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Intervista a Filippo Maria Ferro

28/04/16

Ferro foto congressoA cura di Luisa Masina

Introduzione

Filippo Maria Ferro ha insegnato Psichiatria all’Università di Chieti. Novarese, alunno a Pavia dell’Almo Collegio Borromeo, laureato in Medicina e Chirurgia, è specialista in Neurologia e Psichiatria. Ha ricoperto varie cariche accademiche e istituzionali ed è stato fra i fondatori della Società Italiana Psicoanalisi di Gruppo. Dagli anni di gioventù si è occupato di arte piemontese e lombarda, avendo quali referenti Marco Rosci e Giovanni Testori e ancora, nell’orbita di Roberto Longhi, Mina Gregori e Carlo Volpe. Ha pubblicato saggi nelle più importanti riviste di storia dell’arte, in particolare su “Paragone” dal 1966, stilato schede per dizionari e cataloghi e collaborato ad alcune esposizioni al Palazzo Reale di Milano. Tra gli scritti: Nuvolone / una famiglia di pittori nella Milano del ‘600,2003; L’anima dipinta. Scritti d’arte lombarda e piemontese da Gaudenzio Ferrari a Ranzoni, 2010; Giuseppe Antonio Pianca pittore valsesiano del ‘700, 2013.

Intervista

Domanda:  Passione per l’arte, per la psicoanalisi e per la psicopatologia: quali sono i percorsi e le intersezioni fra questi suoi campi d’interesse?

Risposta: Le intersezioni sono state, per quanto mi riguarda, costitutive dall’inizio e si sono mosse lungo linee di evoluzione parallele con scambi continui. Il mio primo interesse nell’area dell’arte è stato per alcune stagioni e autori della pittura lombarda (il mio mondo), poi all’università, a Lettere, ho frequentato filologi di grande fascino (Enrica Malcovati, Cesare Segre, Maria Corti). A suggellare le mie predilezioni d’arte fu l’incontro con Roberto Longhi nel 1965 e poi con vari suoi allievi (Giovanni Testori, Carlo Volpe, Giovanni Previtali). Intanto mi ero laureato in Medicina, ma l’obbiettivo era la psicopatologia alla quale mi istruiva G.E. Morselli. Clinica, psicopatologia, storia dell’arte (come filologo) sono state per me passioni irrinunciabili e fra loro comunicanti, già dagli anni di formazione.

Domanda:  A che punto della sua formazione è nato il suo interesse per la psicoanalisi?

Risposta: Avevo letto con vivo interesse le opere di Freud al Liceo, e poi a Novara l’interesse per la psicoanalisi era vivo, presso la clinica pediatrica di Piero Fornara tenevano seminari, invitati da Marcella Balconi, Martha Harris e Donald Meltzer. A Roma ho seguito il training analitico con Piero Bellanova. Da allora la riflessione psicoanalitica ha costantemente improntato la mia pratica clinica e mi ha spinto a rileggere in una nuova luce il sapere psicopatologico, in primis quello relativo alle psicosi.

Domanda: Quale dei grandi temi del pensiero psicoanalitico ha avvertito più affine al suo sentire e ai suoi studi?

Risposta: L’incontro determinante è stato con Eugenio e Renata Gaddini. L’attenzione ai “processi mentali precoci” ha orientato sia il mio interesse per la psicopatologia delle psicosi sia la mia inclinazione a studiare la genesi e il nucleo dei processi creativi. Ovviamente gli studi sono stati sempre divisi, lo richiedono i problemi di metodo. Due sole eccezioni. Ho pubblicato (e proprio in memoria di Eugenio Gaddini) un taccuino del pittore scapigliato Daniele Ranzoni composto durante una crisi psicotica. Ed ho studiato i disegni di Fortunato Duranti, pittore neoclassico, uniche testimonianze della sua chiusura paranoidea.

Domanda: C’è una corrente artistica o un artista in particolare che ha maggiormente influenzato i suoi studi e i suoi approfondimenti in ambito psicopatologico?

Risposta: Ovviamente l’emozione estetica orienta e domina l’attenzione per i fatti dell’arte. Amo Caravaggio e i caravaggeschi, gli artisti del barocco, Géricault e Delacroix, moderni quali Francis Bacon e Mark Rothko. Ma la questione delle “estetiche” non mi assorbe. A prendermi è l’incontro fisico sensoriale con il prodotto d’arte, l’impatto emozionale intenso che ne scaturisce. In verità ciò che mi attrae in modo cogente è il “riconoscere” un autore, meglio se poco noto o addirittura “senza nome”, identificare opere inedite, costruire la coerenza di un catalogo che si accresce gradualmente come un processo, una “costruzione” necessaria: disporre le fotografie su di un tavolo e vedere come si cercano (particolari che si chiamano, immagini che si susseguono e integrano a delineare un iter creativo), è la cosa essenziale. Lo studioso, di fronte a un insieme di fatti apparentemente slegati ed estranei fra loro, può essere attratto da una singola osservazione, alla quale tutti gli altri fatti appaiono collegati, cosicché egli può giungere a una ‘configurazione’ coerente attraverso quella osservazione, e introdurre d’improvviso l’ordine là dove regnava l’apparenza del disordine. Dice Wilfred Bion che “il ‘fatto scelto’ lega insieme elementi apparsi sino a quel momento completamente privi di collegamento fra loro” (W. Bion, Elements of Psycho-Analysis, 1963). E’ questo vibrare nel connoisseur di un’affinità elettiva che lo induce a raggruppare attorno a una determinata personalità immagini ritenute sino a quel momento eccellenti per qualità ma non sufficientemente rischiarate per emergere dall’anonimato.

Domanda: Quali stimoli e riflessioni ha suscitato in lei il tema del Congresso Nazionale della SPI di quest’anno: “Le logiche del piacere/l’ambiguità del dolore”?

Risposta: Credo fermamente, con Donald Meltzer, che la bellezza nasca da un “conflitto” e questo conflitto articoli in modo dialettico antinomie, logiche dissonanti ma poi non separabili, come sono quella del “piacere” e quella del “dolore”. In questa accezione il percorso che si apre in analisi, le “costruzioni” che si delineano nel rapporto, assomigliano in modo impressionante con quanto accade nel seguire un processo creativo lungo la sua incessante invenzione. Il dialogo non è con una voce ma con un’identità che si manifesta con altrettanta forza attraverso il segno, il tratto grafico, il colore, il tono. Per “riconoscere” bisogna basarsi sulla cultura (certamente!), su quanto Mina Gregori ha felicemente chiamato il “museo interno” ma più bisogna fare appello al “museo interiore”, alle emozioni che riusciamo a condividere con un artista. E’ un movimento “empatico”: più che all’esplorazione e alla collezione dei vissuti, si punta a registrare trasalimenti profondi, ineffabili e pur capaci di diventare familiari in una frequentazione appassionata. Così, nel mio intervento, mi soffermerò sui “disegni” e sugli “abbozzi”: prodotti non sempre preparatori bensì autonomi, ai cui gli artisti hanno affidato la loro autenticità creativa e che da sempre hanno costituito una vera “bussola” per chi ha interrogato i fatti dell’arte: raffinati collezionisti (il cavalier Marino, padre Sebastiano Resta, Giorgio Bonola, Pierre-Jean Mariette), connoisseurs(Giovan Battista Cavalcaselle), rabdomantici scopritori di nuovi valori estetici (William Ottley). Percorsi tra i più vari, clinici ed estetici, accomunati da un leitmotiv: accostare e leggere quanto si cela dietro le apparenze fenomeniche e restituisce la trama nascosta nelle “immagini” (Imagines Galleriae, come le chiamavano un tenpo; Imago, titolo emblematico della rivista psicoanalitica)

Aprile 2016

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