La Cura

“Sull’intersoggettività del transfert” di R. Galiani

9/12/21
Sull’intersoggettività del transfert. R. Galiani

KEITH HEARING, 1985

Keywords: Cambium; Estraneità; Paradosso; Passione; Problema

Abstract: Dal 1895 ad oggi sul transfert sono stati scritti oltre duemila lavori; alcuni hanno provato a renderne conto interpretandolo come un insieme di fenomeni codificabili o addirittura misurabili, altri ne hanno esaltato affascinati una matrice passionale. Iscrivendosi in una linea di ricerca che ha mostrato la convergenza delle caratteristiche di problematicità e paradossalità, queste righe pongono l’accento sull’intersoggettività vitale del transfert.

Sull’intersoggettività del transfert

Riccardo Galiani

per Celestino Genovese

È opportuno ricordarlo subito: scrivendo di psicoanalisi, si scrive spesso di transfert. Si tratta ormai quasi di un’evidenza e richiamarla in apertura di queste note non equivale a dichiarare preliminarmente che in psicoanalisi “tutto è transfert”, o che quanto si sta per leggere è all’insegna di questa convinzione. Ricordare subito che spesso si scrive di transfert può al limite valere come un modo per ricordare che qualcosa di quel fenomeno che da Freud in poi ha imposto un cambiamento nell’uso del termine “transfert” è dappertutto.

“Quel fenomeno che … ha imposto un cambiamento”, affermazione che sembra andare da sé; ma da cosa è determinato il fenomeno? E in che modo Freud e la psicoanalisi hanno trasformato ciò che prima di loro prevalentemente si intendeva quando si diceva Übertragung, transference, traslazione, transfert? Se non è un fenomeno psicologico nuovo (di “transference of feelings” nel 1892 aveva ad esempio scritto Sully) e se non è nuovo, rispetto all’avvento della psicoanalisi, nemmeno il tentativo di metterne a fuoco i movimenti e i moventi (basti pensare a quanto avrebbe fatto risaltare Lacan del Simposio platonico), la domanda sensata potrebbe allora essere: cosa accade di nuovo nel transfert a partire dalle scoperte freudiane? Nonostante si ritenga chiaro e di immediata comprensione il senso attribuibile a certe affermazioni che lo riguardano, nonostante lo si chiami in causa con prontezza, nonostante il suo essere oggetto di innumerevoli trattazioni (dalle tesi di laurea “copia e incolla” alle ricerche più raffinate), “transfert” fa insomma problema. In privato Freud fu ancora più drastico: il transfert è “una vera e propria croce”, scrisse il 5 giugno 1910 aPfister.

Invitare a considerare in un lavoro che si vuole introduttivo la natura problematica del transfert può avere l’effetto di un invito a infilare la mano in un calderone: “il calderone di significati che caratterizza attualmente la nozione di transfert” (Filippini, Ponsi, 2008). Se l’effetto sarà d’invito, quest’ultimo è però motivato dalla convinzione che sia ancora possibile estrarre elementi che resistono, lasciandosi quindi ancora identificare come distinti.

La messa in evidenza di elementi resistenti, costanti nel loro segnalarsi come distinti – comparendo ad esempio con regolarità lungo gli ormai oltre cento anni di letteratura psicoanalitica dedicata al transfert (cfr. Galiani, Napolitano, 2016) – può suggerire che quanto definiamo “transfert” risponde ad una condizione “problematica” perché necessariamente problematizzata. È ponendosi il “problema del transfert” che l’analista, agente e garante della situazione analitica, vi ricorre interpretativamente, lo “usa” terapeuticamente, continuando al tempo stesso ad alimentarlo con la sua presenza.

Prima di mostrare l’elemento resistente del transfert isolato per questa occasione – l’intersoggettività del transfert – compirò un rapido passaggio preliminare.

Passaggio preliminare

Per capire di cosa parliamo quando parliamo oggi di transfert è vantaggioso disporre di conoscenze atte a formare un’idea della maturazione, del progressivo cambiamento delle tesi freudiane. Per mantenere la loro efficacia, queste conoscenze non possono essere troppo ridotte o sintetizzate; mi limito pertanto a dare due indicazioni per coloro che di queste conoscenze ritenessero di essere privi: la voce “transfert” della Enciclopedia della psicoanalisi firmata da Laplanche e Pontalis (1967) e le pagine iniziali de Il problema del transfert, di Lagache (1951).

Intersoggettività del transfert

Laplanche (1987) ricordava come da un certo momento in poi la risposta alla domanda “cosa c’è di specifico nella psicoanalisi?” fosse divenuta: la situazione analitica. Il momento cui Laplanche fa riferimento va collocato agli inizi degli anni ’50. Sono gli studi di Ida Macalpine (1950), la loro ripresa da parte di Daniel Lagache e la collocazione da parte di Lacan (1951) dell’analisi all’interno della dimensione del “dialogo intersoggettivo” a sancire, più che determinare, il “divorzio ufficiale” (Laplanche) tra analizzato e transfert: il transfert non è effetto della (pre)disposizione del paziente, ma è qualcosa di prodotto in misura significativa dal contesto o situazione analitica.

In essa le nuove relazioni tra la persona dell’analista e la persona del paziente si strutturano a partire da una rimessa in movimento delle identificazioni inconsce; un’opposizione tra “qui ed ora” e “lì ed allora” (l’infantile) è pertanto fuorviante: “la dinamica analitica si dispiega nell’oscillazione tra il presente di una relazione e la storia individuale o il passato di quella storia che esita a divenire tale” (Balsamo, 2015; cfr. anche Pontalis, 1989 e Cupelloni, 2008). Attraverso la relazione personale, la consapevolezza dell’analista di dover sempre intendersi anche, nella sua posizione di interlocutore, come “qualcun altro”, crea uno spazio per un che di “impersonale”, di “estraneo” ad entrambi.

Gribinski e Ludin (2005) ricordavano che nell’idea “profana” del transfert come assimilazione, da parte del paziente, delle relazioni significative della propria infanzia alla “relazione” con l’analista, vi è sì del vero, “ma essa nasconde quel che di strano e di estraneo vi è nel transfert, la sua ‘follia’ in analisi”. Pur non chiamandolo “follia”, il quoziente di estraneità del transfert era ben presente allo stesso Freud, che fino alla fine non ha nascosto la meraviglia al cospetto del transfert (Le Guen, 2008).

Per multiformità, intensità e carattere, il transfert è un fenomeno di cui si è non a caso spesso discusso sia (come ha fatto Lacan, specie nel settimo seminario) in rapporto ad una possibile identità con quello che per Freud è un caso particolare, ossia l’amore di transfert, sia per valutare l’opportunità di pensarlo più con il modello del funzionamento psicotico che di quello nevrotico (cfr. p. e. Fédida, 2002).

Il posto che occupa la questione dell’amore di transfert è emblematico; come ricordava già Lagache (1951), è la situazione, più che la persona dell’analista, ad essere implicata nella genesi dell’amore di transfert. L’accento sulla sua natura di “caso particolare”, incontestabile nei termini in cui Freud espone l’amore tutto sommato come passione dell’innamoramento, non annulla però la suggestione derivante da una circostanza: proprio quando sancisce il passaggio del transfert da “ostacolo” a potenziale “migliore alleato”, in una nota del 1923 al “Frammento di un’analisi d’isteria”, Freud rimanda non allo scritto sulla dinamica del transfert, ma appunto a quello sull’amore di transfert, che per altro chiude gli “scritti tecnici” (Freud, 1901; Suchet, 2015). Rimandare a questo scritto significa rimandare all’esperienza la cui potenza affettiva meglio rende conto del legame consustanziale tra transfert e ripetizione, facendo del primo, in quanto elemento attuale (cioè presente e in atto: the pressant, come Joyce definì il presente), il più potente alleato della cura. Nella potenza affettiva, nell’attualità della passione non di rado pressante del transfert, risiede l’adeguatezza dell’immagine proposta da Freud al pastore Pfister: il transfert è una croce. O come diceva Fédida (2007), è un processo selvaggio.

Un’esperienza, un tragitto “di passione” in cui gli “io” coinvolti, gli “io” non solo dei pazienti, sono costantemente a rischio nella loro funzione sintetica. Porre l’attenzione sulla debolezza dell’io (dell’io dei due protagonisti) nella situazione analitica serve a ricordare che tutti i singoli fenomeni che fanno “un” transfert sono effetti di un dominio del processo primario di cui solo la garanzia della dimensione di estraneità (nei termini richiamati con insistenza da Fédida: 1982, 1995), può rendere conto.

Laplanche (1987) sosteneva che fosse impossibile parlare del transfert senza tenere conto che si tratta di un fenomeno accessibile –e “producibile” – solo a determinate condizioni: dissimmetria della relazione, neutralità dell’analista, non intervento, primato assegnato alla parola e all’immaginario rispetto all’azione, oltre ad altre condizioni dall’apparenza più “organizzativa”.

Da ciò deriva un’esigenza da ritenere inaggirabile, specie per chi al fenomeno del transfert intende avvicinarsi immaginandosi all’interno di una specifica situazione psicoanalitica e nella posizione di produttore o di provocatore del transfert (come avrebbe appunto detto ancora Laplanche, 1987): quella di guardare al transfert attraverso una lente che -come l’elemento “intersoggettività del transfert”- aiuti a coglierne la natura di organismo vivente.

Il riferimento freudiano al cambium può quindi intendersi come una maniera per sottolineare che il “sistema transferale” (Bonnet, 1991), non è dato preventivamente, ma sopravviene, reagisce, dal momento in cui alcune condizioni di base sono rispettate: “la malattia del paziente che prendiamo in analisi … continua a crescere e a svilupparsi come un essere vivente … La traslazione diventa paragonabile alla zona di cambio fra il legno e la corteccia di un albero, dalla quale deriva la formazione di nuovi tessuti e l’aumento di spessore del tronco” (Freud, 1917).

Alla domanda “Cos’è per lei il transfert?”, nel corso di un’intervista Green (2006) rispondeva: “in fondo siamo sempre in attesa di un possibile ricettacolo su cui possiamo far funzionare l’illusione di essere compresi, amati, difesi, e ciò creando al tempo stesso in noi questo rifiuto del riconoscimento della dipendenza di fronte a colui o colei in rapporto a cui nutriamo la speranza”.

“Transfert” è il nome di una condizione di costante formazione di “nuovo” attraverso la costante attesa di un altro-ricettacolo su cui far funzionare la stessa illusione che ci ha aperto la porta del mondo, quella che trasforma un neonato umano da un essere-senza-aiuto (Hilf-los) in un infans e poi in un bambino. Se è questo ciò che il nome transfert riassume, non meraviglia che la situazione analitica, “lasci, senza stabilirla necessariamente … la possibilità per l’analista e l’analizzato di essere confrontati alla po

tenza di un’esperienza intempestiva, sconcertante” (Pontalis, 1970). Né dovrebbe meravigliare che nelle attività di riflessione e di ricerca che assumono il transfert come oggetto tornino con insistenza interrogativi irriducibili ad una risposta in grado di fungere da strategia operativa (“il transfert si lavora così, si analizza così, si insegna così, si codifica così …”) o adatta a sancire una valutazione dei fenomeni di transfert in termini dicotomici: sono veri versus sono reali. Come ha scritto Francesco Napolitano (2011), la natura del transfert è quella di un paradosso “destinato a sopravvivere a tutti i tentativi di emendamento, perché costitutivo della psicoanalisi”.

Paradosso talmente costitutivo che non si può valutare a pieno il valore di questa componente della situazione psicoanalitica che risponde al nome di “transfert” considerandola se stante, ossia senza considerarla insieme a ciò che, più che come “contrario”, vale da contro-partita (Wolf-Fédida, 2007).

Ho avuto frequentemente prova della ragionevolezza di una tesi, sostenuta a più riprese (per esempio da Michel Neyraut) e che è stata riassunta da Bonnet con una concisione che, al punto in cui sono, è preziosa: “prima di qualunque transfert v’è sempre del contro-transfert nell’aria”. Questa formula può valere soprattutto per dire che l’analista crea lo spazio per il legame con un paziente, con ogni paziente, a partire dal legame della propria analisi (cfr. anche Russo, 1998). È da questa sorta di rovesciamento dei resti del proprio transfert, resti fatti ugualmente del contro-transfert del proprio analista, che si crea la disposizione a sollecitare e accogliere – con “neutralità” – l’investimento transferale di un nuovo paziente-analizzante (participio presente attivo più adatto del gerundio); un investimento che sarà raddoppiato da un contro-investimento alimentato anche da un moto che arriva da altrove.

Chiudo così queste note sul transfert; sono incompiute, in attesa di uno spazio per la contro-partita del contro-transfert, e per un contro-autore.

Riferimenti bibliografici

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