La Cura

La perversione. L. Micati

4/10/21
KARA WALKER, 1999-2000

KARA WALKER, 1999-2000

È improbabile che arrivi nei nostri studi una persona la cui perversione è riuscita a svolgere il compito di tenere lontana l’angoscia.

Le persone che vediamo vengono perché l’organizzazione perversa è parzialmente fallita e l’angoscia è intensa, a volte intollerabile.

Una perversione perfettamente riuscita può  accompagnarsi a un senso di superiorità, come se si disponesse di uno statuto speciale che dà diritto a tutto e di una sessualità senza limiti, più ricca o più sofisticata di quella cui sono confinati i comuni mortali.

La nostra esperienza clinica di solito si limita a perversioni che presentano falle.

    Mi sembra utile fare una distinzione iniziale tra organizzazione perversa e tratti perversi. L’organizzazione perversa della personalità, a sua volta, può manifestarsi in comportamenti  fenomenologicamente identificabili o essere silenziosa.

    I tratti perversi sono probabilmente i residui, accolti nella sessualità adulta, delle fantasie masturbatorie infantili conscie e inconscie.       In essi sono spesso presenti contenuti sado-masochistici nei quali impulsi   aggressivi  e  istanze  protettive nei confronti del sè e dell’oggetto  sono variamente  combinati.

    Mentre nella formazione dei tratti perversi si fondono  aggressività e libido, nelle organizzazioni perverse vere e proprie è presente una rabbia distruttiva avvertita come molto minacciosa; la difesa in questi casi è in una erotizzazione che tenta, direi disperatamente, di controllare la rabbia e ne rimane fortemente intrisa.

Se cerchiamo di individuare gli elementi della vera e propria personalità perversa maschile e femminile, troviamo alcune  caratteristiche  che sono  comuni  anche ad altre organizzazioni patologiche, ma, in questi casi, si configurano   in un insieme specifico:  fragilità del sé;  timore dell’annientamento e impossibilità  di riconoscere pienamente se stessi e l’oggetto come separati; misconoscimento    della realtà interna ed esterna, ossia accoglimento parziale della realtà accompagnato dal tentativo di manipolarla e mantenerne il controllo;  conseguente  ostacolo alla formazione di un senso della realtà compiuto;  uso difensivo della distruttività seguito dal timore costante che essa possa sfuggire di mano con esiti catastrofici;  senso di colpa che può   portare ad una condizione di inerzia e di inibizione o arrivare al punto di negare il diritto a vivere; disordini delle emozioni;  precarietà della rappresentazione  del sé e ipersensibilità alle critiche, timore di precipitare nella confusione, con il ricorso, talvolta, a meccanismi ossessivi e, talvolta contemporaneamente,  attivazione continua della confusione intorno a sé.

    Se consideriamo l’organizzazione della personalità,  siamo di fronte ad un arresto dello sviluppo. La parziale negazione della rappresentazione mentale della distanza tra sè e l’oggetto  serve ad evitare l’angoscia, ma impedisce anche l’esperienza del dolore mentale causato dalla perdita: non c’è sufficiente spinta per i processi di identificazione. In assenza di identificazioni affidabili il senso dell’identità rimane incerto e confuso e, appoggiato com’è a processi imitativi e a meccanismi onnipotenti, dà luogo a rappresentazioni del sé grandiose e precarie.

     Molta parte della letteratura psicoanalitica attribuisce una grande importanza all’uso del feticcio. Il feticcio è legato all’esistenza del pene, il quale, a sua volta,  viene a rappresentare la visibile integrità del sé: Il feticcio segnalerebbe che è avvenuta un’inadeguata separazione  del soggetto dalla madre e  che l’esito è una sorta di debolezza nella formazione dell’immagine corporea, come chiarirò meglio più avanti.

    Per tentare di avvicinarci alla comprensione della  funzione del feticcio, negli uomini e nelle donne, credo possa essere utile   spostare la nostra attenzione su alcune vicende evolutive.

    In entrambi i sessi, nel corso dello sviluppo,  le   angosce di frammentazione e di perdita di sé  possono confluire nell’angoscia di castrazione, che può diventare estremamente intensa. A questo proposito vorrei osservare che  il modo di raffigurarsi mentalmente  l’anatomia femminile sembra condurre bambini e bambine ad alcune costruzioni comuni.

    Il bambino può vivere la separazione dalla madre come un’esperienza di mutilazione di sé. Nel caso della bambina il suo corpo forato, un foro di cui non si può controllare la chiusura, dal contenuto misterioso, si presta bene a divenire il luogo in cui si materializzano il vissuto della separazione mutilante e l’angoscia di non potersi tenere insieme. La sua anatomia non sembra adeguata a offrirle possibilità di  rassicurazione.

    La paura di non essere capace di tenersi insieme  è la stessa nei due sessi, ma la bambina non ha la possibilità di controllare l’integrità del suo interno, viceversa le sembra che il corpo maschile possa offrire maggiori garanzie: esso  sembra avere robustezza e compattezza,  la presenza dei genitali è accertabile.

    Di fronte alle normali angosce successive alla separazione la bambina potrebbe trovare sollievo immaginando di poter disporre, all’occorrenza, di un corpo maschile, con tutte le sue rassicuranti caratteristiche. Nei casi più felici questa fantasia è lasciata cadere nel corso dello sviluppo. Viceversa se il vissuto di impossibilità a vivere dopo la separazione e il senso di mutilazione sono   intollerabili, la bambina tenderà a mantenere attiva la sua fantasia. Non credo che si possa dire che la fantasia contenga un pene immaginario; essa contiene qualcosa di più concreto e   diffuso   ad un tempo: l’idea di poter   disporre anche di un compatto corpo maschile.

     Se passiamo ora a considerare il problema dal punto di vista del bambino, sembra che egli, in modo corrispondente alle fantasie femminili,   attribuisca alla  presenza e all’integrità del pene la funzione di rassicurarlo sull’integrità del sé. La  rappresentazione mentale dell’anatomia femminile  (corpo forato, esposto, indifeso)  pare abbastanza simile a quella elaborata dalla bambina;  infatti la vista del corpo femminile dà nuova intensità alle sue angosce.  Sembra allora che nel momento in cui viene scoperta la differenza tra i sessi, grazie all’equazione pene=integrità del sé,  le angosce successive alla separazione si manifestino come angosce di castrazione. Esse sembrano  anche contenere elementi nuovi, legati al vero e proprio timore della  castrazione, così  come lo conosciamo. 

    Questa angoscia, normalmente presente nello sviluppo,  può   divenire  particolarmente accentuata nel futuro perverso. Sappiamo infatti che, per evitare di sperimentare pienamente il vissuto della separazione, il bambino può immaginare  di essere  la madre o   di essere come la madre. L’assunzione, in fantasia, di  un corpo femminile tanto esposto ai pericoli più temuti, sarebbe responsabile della particolare intensità dell’angoscia di castrazione in queste personalità. 

    Il perverso ha un modo coatto di andare in cerca dell’orgasmo. Oltre alla scarica della tensione l’orgasmo è ricercato come un’esperienza di conferma di esistere, specialmente in prossimità di una crisi di depersonalizzazione.  Anche l’intimità e la fusione sono ricercati  ma necessitano di un’adeguata protezione.

    Il feticcio rappresenta, in entrambi i sessi, un modo relativamente economico di affrontare il problema. Esso ha una funzione protettiva che ha finito con l’essere erotizzata.     L’esperienza orgastica, sia masturbatoria che nel coito,  è affrontabile, per il feticista, grazie alla  protezione del feticcio.  

    Il feticcio è fabbricato e reso significativo dal perverso:  esso costituisce  una sorta di  garanzia che la realtà rimarrà per sempre una sua produzione, operazione, come sappiamo,   della massima importanza.

     Produzioni   simili  al feticismo maschile si sviluppano nelle donne in cui la convinzione di avere un pene ha raggiunto una tale intensità da essere vicina al delirio. Fantasie stereotipate e ripetitive possono essere considerate simili a un fenomeno feticistico.

    Il feticcio maschile è rappresentato da un oggetto o da una parte del corpo, il feticcio femminile pare nascosto nelle fantasie.   Si tratta di fantasie di qualità masturbatoria, perchè tendono ad escludere l’oggetto anche  quando l’orgasmo è ricercato nel coito; esse sono stereotipate, ripetitive; sono fonte di eccitazione e costituiscono la condizione per accedere all’orgasmo, spesso hanno un contenuto prevalentemente sadomasochistico.

    Le organizzazioni difensive maschili  tendono ad aggregarsi intorno alla presenza del pene ed alla minaccia rappresentata dalla sua perdita, perciò si manifestano sotto forma di oggetti (feticcio visibile) o di  comportamenti manifesti (presenza concreta del feticcio, esibizionismo). Questi oggetti o comportamenti concreti stanno al posto di qualcosa che esiste, le fantasie femminili stanno al posto di qualcosa che non c’è.

    La mia ipotesi sul diverso dispiegarsi, nei due sessi,  della personalità perversa è dunque che  ciò che nell’uomo si organizza, sotto forma di comportamenti,  intorno alla presenza (minacciata, ma reale) del pene, nella donna prende la forma di fantasie intorno ad una mancanza.

È rilevante l’uso perverso e  mortifero dell’affetto.

Si tratta di un uso che tende a rinchiudere l’affetto in un cerchio difensivo quasi esclusivamente narcisistico, a non farne un veicolo di comunicazione, a recidere il ponte verso l’esperienza.

Nelle perversioni parzialmente fallite che vediamo in studio, malgrado il pericolo oggettivo cui i suoi atti lo espongono e il sensi di colpa, le pratiche sessuali hanno un imprescindibile carattere compulsivo.

Per quello che ho appreso da lunghe analisi, questi pazienti fuggono dall’angoscia di frammentazione, di smembramento e soprattutto di non esistere, di non essere reale. In questi casi a servire da contenitore è un’intensa angoscia di castrazione Per far fronte a una condizione emotiva intollerabile, il paziente usa la ricerca attiva di un’altra intensa esperienza emotiva. Sono noti e sono stati lungamente descritti l’ostilità e il sadismo impliciti nell’esibizione a ragazzine. Attraverso la paura mostrata dalle ragazze il paziente ottiene la conferma di possedere un pene, quel pene che per lui rappresenta tutto se stesso. Ciò che egli ricerca soprattutto è però l’intensa eccitazione, in cui la trasgressione e la colpa si mescolano alla paura per il pericolo che sta correndo. L’affetto così provocato costituisce il più importante obbiettivo del comportamento del perverso, perché la violenza di quell’affetto gli dà conferma, almeno temporaneamente, della sua esistenza al mondo. In quei momenti egli si sente vivo, ottiene una specie di carica; quando la carica si sarà progressivamente attenuata dovrà ricorrere ad un altro comportamento perverso per ricominciare il ciclo.

Tutto questo non porta verso alcun’esperienza nuova, né apre ad una relazione creativa con il mondo interno e con gli oggetti esterni. Al contrario il processo è inesorabilmente ripetitivo e sempre uguale. Nel mondo interno del perverso non deve avvenire nulla di nuovo. Possiamo dire che la qualità difensiva e narcisistica dell’affetto attivato evita il rischio di esposizione a esperienze emotive sconosciute e, conseguentemente, immobilizza. E’ garanzia e gabbia, e si tratta di una gabbia stretta. Nella chiusura verso esperienze vitali, nell’immutabile fissità, si esprime tutta la portata mortifera di quest’uso dell’affetto. In queste persone la libido non ha la funzione di legare, articolare, organizzare le relazioni intrapsichiche, non porta verso l’oggetto, essa è piuttosto messa al servizio delle difese da angosce primitive.

L’oggetto del perverso non esce da un circuito narcisistico, esso  è trattenuto in una condizione limite tra l’umano e l’inumano; gli è riconosciuta quel tanto di esistenza sufficiente per svolgere una funzione di protesi. Anche gli oggetti interni naturalmente subiscono la stessa sorte: per questo l’affetto è un legame devitalizzato e ripetitivo e il mondo interno di queste persone è desolato.  La libido non è tollerabile, la pulsione viene trasformata in un’erotizzazione intrisa di rabbia, che si indirizza su pseudo-oggetti. I pazienti perversi non possono pienamente riconoscere l’esistenza di una realtà esterna indipendente dal loro controllo e tolgono vita alla realtà e agli oggetti, esterni e interni. La conseguenza è che queste persone vivono una penosa esperienza mortifera e sentono accrescere l’angoscia di non essere reali, come non sono pienamente reali i loro oggetti.

Ovviamente tutto ciò che caratterizza il rapporto del paziente con la realtà viene messo in atto nella stanza d’analisi e investe pienamente l’analista.

Parliamo di analisi frustranti, difficili e faticose e non solo perchè i pazienti possono mettere seriamente in pericolo se stessi e gli altri. L’uso di forme primitive di comunicazione, come l’identificazione proiettiva, è costante ed espone la mente dell’analista a una continua invasione e a profondi stati di malessere.

A volte abbiamo l’opportunità di assistere a cambiamenti lenti e profondi sia per quanto riguarda la qualità del rapporto con la realtà che sul piano dei comportamenti. Ma il costo per l’analista resta tra i più elevati.

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