Parole chiave: Basaglia, Ospedale Psichiatrico, empatia, Bleger, ambiguità
L’esperienza psichiatrica di Trieste: una lettura psicoanalitica
Paolo Fonda
Abstract: l’Autore riperorre l’esperienza di Basaglia a Trieste che portò alla chiusura dell’Ospedale Psichiatrico (OP) e all’apertura dei servizi psichiatrici territoriali; propone una lettura psicoanalitica dell’esperienza e quindi fa un parallelismo tra espeienza di ospedalizzazione protratta in OP e l’esperienza di detenzione di una donna in un campo di prigionia durante la dittatura argentina offrendo delle considerazioni sulle istituzioni totali.
Maria Moscara
Nel 1978 è stata approvata dal Parlamento Italiano la legge che decretava la chiusura degli Ospedali Psichiatrici (OP). Ciò è stato reso possibile dai risultati ottenuti in un esperimento iniziato dal Prof. Franco Basaglia nel 1961 a Gorizia e poi da lui continuato e completato dal 1971 a Trieste, e in diversa misura anche in altre città italiane.
Trieste aveva allora 270.000 abitanti e un Ospedale Psichiatrico con 1182 pazienti. La maggior parte di loro vi stava rinchiusa da molti anni o decenni. Nel 1971 Basaglia diede inizio a una radicale opera di trasformazazione dell’OP. Lavorandovi come psichiatra, mentre iniziavo il mio training psicoanalitico, sentì il suo progetto come una grande e attraente sfida.
Il progetto prioritario era di umanizzare l’OP, struttura delegata più alla reclusione che alla cura, e riabilitare i ricoverati, ridando alla loro vita dignità e sembianze umane. Si trattava di farli gradualmente rientrare nel mondo dal quale erano stati espulsi da anni.
Parallelamente bisognava mettere in dicussione anche i pregiudizi, gli stereotipi e i meccanismi relazionali che opprimevano ed emarginavano gli ammalati.
Solo dopo aver tolto almeno una parte di queste incrostazioni, reali e concrete, acccumulate nella società nel corso dei secoli e negli ammalati – così come anche nel personale curante, nell’arco di anni di vita asilare, sarebbe potuta emergere la persona e anche un volto della malattia meno deformato. Solo dopo sarebbe stato possibile pensare a una cura più approfondita della malattia a livello individuale.
È stato fondamentale abbattere il mito della pericolosità connessa alla malattia mentale. Si evidenziò nei fatti come il livello dell’aggressività agita, prima attribuito esclusivamente alla malattia, finiva quasi con il dissolversi con il venir meno dell’OP e all’esterno con un atteggiamento dell’ambiente sociale progressivamente meno stigmatizzante, più accettante e contenente.
Si iniziò poi con la prassi delle visite domiciliari ai pazienti dimessi da parte dei medici e degli infermieri. Nella mente degli operatori psichiatrici i malati cominciarono così ad essere rappresentati – e rispecchiati – non solo così come si presentavano durante i ricoveri, alterati da una sintomatologia florida, ma anche come apparivano nella loro vita normale nel loro ambiente. I <<pazzi>> assumevano così sembianze sempre più umane. Nel 1975, a metà di questo percorso, mi trovai a dirigere uno dei primi Centri di Salute Mentale (CSM), istituito sperimentalmente per un piccolo territorio di 26.000 abitanti. Aveva un’attività ambulatoriale ed era dotato die una decina di letti occupati da pazienti che avevano passato decenni in ospedale ed originari della zona, ma che non avevano famiglie in cui rientrare. Altri 8 letti furono adibiti al temporaneo soggiorno di pazienti acuti della zona, che per qualche giorno o settimana avevano la necessità di essere seguiti più da vicino. Fu questa una conquista, che si rivelò avere un enorme potenziale terapeutico: la possibilità di offrire a ciascun paziente l’assistenza su misura: l’ambulatorio, la visita domiciliare, il day hospital o il night hospital o il full board, il tutto valutato di giorno in giorno e sempre dagli stessi operatori. Niente pigiami nè camici. E ciò nelle vicinanze di casa, senza interrompere il contatto con i familiari e la comunità di appartenenza.
Questa modalità di organizzare le cure ha portato, tra l’altro, a un sorprendente accorciamento dei tempi di superamento delle crisi psicotiche acute (da alcuni mesi ad alcune settimane).
Il trattamento più rispettoso della persona del paziente, senza ammassamenti nei reparti ospedalieri, accanto al parallelo cambiamento degli stereotipi negativi nella società – e pertanto nell’immagine di sè che i pazienti vi avevano sentita rispecchiata – permetteva loro di vivere la propria malattia in modo meno drammatico, di alleviare la sensazione di incomprensione generale, di solitudine ed esclusione.
Senza il terrore di una ospedalizzazione violenta e depersonalizzante, al comparire dei primi sintomi, i pazienti potevano ora rivolgersi sempre più spesso al CSM spontaneamente, prima di assere presi completamente nel vortice della malattia riacutizzata. A volte erano i familiari o i vicini di casa, che chiamavano il CSM, rendendo possibile una tempestiva visita domiciliare e una terapia, che in molti casi consentiva di prevenire o contenere la crisi psicotica a domicilio. Si poteva così sostituire il constatato effetto negativo dell’OP con una capillare e individuale assistenza su misura per ciascun paziente, nel rispetto della sua dignità e nella comprensione della sua sofferenza.
Questi ed altri fattori hanno permesso di invertire il circolo vizioso dell’interazione malattia-ambiente, che prima provocava un progressivo aggravarsi dell’angoscia e degli effetti negativi. Nella zona di questo CSM si è riscontrato già nei primi 5 anni un calo dei ricoveri coatti da 100 a 10 all’anno.
Dopo alcuni anni di lavoro di <<umanizzazione>> dell’OP e di incremento dell’assistenza territoriale, si rese evidente che una vera riforma, che rispondesse alle esigenze dei malati, così come in fin dei conti anche della popolazione tutta, non poteva che implicare l’abolizione dell’OP, che andava sostituito con una capillare assistenza territoriale.
Proseguendo su questa strada si arrivò nel 1978 all’approvazione della legge 180 in Parlamento e un paio di anni dopo alla dimissione degli ultimi ricoverati dall’OP di Trieste.
C’è stata indubbiamente una congiuntura di fattori che hanno consentito la realizzazione dell’esperimento Basaglia.
L’ondata rivoluzionaria degli anni seguenti al 1968, con la sua travolgente energia, ha finito con il cambiare profondamente la società italiana e quella occidentale, mettendo in maggiore evidenza il valore e i diritti delle persone, fino ad allora pesantemente conculcati dall’autoritarismo e da numerose istituzioni più o meno totali. L’atmosfera conflittuale di quegli anni ha consentito un vasto confronto sociale e un profondo cambiamento della concezione dell’individuo e dei suoi diritti. Su questa scia la riforma dell’assistenza psichiatrica è stata accompagnata anche da un’ampia informazione e dal coinvolgimento della popolazione (colloqui con le famiglie, i vicini e i colleghi di lavoro, riunioni di quartiere, pubblicazioni nei mass media, sensibilizzazione della cultura, delle forze politiche e sindacali). Questi cambiamenti culturali hanno portato alla chiusura anche di altre istituzioni segreganti: gli Istituti per l’infanzia abbandonata o handicappata, quelli per i ciechi e gli epilettici, l’abolizione delle classi differenziali nelle scuole.
Nella società facevano passi importanti i diritti delle donne, il diritto alla salute (con la riforma sanitaria), l’introduzione del divorzio, del diritto all’aborto e numerosi diritti dei lavoratori.
Un fattore decisivo è stata la grande sensibilità sociale e la travolgente spinta innovativa di molti giovani psichiatri, psicologi e studenti, confluiti a Trieste da tutta l’Italia e dall’estero, così come la grande capacità di Basaglia di gestire e contenere questa variopinta moltitudine, valorizzandone gli elementi più generosi e costruttivi e neutralizzandone gli aspetti più caotici e potenzialmente distruttivi. Si sarebbe potuto parlare di un <<caos controllato>>.
Fondamentali sono stati anche la concordanza e la sinergia tra gli operatori sanitari e gli amministratori politici della Provincia che non fecero mai mancare il loro sostegno. E’ stato naturalmente basilare che in quegli anni si fosse già ben consolidato l’uso degli psicofarmaci. Ha giocato a favore anche il fatto che la nuova forma di assistenza, oltre che più adeguata, si è rivelata anche meno costosa.
Oggi Trieste è da 40 anni priva di un OP, nessuno lo rimpiange.
I CSM sono ora il perno dell’assistenza, coadiuvati da un Servizio Psichiatrico con 8 letti nell’Ospedale generale, prevalentemente per i ricoveri acuti durante la notte o i giorni festivi. Un sistema di appartamenti con diversi gradi di assistenza infermieristica ospita coloro che non hanno una famiglia in cui rientrare. Una Cooperativa offre delle opportunità di lavoro adeguate alle possibilità degli assistiti; sono stati fatti rientrare oltre un centinaio di pazienti cronici che prima del 1971 erano stati trasferiti in altre Province, così come quelli che erano negli OP Giudiziari.
Possiamo dunque dire che l’esperimento realizzato negli anni Settanta a Trieste è pienamente riuscito e continua a testimoniare la possibiltà e la necessità di una assistenza psichiatrica non basata sull’ospedalizzazione. Personalmente ritengo ciò il fatto più rilevante nella storia della psichiatria del Novecento.
Alcune riflessione psicoanalitiche
- La forza dell’immagine di sè riflessa dall’ambiente
Nella cultura di gruppo c’è un incessante scambio di messaggi che vanno a depositarsi nel nostro mondo interno, costituendone gli sfondi culturali o coagulandosi in rappresentazioni, quali anche quella della normalità psichica e quella della malattia mentale. Queste immagini stereotipate, una specie di oggetti interni della cultura del gruppo, hanno una notevole penetranza nel mondo interno degli individui.
Prima del 1968 questi stereotipi sociali avevano intense caratteristiche schizo-paranoidi, con abbondanza di scissioni, proiezioni, demonizzazioni ecc. Vigendo in questa posizione la legge del “tutto o nulla”, si poteva essere solo sani o pazzi.
Lo stereotipo del pazzo <<pericoloso a sè a agli altri>> (come lo definiva la vecchia legge), incapace di intendere e di volere, ragionare e sentire, aggressivo, tarato geneticamente, in sostanza: disumanizzato, veniva forzosamente introdotto nei malati stessi (come anche nel personale curante), sia dalla cultura sociale che dall’istituzione psichiatrica in particolare.
Il Sé dei malati, già fragile a causa della loro patologia originaria, non riusciva ad opporsi a queste violente identificazioni proiettive e finiva con l’identificarsi con l’immagine inseritagli dall’ambiente. Semplificando: tutto sembrava organizzato per rafforzare le parti malate e reprimere quelle sane, che il più delle volte finivano per soccombere definitivamente. Così veniva confermato in modo compiacente ciò che l’ambiente si aspettava. C’era poco spazio allora nella cultura sociale per l’immagine (in una posizione depressiva) di qualcuno che potesse essere <<un po’ sano e un po’ malato>>.
L’istituzione manicomiale svolgeva tale compito tramite infiniti dettagli quali il sostituire i vestiti con i pigiami, uniformare il taglio dei capelli, far mangiare solo con i cucchiai, escludere i malati dalla frequentazione di luoghi normali quali uscite in città, cinema, teatri, eventi sportivi, ambienti di lavoro e facendoli invece passare decenni rinchiusi nella stesso reparto, seduti gomito a gomito nelle sale di soggiorno chiuse a chiave e d’estate nei giardini recintati con reti, simili alle gabbie di uno zoo. Il malato diventava così il pazzo, che aveva ben poco di umano, troppo dis-simile perché si potesse empatizzare con lui, per cui si poteva accettare serenamente che fosse privato della sua dignità, escluso, rinchiuso a vita, legato, lobotomizzato. Essendogli tolti i suoi “diritti civili”, ci si aspettava che fosse di fatto esentato anche dai “doveri civili”, poiché da lui ci si poteva aspettare di tutto. Levi Strauss (1967) ci ricordava: “L’umanità cessa alle frontiere della tribù” e possiamo aggiungere: “anche ai cancelli del manicomio”. Per distanziarsene emotivamente i nazisti parlavano delle loro vittime come di “pezzi”, qui si parlava invece di “pazzi”.
Nella situazione di regressione, debolezza e dipendenza dovuta sia alla malattia che ai traumatici rapporti istituzionali, il malato è paragonabile a un bambino che introietta l’immagine di sè che l’ambiente gli rimanda.
Negli occhi della madre-istituzione, che ha il totale potere sul suo accudimento, si vede pazzo. Tale deve essere per compiacerla e si può addirittura sentire in colpa se non lo è.
Si può menzionare qui il potere che ha nella strutturazione del bambino la winnicottiana <<percezione organizzante>> dei care-giver, cioè come il bambino percepisce ciò che gli adulti si aspettano da lui e come questo si innesta sulla sua naturale spinta alla crescita e allo sviluppo.
Se il sostegno di questa <<percezione>> viene a mancare, o è addirittura perversamente invertito in direzione della parte malata, la parte sana viene indebolita, poiché l’ambiente gli rispecchia solo quella malata, per di più grottescamente deformata da consolidati pregiudizi. Il malato, suo malgrado, la introietta e sente incombere anche dentro di sé le immagini stereotipate più negative della propria identità.
- Il rapporto empatico
Inforcando gli occhiali della teoria delle relazioni oggettuali, la realtà manicomiale non può che apparirci come una mostruosa fabbrica di patologia iatrogena.
Oggi consideriamo sempre di più la fondamentale importanza della relazione con l’oggetto non solo nello sviluppo del bambino, ma nelle vita umana tout court. Parafrasando Winnicott, potremmo dire non solo che “non esiste un bambino senza una madre”, ma che “non esiste un essere umano senza un ambiente umano”, o nel nostro caso, “non può esistere umanità in un malato mentale senza genuini rapporti umani”.
Vittorio Gallese, lo scopritore dei neuroni specchio, nel suo recente libro Cosa significa essere umani? (2024),,partendo dalla prospettiva neuroscientifica, si incontra con la teoria delle relazioni oggettuali, sostenendo che “le conoscenze scientifiche pongono sempre più al centro il tema dell’intersoggettività come fonte dell’individuazione”. Vede “il soggetto come frutto della relazione […] un polo che si realizza solo nella misura in cui entra in relazione con il mondo […] nel nostro tacito accoppiamento strutturale col sistema vivente di cui siamo parte.” (p. 249)
L’intorno è il “preindividuale”, il “comune” che sempre ci precede. E’ nel “noi” che si crea l’ “io”. “La qualità e la quantità di relazioni determinano i modi in cui sviluppiamo la nostra identità.” (p. 64)
In ciò è fondamentale l’empatia, “una delle vie per cogliere cosa significhi essere umani e come lo diventiamo…per comprendere dall’interno ciò che prova l’altro, rimanendo se stessi” per consolidare un fondamentale “bagaglio di certezze implicite condivise su noi stessi e sugli altri”.
Gallese sottolinea “La sofferenza che interviene quando nessuno riconosce la nostra differenza, causando la mancanza totale di validazione sociale del nostro essere.” (p. 67). Cita il poeta Mandel’štam: “Non c’è nulla di più terrificante per un uomo della totale indifferenza di un altro uomo per lui”.
Pensiamo all’attività mentale (considerando la natura sociale di emozioni ed affetti…) di chi per anni indossa lo stesso pigiama, sta seduto accanto agli stessi individui che, in asenza di rapporti strutturanti e rispecchianti, scivolano con lui inarrestabilmente verso un’annichilente regressione nel paese dei morti viventi.
- Un parallelo inquietante
Mi ha molto colpito un particolarissimo lavoro di Silvia Amati Sas (2004) sull’analisi di una donna che negli anni Settanta in Argentina, durante la dittatura fascista, aveva trascorso un lungo periodo in un campo di prigionia. Sono considerazioni molto precise sulle istituzioni totali violente.
In una certa misura si possono applicare anche alla realtà manicomiale, dove le persone sono eposte perennemente a situazioni traumatiche molto pesanti, non molto dissimili da quelle dei campi di concentramento. La privazione della libertà, la condizione di dipendenza assoluta, l’impotenza, l’inappellabilità, l’impossibilità di farsi capire. Citerò alcuni passi emblematici del lavoro di Silvia Amati che, oltre che ai concetti di ambiguità di Bleger (1962), attinge anche a <<La confusione delle lingue>> di Ferenczi (1933).
- “È mia intenzione discutere delle forme psichiche che mostrano una tacita accettazione di qualsiasi contesto o realtà, anche il più ingiusto o illegittimo, conferendogli ovvietà, familiarità, banalità.”
- “La violenza traumatica provoca una regressione in uno stato malleabile e penetrabile di ambiguità, che permette al torturatore di imporre e occupare, nel mondo interno, il posto degli oggetti interni privilegiati, usurpando e sabotando il ‘progetto identificatorio’, il funzionamento morale ideale del soggetto. Nello stato di immobilizzazione e dipendenza prodotto nel prigioniero c’è un ‘imprinting’ del mondo esterno presente, un ‘rimodellamento’ adattivo che è ignorato dal soggetto e che lo fa rimanere simbioticamente dipendente dal contesto e occupato nel suo mondo interno da una mentalità che non è la sua. Usando le parole di Ferenczi, “il soggetto vittimizzato introietta il mondo concentrazionario (o ne è introiettato) e contemporaneamente offre il suo mondo interno all’imposizione dell’aggressore”.
- “Intendo comparare il concetto di Ferenczi di “identificazione con l’aggressore” con quelle idee che il mio lavoro con persone sopravvissute a situazioni estreme (tortura, campo di concentramento, sparizioni) mi hanno permesso di definire: un “adattamento a qualsiasi cosa” e un “oggetto da salvare”. Sono due modalità simultanee di sopravvivenza psichica: da un lato l’adattamento al contesto reale così com’è e al contempo una relazione intra-soggettiva con un oggetto segreto della cui dignità e destino preoccuparsi”.
- “Quando le condizioni esterne sono estremamente traumatiche, l’Io interpone l’ambiguità come una cortina per proteggere la propria struttura…il resto della personalità rimane incapsulato e sospeso”.
- “Sia il prigioniero abusato che il bambino abusato sono fraintesi dagli altri, non sentiti o non creduti. Per sopravvivere il trauma, devono scindersi: in una parte <adattata a qualsiasi cosa> e in un intimo segreto intrapsichico <oggetto da salvare>”.
Fin qui Silvia Amati, ma viene da chiedersi quanto questa “ambiguità come una cortina per proteggere la propria struttura” possa esser costituita anche da una parte della stessa sintomatologia, che l’ammalato negozia e concorda con l’istituzione manicomiale. Oppure anche, quanto certi nuclei deliranti, incomprensibili e inaccessibili agli altri, possano svolgere la funzione di “oggetto da salvare”, il quale garantirebbe una peculiare privata e segreta identità al malato di fronte al pericolo di una perdita totale della sua identità nell’identificazione con l’aggressore-istituzione? “Il soggetto vittimizzato cerca ‘il piacere della tranquillità’ (Ferenczi), un nuovo legame simbiotico, che offre ogni tipo di sicurezza, e perciò un adattamento a qualsiasi forma di realtà” (Amati). E qui siamo forse alla cronicità psichiatrica ‘spenta’?
- Il ruolo della psicoanalisi
Il lavoro nell’OP triestino è stato tutt’altro che sereno e lineare. Il cambiamento è stato accompagnato anche da una quantità di riflessioni, che generavano confusione. Slogan sessantotteschi ed elaboratissimi e spesso fumosi discorsi riempivano le quotidiane interminabili assemblee. Eppure, senza tutto questo, neanche cose preziose ed importanti avrebbero potute essere concettualizzate e poi realizzate. La “confusione dello statu nascendi” era pesante, ma il bambino non andava buttato con l’acqua sporca! Il ’68 ha portato in Italia e in Europa occidentale insperate libertà, diritti e dignità a livello individuale e profondi mutamenti sociali che vengono spesso sottovalutati da chi dimentica com’era il <<prima>>.
Tuttavia il paradosso è che, nonostante ci fossero nel movimento riformatore molte prese di posizione ideologiche contrarie alla psicoanalisi, sia stato proprio il ’68 a fertilizzare il terreno sociale per una vertiginosa crescita delle richieste di analisi e di psicoterapia, e ciò è successo sia a Trieste che a livello nazionale e internazionale. Ciò ha portato ad un sorprendente sviluppo non solo della SPI (basti paragonare il numero di analisti prima e dopo il 1968), ma anche di altri gruppi psicoanalitici o psicoterapeutici, in Italia e all’estero.
Su questo mi limito solo a considerare la progressiva liberazione dell’individualità da costrizioni e soggezioni ad autorità ed istituzioni. Non solo ci è stato strappato di dosso il camice dietro al quale ci riparavamo, ma come tutti gli individui siamo stati scodellati dalle nicchie sociali e istituzionali e dai ruoli in cui eravamo più o meno immobilizzati, ma anche sostenuti. La popolazione si è dovuta così caricare sulle spalle sempre maggiori responsabilità e decisioni che non delega più nè alla Chiesa nè al Partito, ma neppure alla Scienza, nè ad alcuna altra Autorità. Questi pesi fanno vacillare e ciò finisce con il sostenere anche una sempre più diffusa domanda di aiuto sul piano psicologico. E’ difficile non collegare questo sorprendente incremento di richieste con i cambiamenti portati da quel ’68 che – per tutt’altre vie – ha anche permesso il travolgente successo della riforma dell’assistenza psichiatrica.
Bibliografia
Amati Sas, S. (2004) La violenza sociale traumatica: una sfida alla nostra adattabilità inconscia. In: “Ferenczi oggi”. F. Borgogno editore. Milano, Bollati Boringhieri.
Bleger, J. (1967). Symbiose et Ambiguitè. P.U.F. 1981, Paris.
Ferenczi, S. (1933). Confusion of tongues between adults and the child. In: Final contributions to the problems and methods of psycho-analysis. H. Karnak (Books) Ltd., London (1994).
Gallese, V. (2024) Cosa significa essere umani? Raffaello Cortina, Milano.
Levi Strauss, (1967) Mythologiques II. Du miel aux cendres. Mitologica II. Dal miele alle ceneri, trad. di Andrea Bonomi, Il Saggiatore, Milano, 1970.