life” moderato, come ogni anno, da Andrea Sabbadini.

La visione del film (che è un documentario) ci ha regalato una storia reale e scioccante di un rapporto sado-masochistico tra una madre e una figlia. E’ sorprendente come Eva Mulvad la giovane regista danese (che era presente in sala) abbia saputo, con tatto  e sottile intuizione,  avvicinare questa coppia che era una vera e propria “bomba relazionale”. L’angoscia s’impossessava dello spettatore che, nella trama malinconica di questo rapporto madre-figlia, doveva faticosamente essere in contatto continuo con l’ambivalenza. La storia familiare illustrava chiaramente,  in aprés coup,  l’origine dell’angoscia delle due protagoniste. Nell’insieme, dunque,  un Congresso ricco di spunti teorico- clinici ma anche, orientato alla ricerca e alla comunicazione all’esterno della nostra disciplina. Numerose le presenze di colleghi italiani, un fatto che evidenzia la vitalità della nostra Società che progressivamente si confronta sempre più anche a livello internazionale.

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