La Cura

L’Analista bricoleur. Sul buon uso delle teorie psicoanalitiche, di C. Schinaia

25/05/23
L’Analista bricoleur. Sul buon uso delle teorie psicoanalitiche, di C. Schinaia

A.BURRI, 1953

Parole chiave: Modernità – Postmodernità – Teorie psicoanalitiche – Garanti metapsichici – Bricolage.

ABSTRACT Lo scritto affronta alcuni temi centrali del dibattito psicoanalitico internazionale: il rapporto tra passato e presente, tra modernità e postmodernità, il ruolo dei garanti metapsichici e la loro modificabilità o immodificabilità, il valore della presenza o dell’assenza di una teoria psicoanalitica. Vengono presentate le posizioni attuali, spesso di tra loro in netto conflitto, ma anche la possibilità di fare riferimento a diversi indirizzi, alla loro pluralità e complessità, per proporre una loro utilizzabilità in un buon contesto metateorico e metterli a confronto con l’esperienza clinica che scompagina e ricompone continuamente gli assetti teorici, evitando, però, un immiserente eclettismo teorico-clinico attraverso una puntuale disamina delle compatibilità e incompatibilità fra i diversi modelli teorici .

L’ANALISTA BRICOLEUR. SUL BUON USO DELLE TEORIE PSICOANALITICHE.

Mutazione sociale o estesa e confusa modificazione di costume?

di Cosimo Schinaia

   Freud (1921) non vedeva alcuna antinomia tra la psicologia individuale e la psicologia sociale. Oggi però, almeno per alcuni psicoanalisti, non si tratta più di evocare delle semplici modificazioni del sociale e la loro incidenza sulla soggettività individuale. Essi descrivono – credo con troppa enfasi – una vera e propria mutazione sociale senza precedenti e gli effetti antropologici che essa sta producendo. Per la psicoanalisi le conseguenze che possono derivare da queste descrizioni sono di segno opposto, ma ugualmente poco equilibrate. Da una parte troviamo i conservatori, coloro cioè che non ritengono che il sapere e la prassi analitica debbano scendere a patti con il nuovo, pena la loro decadenza oppure che le tradizionali categorie siano sufficienti ad interpretarlo perché in realtà si tratta di un nuovo solo apparente. Dall’altra ci sono i rivoluzionari, che sostengono che bisogna pensare a categorie di pensiero completamente innovative, essendo le categorie analitiche tradizionali obsolete e inadeguate a descrivere le nuove soggettività. Entrambe le posizioni appaiono difensivamente estremistiche e non fanno i conti con la complessità dei fenomeni che accompagnano i cambiamenti socio-culturali.

   Pur essendo la postmodernità percepibile come una trasformazione di straordinaria evidenza e intensità, essa è però accompagnata da fenomeni di ritardo, continuità, rifiuto ideologico e sentimentale anche violento, attaccamenti e nostalgie. Lyotard (1979), che pure ha coniato il termine “postmodernismo”, ricorda che la postmodernità non è semplicemente un’epoca che temporalmente arriva dopo la modernità, ma che c’è un forte intreccio, una profonda continuità tra gli elementi del moderno e del postmoderno.

   La globalizzazione dell’economia, la presenza di Internet, i nuovi media, la compressione dello spazio e la modificazione del tempo, l’allontanamento delle persone dalla politica e la relativa acredine anti-istituzionale, la crescita dell’individualismo e dell’edonismo, la crisi dello stato assistenziale, l’aumento della violenza e al tempo stesso l’evitamento della conflittualità, la confusione identitaria e sessuale, il consumismo di massa, la tendenza a dissipare, l’insofferenza immobile e il risentimento apatico sono alcuni dei fenomeni che sembra stiano prendendo il sopravvento e che, penetrando nel nocciolo duro dell’esperienza psichica, tendono a ristrutturare le transazioni inconsce tra gli uomini attraverso nuove e spesso drammatiche modalità.

   Non credo, però, che l’elencazione di questi fenomeni possa essere sufficiente a pensarci in un tempo che ha perso le sue connessioni originarie con il passato.

   Per Bauman (2000), dovremmo piuttosto costruire le nostre riflessioni, adottando la funzione dell’erraticità, riflessioni in progress che hanno bisogno di un paziente e costante lavoro di interrogazione di una realtà evasiva e versatile e di come i singoli individualmente la abitano.

   Seppure il postmodernismo abbia contribuito a fare si che la psicoanalisi rivedesse i suoi aspetti dogmatici ed antiscientifici, bisogna stare in guardia da teorie che, partendo dal postmodernismo, arrivano a una visione di radicale costruttivismo circa la teoria e il processo psicoanalitici.

Soggettività inedita o riproposizione di un immutabile passato sotto nuove spoglie?

   Ma stiamo realmente assistendo al costituirsi di una soggettività inedita che si crede liberata da ogni debito nei riguardi delle generazioni precedenti e a un soggetto che crede di poter fare tabula rasa del suo passato?

   Freud amava molto la seguente citazione tratta dal Faust di Goethe: “Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero”[1],che va accostata alle famose parole di Freud “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io(Wo Es war, soll Ich werden).” (1932, p. 190)

   Bion (1963) si pone sulla stessa lunghezza d’onda, quando evidenzia che “la capacità dell’analista di conservare la sostanza del suo training e della sua esperienza, e tuttavia di raggiungere una visione ingenua del suo lavoro, gli permette di scoprire da sé e a modo suo le verità scoperte dai suoi predecessori.” (p. 10)

   C’è una frase di Bernardo di Chartres[2] che mi piace ricordare: “Nos sumus sicut nanus positus super humeros gigantis”, “Siamo come un nano seduto sulle spalle di un gigante. Vediamo quindi un numero di cose maggiore degli antichi, e più lontane.”

   Acquietare, però, il senso di spaesamento, di volatilità e di precarietà dei progetti di vita di uomini e donne brandendo certezze del passato, novelli laudatores temporis acti, come Orazio definiva i vecchi che non accettavano il nuovo del presente, e di conseguenza interpretare quello spaesamento facendo leva solo sui “sacri testi”, sulla forza della tradizione, è solo apparentemente rassicurante, mentre è sostanzialmente un’operazione antieconomica.

   Erikson (1964) ha definito la fedeltà come “la capacità di restare coerenti con i principi liberamente scelti, nonostante le inevitabili contraddizioni dei sistemi di valore” (p. 128), ma il restare abbarbicati difensivamente a una visione del mondo superata, o perlomeno non calibrata con la complessità socioculturale a cui dovrebbe far riferimento, non ha a che vedere con la fedeltà, ma con l’accettazione acriticamente fideistica dell’ortodossia e porta ad ululare con i lupi (Freud, 1921).

   Dobbiamo evitare che, come gli eroi di certi racconti di fantascienza, gli analisti vivano e propongano di vivere in spazi laterali e paralleli, contigui a quelli della storia e della vita, ma invisibili e inaccessibili. Bisogna porre attenzione a non contrapporre al tempo e allo spazio globalizzati un nostalgico e lento tempo passato, un’improbabile ricerca del tempo perduto, non riproponibile tout court ai giorni nostri.

   Per esempio, Melman (2002) sostiene che si è passati da una cultura fondata sulla rappresentazione, che si basa sull’evocazione dell’oggetto desiderato, a una cultura della presentazione, che consiste nell’appropriarsi automaticamente e istantaneamente senza mediazioni dell’oggetto stesso. In altre parole, da una cultura basata sulla rimozione dei desideri, e quindi sulla nevrosi, a un’altra che raccomanda la loro libera espressione e soddisfazione e promuove in tal guisa la perversione. Il benessere psichico, la salute mentale sembrano essere non tanto in armonia con l’Ideale, quanto con un oggetto di soddisfazione.

   Ho la sensazione che queste affermazioni vadano relativizzate, in quanto, pur contenendo elementi di verità, portano, se generalizzate e assolutizzate, a posizioni reazionarie e conservatrici, che oscillando tra idealizzazione e denigrazione, rimandano nostalgicamente a un passato con dei limiti precisi e, quindi, in ogni caso con potenzialità organizzatorie definite, in opposizione a un mondo attuale senza alcuna possibilità di delimitazione e, pertanto, così sconclusionato e disincantato da diventare psicoanaliticamente inabbordabile.

Tra teoria e assenza di teoria: l’analista bricoleur

   Kaës (2005) definisce “garanti metapsichici” “Le formazioni ed i processi dell’ambiente psichico su cui si basa e si struttura la psiche del soggetto. Essi consistono essenzialmente nelle interdizioni fondamentali e nei contratti intersoggettivi che contengono i principi organizzatori della strutturazione dello psichismo, Essi formano, pertanto, la cornice e lo sfondo di quest’ultimo.” (p. 59)

   Quando vengono a mancare o vacillano i garanti metapsichici e metasociali usuali, le grandi strutture di inquadramento e regolazione delle formazioni e del processo sociale: miti e ideologie, credenze e religione, autorità e gerarchia, la soggettività diventa gravemente instabile.

   Ma è proprio vero che oggi ci avviamo, nella mediaticità totale, verso una società non solo senza padre (la crisi dell’autorità e la costituzione di un volontario fascismo strisciante sostitutivo), ma anche senza lutto (crocevia di ogni introiezione, assunzione di identità e accettazione di differenze)? (Barale, 2003).

   Un interrogativo serve ad avvicinarsi alla complessità del quadro, magari stressando dialetticamente i corni del problema, mentre un’affermazione netta rende la realtà leggibile in modo unidirezionale, evitando l’incontro-scontro con quanto non rientra nello schema interpretativo adottato. Le trasformazioni dei costumi sessuali sono, per esempio, esageratamente descritte come mutazione epocale e questo modo di definire la realtà sociale rischia di essere prefigurante la realtà che si vuole analizzare, togliendo ogni possibilità di approfondimento critico nell’osservazione di un fenomeno estremamente complesso e a più strati.

   Il progresso è sempre consistito nel riposizionare i limiti della scienza e, in modo abbastanza sincrono, i divieti della morale; ma oggi questo processo di sincronizzazione sembra essere in crisi, perché i limiti sembrano inconsistenti, effimeri, e fanno il paio con identità, soggettività labili. L’eccesso diventa tendenza, facendo riferimento più che a una trasgressione a una prescrizione.

   La mutazione alla quale si dice di assistere, si manifesterebbe, inoltre, attraverso l’esibizione impudica dell’oggetto, la cui continua, consumistica presenza impedisce la costituzione della dimensione della perdita. La perversione, attraverso la pubblicità e i mass media, rischia di diventare norma sociale e, in quanto tale, principio delle relazioni sociali. Alla qualità delle relazioni, avvertita come scarsa e, in ogni caso, deteriorabile in fretta, si sostituisce la quantità, la loro moltiplicazione e accumulazione.

   Ma si tratta di una mutazione sociologica, oppure di un esteso cambiamento di costume che ha avuto una presa particolarmente duratura in quanto è stato amplificato dai mass media e dalla pubblicità, che hanno bisogno di proporre continuamente merce da consumare, ma che non può essere considerato stabile e definitivo?

   Giuffrida (2006) si chiede se i cambiamenti culturali e di costume possano comportare un rimaneggiamento delle configurazioni fantasmatiche inconsce a noi note e se gli organizzatori classici della psicosessualità possano avere perso o mutato la loro funzione nella creazione del serbatoio immaginifico che fino ad oggi ha caratterizzato la nostra civiltà, oppure se i mutamenti dello stile di vita della collettività non siano essi imputabili a una diversa mitopoiesi scaturita dalle trasformazioni successive dei miti originari per una sorta di circuito di feedback con il tessuto sociale.

Di Chiara (1998, p. 4) propone di distinguere nettamente “’Il disagio della civiltà’ proposto da Freud (1929), in relazione all’impatto dell’individuo con una conflittualità insuperabile che lo aspetta comunque nella vita sociale, dalle ‘sindromi psicosociali’”, considerando queste ultime come delle eventualità sociali altamente patologiche, in cui predominano fenomeni difensivi che confluiscono e si manifestano in comportamenti di grandi gruppi che arrecano, nonostante le apparenze di utilità, disagi gravi e sofferenza e che, per questo motivo, hanno caratteri simili alle perversioni.

Dobbiamo porre molta attenzione nell’osservazione di modificazioni di costume tanto intense quanto confuse, di vettori di cambiamento che velocemente modificano la loro traiettoria, dando il giusto valore a comportamenti sociali segnale che onnipotentemente negano tanto l’appartenenza quanto la mancanza, ma evitando di trarre conclusioni catastrofiche del tipo “tutto è cambiato” o, per converso, conclusioni consolatorie del tipo “sostanzialmente nulla è cambiato”. Bisognerebbe restare bionianamente in oscillazione tra continuità e discontinuità, avendo fede nella risposta creativa del proprio inconscio, senza cercare una redenzione o almeno una tregua in un sogno di appartenenza, oppure ricercando senza requie inesplorate e non sperimentate identità.

   Petrella e Berlincioni (2002) sottolineano che nella terapia bisogna in ogni caso far risorgere l’Edipo, perché non riconoscono la presenza di nuove realtà pulsionali e relazionali che siano alternative alla sua ripresa: “La grande narrazione edipica, con il suo potenziale emancipativo, lascia il posto ad altre formazioni proliferanti, a micronarrazioni locali, a oggetti parziali frammentari e all’iconografia relativa.” (2004, p. 372)

   Anche Green (2002) si oppone a quella che definisce “pragmatica del sapere narrativo”, in quanto “l’associazione libera rompe il racconto.” (p. 331)

Scrivono però Gabbard e Westen (2004): “Si è sviluppata una maggiore flessibilità nella pratica psicoanalitica e un riconoscimento dell’inevitabilità – e del valore – del processo di negoziazione che avviene in ogni diade analitica.” (p. 117)

   Se, però, Greenberg (1995) sostiene che il modello e le “regole” vengono variate a seconda della natura specifica delle soggettività di analista e paziente, Gabbard e Westen (2004) puntualizzano che l’assunzione di un atteggiamento duttile non vuole dire che qualsiasi cosa vada bene nell’ora analitica.

   Scrive Israël (1994): “Le regole, qualunque esse siano, devono potere essere rimesse in discussione e, nella nostra disciplina, essere sottoposte a un lavoro di rielaborazione tanto congiunturale quanto teorico per non correre il rischio di essere feticizzate e perdere tutto il loro senso vivente.” (p. 33)

   La risposta pertanto non può essere né la rigida difesa delle regole originarie, tramutate in leggi universali, all’insegna della feticizzazione, dell’ossessivizzazione burocratica, né la dissoluzione della propria identità nell’assenza di ogni valore ordinatorio.  

   Se si guarda alle teorie psicoanalitiche attuali, si osservano una poliedricità e una varietà di modelli, concetti e terminologie che fanno dubitare se si possa parlare di “una” o “più” psicoanalisi, tra loro diverse, ma Wallerstein (1988, 1990), pur prendendo atto della diversità delle teorie psicoanalitiche attuali, esorta a ritrovare un common ground, un comune denominatore.

    L’analista dovrebbe accettare la sofferenza di stare nel guado e pensarsi come un bricoleur, bravo a costruire con quanto ha a disposizione in termini di differenti teorie che possono essere variamente calibrate anche attraverso originali modalità di sperimentazione che, pur partendo da paesaggi familiari, possano aprire nuovi percorsi conoscitivi e relazionali. Un bricoleur che faccia riferimento a un concetto polifonico di identità, all’identità come a qualcosa di nomade, in ogni caso ben più nomade rispetto al passato, e all’interno di reticoli circolari che vengono rappresentati in forme espressive deboli, cangianti, variegate. Identità transitorie, propedeutiche forse a future stabili identità, ma autentiche e autenticate anche dalla consensualità relazionale, pensate come da costruire nella relazione analitica con i materiali a disposizione, piuttosto che entità originarie da scoprire.

   Ruth Stein (1995) parla di bricolage, intendendo la possibile combinazione, anche se conflittuale contradditoria, di diverse teorie psicoanalitiche nel lavoro clinico. Avere a disposizione un kit di attrezzi di lavoro permette di assemblare fra loro parti di teorie differenti in un buon contesto metateorico.  

   Mi sembra utile sottolineare la necessità di fare riferimento a diversi indirizzi, alla pluralità e alla complessità dei nostri orizzonti attuali in continua e produttiva evoluzione, per andare a una loro utilizzabilità in un buon contesto metateorico e metterli a confronto con l’esperienza clinica che scompagina e ricompone continuamente gli assetti teorici. Il continuo ripensare e ricalibrare la propria tecnica, aiuta ad alleggerirla delle microillusioni di onnipotenza euristica e introduce feconde problematizzazioni sull’angolatura che si tende in genere a adottare.

   Ovviamente non si tratta di un generico eclettismo teorico-clinico, né di fare facili concessioni all’ermeneutica e al costruttivismo radicale, né tantomeno di propugnare una sorta di intuitività onnipotente, né ancora di non riflettere sulla relativa compatibilità e incompatibilità dei differenti modelli teorici, quanto di riferirsi a una teorizzazione che sia contemporaneamente rigorosa e liberamente fluttuante, viva, elasticamente transitiva, fatta di continuità ed embricazioni tra differenti modelli, ma anche di rotture e disarticolazioni (Schinaia, 2006).

   Scrive Money-Kyrle (1931): “Se vogliamo vivere per sempre dobbiamo continuare ad adattare noi stessi al nostro ambiente e il nostro ambiente a noi stessi e dobbiamo inoltre prevedere e anticipare gli adattamenti che un giorno saranno necessari.” (pp. 150-51)

   Quest’affermazione è al tempo stesso un elogio della duttilità e del rigore che mi sembra possa valere per la psicoanalisi e per gli psicoanalisti aperti a una visione prospettica e creativa ai tempi della postmodernità.

BIBLIOGRAFIA

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[1]Was du ererbt von deinen Vätern hast, erwirb es, um es zu besitzen, Faust, parte prima, scena della Notte. Citata in “Totem e tabù” (1912-1913, p. 161), in “Introduzione alla psicoanalisi” (1915-1917, p. 510) e nell’ultima pagina del “Compendio di psicoanalisi”(1938, p. 634), testo rimasto incompiuto e la cui stesura era cominciata durante l’esilio londinese.

[2]Frase menzionata nel Metalogicon, III, 4di Giovanni di Salisbury e da lui associata a Bernardo di Chartres (XII secolo).

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