
Parole chiave: Distruttività, Anaffettività, Umanizzazione, Alterità,
Introduzione
Il convegno internazionale Thinking on the Border. (In)sanity and Destructiveness si è svolto a Trieste dal 27 al 29 giugno 2025, in una cornice cittadina particolarmente significativa. Trieste, città di confine e crocevia di culture, porta con sé una storia segnata da passaggi di potere, migrazioni e identità plurime: un luogo che incarna le tensioni e le possibilità del “confine” come ferita, ma anche come spazio di incontro.
Il convegno, organizzato dalla Società Psicoanalitica Italiana in sinergia con l’Associazione Italiana di Psicoanalisi, ha visto la partecipazione di altre undici società europee come ha ricordato Jasminka Šuljagić (Società Psicoanalitica Serba) all’apertura del convegno. Il Presidente della S.P.I. Ronny Jaffè ha presentato Trieste come “città di contrasti identitari ma anche di declinazioni incerte e talora confuse tra loro rendendola, nel corso degli anni enigmatica”. Una città al crocevia tra influenze geografiche diverse che ha dato i
natali a Edoardo Weiss, uno dei fondatori della psicoanalisi in Italia, e che ha visto intrecciarsi le voci di artisti, scienziati e letterati come Svevo e Saba. Il confine, qui, non è solo linea di divisione, ma striscia che unisce e mette in tensione identità e appartenenze, restituendo l’essenza stessa della ricerca psicoanalitica: interrogare l’indefinibile, senza ridurlo a formule semplificanti.
Il richiamo a Freud e al suo saggio Il poeta e la fantasia (1907) che ha proposto Jaffè ha aperto alla possibilità di accogliere la commozione e la tragedia della distruttività senza facili soluzioni dicotomiche. In questo senso, il pensiero psicoanalitico, come ha mostrato Weiss, e la poesia, come quella di Saba, diventano strumenti per dare voce all’inconscio e per elaborare l’esperienza traumatica della guerra, trasformando il dolore in parola e in immagine.
Tanti i contributi dei colleghi italiani, tra i quali ricordiamo: Chiara Buocristiani, Paolo Fonda, Ronny Jaffè (leggi QUI intervento completo), Alberto Luchetti, Luisa Masina, Fulvio Mazzacane, Patrizia Montagner, Roberto Mudella, Simona Nissim, Laura Ravaioli, Tommaso Romani, Nicolino Rossi e Sarantis Thanopoulos.
Temi di Interesse
Al cuore del convegno si è sviluppata una riflessione intensa sul tema della banalità del male, declinata in modi differenti da Sarantis Thanopulos e da Jan Abram.
Thanopulos ha descritto il male contemporaneo come un agire anaffettivo, privo di emozioni e di pensiero, che si manifesta nella forma di un’automatizzazione impersonale. Non è l’odio esplicito a dominare, ma l’indifferenza: una desertificazione del desiderio che impoverisce la vita psichica e neutralizza la capacità di sentire. Questo fenomeno, che rimanda alla “psicosi bianca”, trova oggi alimento nell’alienazione diffusa, nell’eccesso di digitalizzazione e nellatendenza a ridurre il dolore a semplice malattia da normalizzare. Siamo di fronte alla “banalità del male”. In questa prospettiva, la banalità del male non coincide con una scelta ideologica, bensì con il progressivo spegnersi dell’affettività e con la perdita della funzione trasformativa del desiderio. Ci troviamo nel campo “di una materia disumanizzata, insana, di un tessuto tumorale che sostituisce il tessuto sano.”
Di segno diverso la posizione di Jan Abram, che pur riconoscendo la forza dell’analisi di Thanopulos, ha messo in discussione l’uso stesso del concetto arendtiano. Per Abram, infatti, parlare di “banalità” rischia di oscurare la complessità psichica del male. Nessun atto criminale, sostiene, può dirsi davvero “banale”: ogni gesto distruttivo affonda le radici nei traumi precoci, nelle carenze ambientali, più precisamente nei fallimenti della sopravvivenza dell’oggetto interno. Eichmann stesso – ricordato da Arendt come burocrate superficiale – appare piuttosto, alla luce di una lettura psicoanalitica, un soggetto gravemente danneggiato, incapace di provare empatia e costretto a proiettare la propria distruttività su un Altro designato.
Il confronto, intenso e profondo, tra queste due prospettive ha mostrato quanto il concetto di banalità del male resti oggi un terreno fertile di interrogazione. Da un lato, la sua forza evocativa nel descrivere la diffusione impersonale dell’anaffettività nelle società contemporanee; dall’altro, il rischio di ridurre la complessità intrapsichica del crimine e della distruttività a una mera questione di superficialità o assenza di pensiero. Proprio in questa tensione tra desertificazione affettiva e radici psichiche profonde si è giocata la parte più viva del dibattito triestino, restituendo alla psicoanalisi il compito di pensare il male non solo come categoria storica e politica, ma come esperienza radicalmente umana, intrisa di desiderio, traumi e possibilità di trasformazione.
Interessante anche il lavoro di Ozenen Ferhan (Società Psicoanalitica di Istanbul) commentato e arricchito dalleriflessioni di Chatziandreou (Società Ellenica di Psicoanalisi). Attraverso la musica, il racconto di alcune vignette cliniche e una rilettura originale del lavoro di Freud sul disturbo di memoria sull’acropoli si è reso vivido l’arduo lavoro che lo psicoanalista è chiamato a svolgere al confine tra la propria stanza di analisi e le tensioni sociali che si fanno sempre più urgenti e pressanti. Un lavoro quello dell’analista in precario equilibrio tra questo “troppo” della realtà, il troppo dell’altro, che è necessario ospitare dentro di noi, alla ricerca di un possibile “dialogo” con quanto di più informe e per questo spaventoso.
Ed è proprio in questa ottica che nella mattina della domenica è stato ricordato anche quanto Trieste sia stata il luogoche ha visto nascere la riforma Basagliana. Emozionante a tale riguardo
l’intervento di Paolo Fonda che ha permesso all’auditorio di avvicinare le vicende della riforma Basagliana attraverso la sua esperienza diretta. Riumanizzare la sofferenza e ricollocare il malato al centro della collettività, lavorando contro le “incrostazioni” del pregiudizio. Paolo Fonda ha ricordato come spesso il fragile Sè del malato sia costretto, a causa della sua impotenza, a soccombere alle proiezioni della collettività, esito queste di violenti meccanismi schizzo-paranoidei. La riforma basagliana allora è sembrata muovere dal tentativo di permettere all’intera collettività di riguadagnare una “posizione depressiva”, un processo al quale ha partecipato la città tutta.
Conclusioni
L’evento triestino che si è caratterizzato come una rielaborazione e ripresa dei temi sollevati a Dresda nello scorso convegno della Fep si è dunque inscritto in questo solco: esplorare i confini tra sanità e follia, tra distruttività e trasformazione, alla luce di una città che incarna nella sua stessa storia l’ambivalenza del confine come limite e possibilità.