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“Contenimento dell’aggressività in adolescenza” F. Petrì e C. Ricciardi

2/05/23
“Contenimento dell’aggressività in adolescenza” F. Petrì e C. Ricciardi

Parole chiave: Psicoanalisi, Adolescenza, Aggressività.

Centro Napoletano di Psicoanalisi

Nodi in Psicoanalisi

“Contenimento dell’aggressività in adolescenza”

Fiorella Petrì e Cristina Ricciardi

discutono con:

Cinzia Carnevali e Chiara Rosso

Presentazione del libroAdolescenti Oggi. Multidimensionalità dei fattori terapeutici: clinica psicoanalitica ed estensione a Gruppi e Istituzioni

A cura di Cinzia Carnevali, Paola Masoni, Daniela Marangoni

Alpes editore (2021)

Per il ciclo Nodi in Psicoanalisi, sabato 25 febbraio 2023, al Centro Napoletano di Psicoanalisi, si è discusso sul tema “Contenimento dell’aggressività in adolescenza”. Fiorella Petrì e Cristina Ricciardi hanno dialogato con Cinzia Carnevali e Chiara Rosso, a partire dal libro “Adolescenti oggi. Multidimensionalità dei fattori terapeutici”, a cura di Cinzia Carnevali, Paola Masoni, Daniela Marangoni.

Fiorella Petrì

“Aggressività: una risorsa vitale

tra autocreazione e bisogno di esistere per l’altro”

  Ringrazio Cinzia Carnevali e Chiara Rosso per averci dato l’opportunità di riflettere insieme, qui al CNP, sull’adolescenza: la generazione tsunami come ultimamente ho sentito chiamarla.

In questa occasione, mi soffermerò sul loro articolo: L’analisi di due adolescenti tra aggressività e contenimento, presente nel libro Adolescenti oggi (a cura di) Carnevali, Masoni e Marangoni.

Lavorare con gli adolescenti è una specie di “palestra” che ci costringere ad affrontare percorsi sempre diversi, soprattutto se consideriamo l’adolescenza come un tempo di passaggio e le modalità adolescenziali, anche le più estreme, come quelle aggressive (rivolte agli altri o al proprio corpo) come un tentativo, confuso, a volte inquietante, di ricerca di aspetti di sé inespressi e di autocreazione, pensiamo, ad esempio, ai tatuaggi, ai piercing, o all’anoressia. Di certo, gli agiti aggressivi e rabbiosi denunciano una fragilità narcisistica, ma allo stesso tempo li possiamo guardare come una risorsa vitale, per riuscire a differenziarsi ed affermare e difendere la propria soggettività in fieri.

Una cosa è certa: gli adolescenti hanno un gran bisogno di essere “visti” ed ascoltati, accolti anche se si presentano con aspetti a volte incongrui, contraddittori, aggressivi, provocatori, ma anche creativi ed originali, ciò equivale a dire che hanno bisogno di esistere per l’altro. A volte, si vergognano di avvertire questo desiderio e si arrabbiano con loro stessi sentendosi inadeguati, quante volte abbiamo sentito dire: “valgo meno di niente”, “sono nessuno”, “Dottoressa, non c’è niente da capire: sono sbagliatooo/aaa!”.

 La presenza degli altri, soprattutto dei coetanei e lo sguardo che si pone su di loro, rende alcuni adolescenti estremamente ansiosi, anche se, a livelli più profondi, è proprio l’ansia o il penoso sentimento di vergogna, a segnalarci l’estremo bisogno di uscire dallo stato d’invisibilità in cui si sono sentiti relegati sin dall’infanzia, perché è mancato uno sguardo tenero, amorevole, nutritivo, per il loro fragile senso di sé. Mi verrebbe da precisare: è mancato uno sguardo rispecchiante in cui riconoscersi, ma anche uno sguardo dell’altro che abbia offerto un’occasione di apprezzante differenziazione.

Quest’ultima carenza è molto evidente nei casi emblematici di E. e di K. di cui ci parlano Cinzia Carnevali e Chiara Rosso. Le analiste si sono sentite investite, sin dal primo momento, dauna nube di frammenti psichici” in cerca di contenitore, immagine questa, che ho trovato suggestiva e rappresentativa del disorientamento che l’analista, prova, a volte, con certi pazienti adolescenti, soprattutto con quelli, come E. e K., bloccati nel loro sviluppo psicosessuale, che tendono a rivolgere l’aggressività al proprio corpo attraverso il cutting.

 La nostra risonanza con questi adolescenti, come vedremo anche nei casi clinici descritti, oscillerà costantemente tra il corporeo e lo psichico. Soprattutto, inizialmente, nell’incontro analitico la nostra risonanza corporea è un aspetto piuttosto dominante: qualsiasi segno di vitalità, qualsiasi nostro cambiamento fisico, suscitano nell’adolescente angoscia e fantasie catastrofiche perché segnalano la separatezza. Separatezza che viene avvertita come minacciosa, da qui la spiacevole sensazione dell’analista di sentirsi costretto ad assumere la posizione di un elemento invariante, silente dell’ambiente, una sorte di soprammobile, che viene a far parte della cornice del setting.

Pensiamo all’analista di E. che ci racconta di essersi sentita inchiodata alla poltrona, incatenata dallo sguardo esplorante intrusivo della paziente.  Questa ragazzina di 15 anni, sin dal primo incontro, ha veicolato la necessità di fondersi con l’oggetto in un legame simbiotico distruttivo. Queste le parole della Collega: E. “cercava a forza uno spazio per annidarsi e salvare qualcosa di sé all’interno di me… congelando la mia personalità e utilizzandomi solo come corpo ospitante”.

L’analista si sente azzerata nella sua soggettività e spesso anche minacciata nella possibilità di formulare pensieri nel qui ed ora che avrebbero implicato una separatezza. E. è portatrice di un desiderio antico: immobilizzare l’oggetto/analista, così come avrebbe voluto fare con la madre descritta dalla collega: come una madre eccessivamente assente e inadeguata.

Anche K. bambina non desiderata, da adolescente in analisi, con il suo sguardo onnipotente sembra sottoporre l’analista ad una radiografia dall’alto e ponendola molto in basso le fa avvertire una percezione corporea di forte calore e disagio, in seguito pensata come l’esito dell’identificazione proiettiva di uno scottante sentimento di vergogna. Ed ancora. L’Analista scrive: “avverto una fantasia di reinfetazione, un bisogno di incistarsi con lo sguardo, nel mio corpo-mente …con sorpresa mi sento invasa da una strana sensazione di vuoto, di appannamento, quasi di vertigine e mi viene di tenermi ferma alla sedia.”

Insomma, nella terapia con gli adolescenti le prime comunicazioni avvengono attraverso il dialogo tra corpi: l’adolescente con il suo corpo parla al nostro.[1] Riccardo Lombardi (2016)[2],  precisa che il corpo dell’analista diventa una sorta di “membrana timpanica con finalità riceventi”.Quindi,sono le nostre risposte di controtransfert somatico che ci permetteranno di rintracciare nell’adolescente quelle esperienze sensoriali presimboliche di origine traumatica perché, come sostengono molti Autori[3], non accolte in un rapporto primario sufficientemente buono e che finiscono per essere incistate, come in una bolla, nell’inconscio non rimosso, impedendo che avvenga il travaglio trasformativo delle sensazioni in emozioni e in pensiero. Non è un caso che, le due adolescenti E. e K., presentavano come sintomi, a inizio analisi, una paralisi del pensiero e agiti autolesivi. Forse, quando ci troviamo davanti a questi casi, dovremmo condividere con Winnicott la fiducia nella tendenza innata verso la crescita e verso l’evoluzione personale, nonostante il blocco dello sviluppo che, comunque, dobbiamo cogliere come una sfida, e le nostre colleghe ce ne hanno dato un significativo esempio, perché, come ci suggerisce Winnicott, più che curare, si sono prese cura di queste due giovani pazienti.

Ma veniamo ora all’aggressività degli adolescenti, la cui integrazione rappresenta la sfida più impegnativa in cui veniamo ingaggiati, se ne intravediamo la possibile trasformazione in forza vitale per l’autoaffermazione di sé. Forse dobbiamo innanzitutto distinguere tra aggressività positiva/ costruttiva, e aggressività negativa/distruttiva. 

Partiamo da quest’ultima, che si manifesta con atti violenti che mirano a rendere l’altro una cosa, al fine di svuotarsi della capacità di pensare e soffrire, in sintesi, si tratta di un’aggressività de-oggettualizzante e de-soggettualizzante. Pensiamo, ad esempio, a quegli adolescenti che sentendosi soli, insicuri ed impotenti, cercano, aggregandosi, un modo per avvertirsi meno fragili e più autonomi rispetto al mondo adulto, di cui negano la dipendenza, ignorando i limiti e aggrappandosi all’onnipotenza. Di solito, questi ragazzi scelgono, un “capo”, quello che percepiscono come il più forte e dominante, il più aggressivo, e lo seguono in maniera a-critica e imitativa anche per sfuggire al senso di colpa. In questo caso più che di un gruppo, ci troviamo davanti ad un branco, che trova attraverso l’antagonismo verso altri coetanei, e non solo, la sua coesione interna. Gli atti di bullismo, lo sappiamo, rappresentano un modo per liberarsi dal senso d’impotenza, di passività, di paura, di insicurezza e fragilità proiettandola nell’altro, attaccato senza pietà. Donald Winnicott ci ha sollecitato a guardare gli agiti antisociali come la conseguenza di una deprivazione avvenuta in un’epoca dello sviluppo in cui il bambino, pur avendo fatto in un primissimo tempo esperienze di cure sufficientemente buone da parte dell’ambiente, ne ha sofferto, in seguito, la perdita. In quest’ottica Winnicott(1965)[4], pone l’accento sul fallimento ambientale, per cui la patologia riguarda l’ambiente, e, solo secondariamente, il bambino e l’adolescente. I loro comportamenti denunciano che l’ambiente, nei loro confronti, è in debito di qualcosa e che i loro agiti violenti sono una richiesta di essere risarciti e compensati del danno che hanno subito, di ciò che è stato loro sottratto, anche se di questo ne è rimasta solo una debole traccia nel ricordo. Nell’ottica winnicottiana gli atti aggressivi/ antisociali sono una disperata soluzione per fronteggiare un crollo depressivo potenziale.

Anna Maria Nicolò – in Rotture evolutive(2021)[5] – ipotizza, inoltre, che l’aggressività distruttiva, e i gesti e i comportamenti violenti con cui si manifesta soprattutto nel periodo puberale, possano rappresentare una rivolta contro la passivizzazione indotta dalle intrusioni alienanti delle fantasie dei genitori relative non solo all’identità nel suo insieme, ma anche all’identità di genere, e finisce per essere un modo per mantenere lontana l’angoscia relativa allo sviluppo psicosessuale.

        Il self cutting

A proposito di aggressività, vorrei ora dire qualcosa sul comportamento autolesivo presente in tutte e due le adolescenti seguite dalle colleghe: il self cutting.

Mi sembra che la condotta autolesiva di E. rientri in quei casi in cui l’adolescente sembra doversi punire per l’essere vivo.

 E., infatti, pensa alla morte come unica soluzione, questo pensiero invasivo viene espresso nei suoi disegni, in cui predominano i grigi e i neri. E. svela all’analista, tra l’altro, di essersi avvicinata ad un tentativo di suicidio. Ma punirsi di cosa? Di essere nata? Di essere la causa della separazione dei genitori? O di non essere riuscita ad avere una funzione riparativa nei confronti dei lutti familiari inelaborati?  Come dice la Collega. Questo accenno ai lutti familiari inelaborati rimanda alla potenza del transgenerazionale che viene affrontato nell’articolo Dare un taglio al dolore di Carnevali e Masoni. Ne faccio solo un breve accenno. In questo articolo le Autrici ci sollecitano a prestare grande attenzione alla storia familiare di ciascuno dei membri della coppia, che nascondono sempre un doloroso sentimento di perdita o relazioni conflittuali con i propri genitori, quindi i nonni dell’adolescente, e anche nella storia di quest’ultimi, si può scoprire che anche i bisnonni hanno sofferto di relazioni genitoriali problematiche e gravemente carenti. Da qui possiamo supporre che nella coppia dei genitori la nascita di un figlio diventa la realizzazione di una fantasia salvifica, dal momento che dovrebbe sanare antiche ferite.

Il problema è come ci si separa da un figlio e riconoscerlo come soggetto e promuoverne la crescita e l’individuazione se ci si aggrappa a lui/lei, inconsapevolmente, per colmare un antico vuoto personale? Ed ancora, come il tipo di genitore di cui stiamo parlando può tollerare quella quota di aggressività che spinge l’adolescente ad affermare la sua soggettività per differenziarsi?

Tornando ad E., ho immaginato la sua crescita in un clima familiare depressivo, disattento, conflittuale tra i genitori, che hanno finito per separarsi, anche se poi li ritroviamo uniti nell’allarme per la sintomatologia della figlia. L’odio per il proprio corpo, in questo, come in tanti altri casi, segnala quanto il bambino prima, e l’adolescente poi, non abbiano avuto la possibilità di interiorizzare un buono oggetto, con una funzione di contenitore, ma, piuttosto, hanno avuto l’esperienza di un oggetto colonizzante. La funzione contenitiva dell’oggetto è indispensabile per poter accettare di abitare un corpo in trasformazione che sta subendo cambiamenti legati alla pubertà e alla crescita, un corpo nuovo e sessuato.  Il tagliarsi allora può rappresentare una comunicazione non verbale ai genitori in cui l’adolescente esprime, come evidenziano Carnevale e Masoni, il bisogno di odiare per far fronte alla lotta alla sua emancipazione e, al contempo, rendere impotenti i genitori con la sua tendenza a danneggiarsi.

Anche nel caso di K.i tagli esibiti sono l’espressione del suo bisogno di essere vista e risuonano come un “urlo” per essere aiutata.Mi colpisce l’odio dilagante di questa adolescente che fa supporre all’analista che il suo mondo interno sia occupato da un oggetto primitivo mortifero persecutorio, una madre che puzza di cadavere, come dice la paziente, una madre resa cadavere dal suo stesso odio, per non aver desiderato la sua nascita, per non essere stata oggetto del desiderio materno. Possiamo immaginarci quanto questo vissuto sia estremamente doloroso e non c’è da meravigliarsi se le condotte autolesive e devianti di K. vengano viste, dall’analista, come una difesa (maniacale) da una profonda depressione. Però forse c’è anche un’altra ipotesi da prendere in considerazione: e se il self cutting, i tatuaggi, i piercing fossero anche un tentativo autocreativo, lì dove l’holding primitivo originario è stato estremamente carente? Secondo Anzieu (1985)[6] per questi adolescenti chiudersi in un reale involucro di sofferenza è un tentativo di dare senso alla propria esistenza ristabilendo la funzione di pelle contenente non esercitata dalla madre o dall’ambiente. Come se dicessero: questo corpo è mio, lo creo io e ne faccio quello che voglio! Questo atteggiamento nei confronti del proprio corpo è molto simile a quello delle pazienti anoressiche, in cui l’attacco al corpo e il disagio fisico che ne deriva, mette a tacere, nega il dolore mentale, impossibile da esprimere in altro modo.

 Come analisti abbiamo il compito di accogliere la comunicazione celata in ogni agito e di aiutare l’adolescente a scoprirne il significato profondo per riuscire a tradurlo in pensiero. Tuttavia, è molto importante rintracciare nell’adolescente, anche se tra le righe, in maniera silente, la voglia d’imbarcarsi nell’avventura della scoperta di sé, e che, prima o poi, mostri curiosità, interesse per le sue associazioni, i sogni, per i bozzoli di pensiero che inizia ad esprimere. Ovviamente, questo percorso di autoconoscenza nell’adolescente è rinforzato dalla nostra capacità di entrare in contatto con le sue angosce, paure, rabbie. Solo attraverso una risonanza emotiva attenta, fiduciosa, viva, che si avvalga anche del ricordo dei nostri stessi vissuti emotivi adolescenziali, possiamo sperare di dar vita ad un processo di crescita e di cambiamento. 

Cristina Ricciardi

“Contenimento dell’aggressività in adolescenza”

R. Cahn (2003), come tanti autori, che si sono occupati della psicoanalisi dell’adolescenza, sottolinea “l’importanza di questo periodo della vita, vero crocevia, a partire dal quale il soggetto sceglierà una direzione piuttosto che un’altra e che perciò determinerà il suo destino”.

L’ adolescenza, vera metamorfosi, irrompe improvvisa, perturba l’equilibrio, l’assetto psichico in atto al momento del passaggio e l’adolescente si ritrova impegnato a confrontarsi, senza essere adeguatamente equipaggiato, con cambiamenti in atto su vari fronti:

     **Le trasformazioni sessuali inaugurate dalla pubertà.

     **La mentalizzazione della sessualità e la rinuncia alla bisessualità e la scelta identitaria.

      **Le trasformazioni del funzionamento mentale.

      **La necessità di operare il distacco dai genitori con la rinuncia al loro contributo sul versante anaclitico e narcisistico e provvedere, per così dire, alla costituzione di un nuovo assetto narcisistico che possa sostenere il percorso verso l’autonomia.

Mi appoggio, intanto, ai cambiamenti nel rapporto coi genitori per sottolineare come naturalmente gli adolescenti si avvalgono di un potenziale aggressivo e quindi di un ricorso all’agire, in quanto l’aggressività  è motore in adolescenza per affrontare il compito di separarsi dai genitori (lutto della perdita), sostenere l’odio sano al servizio della autonomia, per sottrarsi alla eventuale tendenza dei genitori ad ostacolare tale processo e a non riconoscere l’altrui alterità mantenendo il figlio come oggetto proprio e contenitore delle loro difficoltà da cui l’adolescente deve affrancarsi.

 Il riferimento è all’agire nella sua funzione, per dirlo con le parole della Birraux (1990) di “eclissare l’attività fantasmatica dell’infanzia, di obliterare le penose rappresentazioni autoerotiche, offrendone un compromesso esteriorizzabile, e di permettere secondariamente la riappropriazione di queste rappresentazioni e la loro elaborazione, in un momento successivo in cui si ha il tempo di mobilitare le difese adeguate e rendere meno traumatico l’incontro con il mondo interno”.

     Nell’esperienza con adolescenti sarebbe, quindi, innaturale non doverci confrontare con condotte agite dal momento che, l’agire rappresenta, tra l’altro, un meccanismo, fase specifico, dell’adolescenza al servizio dell’Io, collegato “al bisogno della sperimentazione che domina la scena prima di essere superato dall’attività anticipatrice del pensiero e dell’attività ludica nella fantasia” (Blos 1963).

     L’agire non è solo un meccanismo intrasoggettivo avulso dalla relazione con l’oggetto. Jeammet sottolinea proprio l’importanza del ruolo dell’oggetto esterno e della relazione dell’adolescente con esso quando definisce l’agire in adolescenza una risposta possibile all’antagonismotra bisogno dell’oggetto, che riaccende la paura della dipendenza, e la necessità di garantire l’integrità del Sé. “L’agire ristabilisce dei limiti differenzianti con l’oggetto e, in un movimento di esteriorizzazione, respinge al di fuori ciò che minaccia il soggetto dall’interno, in particolare la sua appetenza per l’oggetto. In questo ha una funzione antiintroiettiva, antirappresentativa e dunque antisimbolizzante. Va altresì considerato che l’agire rappresenta un modo di figurazione e, a questo titolo, può essere considerato come una pre-forma della simbolizzazione. Una delle funzioni dell’agire è quella di consentire all’adolescente di conoscersi alla luce dei suoi atti” (Jeammet 1989).

      Jeammet sembra negoziare con  l’ambiguità dell’agire, tanto più se diventa una condotta privilegiata che tende ad organizzarsi nel tempo; lo considera un cattivo mezzo di figurazione che si oppone alla simbolizzazione: un freno alla comunicazione, un mezzo di scarica di contenuti mentali più che di spostamento; un attacco al lavoro della loro messa in rappresentazione, fino all’eventuale annientamento del loro senso mentale; tuttavia l’agire offre all’adolescente una possibilità di recupero immediato, a valenza magica, rispetto all’oggetto, di affermazione del suo essere, di salvaguardia della propria identità e dei propri limiti, anche se a prezzo dell’annullamento del legame con l’oggetto e in prima istanza dei suoi desideri relativi all’oggetto.

     L’attacco alla simbolizzazione può cedere, più o meno rapidamente, in ragione delle oscillazioni del funzionamento mentale dell’adolescente, e consente possibili e differenti sbocchi in funzione della qualità di un appoggio di cui l’adolescente si può avvalere sia nelle sue relazioni abituali, (la risposta dell’ambiente) sia in occasione di un primo incontro di consultazione o in corso di una psicoterapia quando ci si dispone ad accoglierlo senza demonizzarlo e a significarlo.

Perché esordire sottolineando la valenza positiva della agire quale strategia naturale messa in atto dall’adolescente al servizio della sua crescita? Uno dei motivi risiede nel dover riconoscere concretamente  tale risorsa, solitamente confutata disprezzata  dall’ambiente, perché, al riparo di ogni deriva superegoica, ci si possa occupare degli eccessi, del loro senso, della loro fonte e del ricercare i vari legami, quale via  per alleviare in primis l’adolescente della deriva che ne consegue  e cioè i sintomi che ingaggiano il corpo o una visione dolorosa di sé fallimentare che sfocia difensivamente nella depressione o in altre derive che ingaggiano il corpo o diversamente la mente. 

Nel suo apparire in terapia l’aggressività può essere 

                         1) agita motoriamente all’interno del setting attraverso una sorta di instabilità che interessa tutto il corpo, come muoversi nella stanza o continuamente sulla sedia (A. alle soglie dell’adolescenza si muoveva in continuazione, sia fuori che in seduta fino a superare i limiti di tolleranza, come a scrollarsi di dosso pensieri e sentimenti, come dirà a terapia avanzata) 

                         2) agita verbalmente come resistenza alla terapia, alla dipendenza nel transfert

                         3) insita nei sintomi che si ripropongono in momenti cruciali e connessi a movimenti caldi della terapia e nella duplice vettorialità auto ed eterorivolta, singolarmente o entrambe.

Siamo allora convocati a vari interrogativi: se la psicoterapia ha il compito proprio di facilitare, assecondandolo, il percorso di riappropriazione, di presa di coscienza e di elaborazione, come si possono valutare il ricorso o la ricomparsa di condotte agite durante la psicoterapia? Quale ne è la fonte e quale la finalità? Quando possono considerarsi come l’unica modalità di comunicazione inconscia a disposizione dell’adolescente per se stesso e nella relazione terapeutica? Quali gli strumenti a nostra disposizione per coglierne il valore comunicativo, collegato più o meno palesemente alla relazione transfert – controtransfert?

Una prima paradossale risposta: la fonte resta insita nel fatto stesso che l’adolescente è in terapia, ed è essa stessa a sollecitare l’agire, quando, l’apertura alla comunicazione di contenuti conflittuali, il sovraccarico di emozioni, di eccitazioni e di pensieri soverchia la capacità dell’adolescente di mettere in moto un adeguato funzionamento mentale per contenerli e significarli. Con l’atto l’adolescente tenta di negoziare col conflitto emergente o di cortocircuitarlo. Sarà cura del terapeuta saggiare se l’acting rappresenta un attacco alla terapia o un momentaneo contenitore di quanto non è pensabile, e rimanere in attesa che si dispieghino le condizioni di ripresa del lavoro psichico, evitando di esplicitare le comunicazioni implicite nell’atto.

Avvicinarsi al senso sotteso dell’atto

Nei momenti caldi della terapia, alla difficile presa di coscienza di sé da parte dell’adolescente (difficoltà a rendere leggibili a se stesso i propri stati affettivi, far fronte al senso di sé svuotato e caotico), ed alla dolorosa percezione di non disporre sufficientemente di processi psichici “auto”, autoerotismi, autosservazione e autoriflessione, l’analista potrebbe rispondere con lavoro riflessivo sul proprio funzionamento, affinato dall’esperienza analitica personale. Potrebbe affidarsi al proprio controtransfert, contattare la propria adolescenza, rivisitare scene o resti della propria adolescenza che possono affiorare e, al vaglio della elaborazione, assumere valore significativo nelle dinamiche controtransferali con il paziente.

Il tutto in accordo con quanto Bollas (2008), a sua volta in sintonia con, tra gli altri, R. Cahn (1998). Ph. Gutton (2000), A. Novelletto (2009), risponde all’interrogativo dei curatori di A & P sulle caratteristiche della sua pratica come psicoanalista con l’adolescente in difficoltà, come egli si rifà al suo naturale mettere in campo il ricordo della propria adolescenza richiamata a essere presente mentre ascoltiamo il paziente. “Tale ricordo, dice, deve essergli comunicato, senza imporre le nostre personali reminiscenze, ma quale esito di un nostro lavoro – “dall’interno del proprio sé” in modo che il paziente si deve sentire intrinsecamente compreso”. – “Questo ricordare è più un rispecchiamento che non un ricordare vero e proprio”….. “secondo il concetto winnicottiano di rispecchiamento, in cui la madre sufficientemente buona rispecchia il bambino in modo tale che egli possa vedere sul suo viso, in modo esperenziale, il vero Sé”.

“I bisogni degli adolescenti richiedono questo tipo di rispecchiamento reciproco e gli analisti che hanno il dono di saper lavorare con gli adolescenti ne sono capaci, mentre chi non lo è finirà per mancarli”.…. La forma del rispecchiamento contiene il proprio modo di essere e di entrare in relazione che coinvolge la postura, la gestualità il modo di parlare e tutte le molte differenti categorie di articolazione inconscia che costituiscono la comunicazione inconscia”. Qui Bollas si riferisce, in modo peculiare nel rapporto con gli adolescenti, alla necessità di sostare nella naturalezza, di avvalersi dello stesso suo linguaggio, anche gergale, senza scimmiottare l’altro e senza depredare l’adolescente della specialità del suo linguaggio, rinunciando ad un registro tipicamente talora.

Bollas sottolinea anche, la naturalezza, ben lontana da falso pudore o da derive di comprensibili timori, naturalezza di cui avvalersi, poter affrontare, cautamente e gradualmente tematiche forti, come sessualità, rischio suicidale spesso sottesi all’agire…. Ciò presuppone una profonda confidenza con le vicende che costellano il percorso adolescenziale.

Affrontare e contenere

In prima istanza entra in gioco il tempo che include una attenta valutazione del funzionamento mentale dell’adolescente in quel momento e quindi il mettere in campo da parte nostra una capacità di attesa che contempli il dispiegarsi nell’adolescente di una funzione, che gli consenta di significare ed accogliere il senso profondo insito nel suo atto, di poterne fruire come una sua graduale scoperta-conquista e non viverla come una sorta di “essere imboccato o forzato”. Mi riferisco soprattutto all’attesa di poter fruire di un preconscio ben funzionante per, tra l’altro, fronteggiare rapidi e violenti passaggi, dall’inconscio direttamente al conscio e, sul piano funzionale attendere, per esempio, che la scissione si riduca e lasci spazio a difese facilitanti pensiero.

Mi sovviene quanto un tardo adolescente nelle fasi iniziali della sua terapia, serio e sconcertato disse “Non mi arrabbio mai ma non capisco perché poi do pugni al muro fino a farmi male”, sollecitando l’idea di quanto l’affetto fosse scisso dall’azione; quanto tempo ha richiesto il riconoscere la propria rabbia e predisporsi a significarla nel rapporto con sé, con l’ambiente e con me in terapia.

In questa attesa ci avvaliamo di un assetto che contempli una funzione contenitiva, una recettività all’evacuazione, una capacità di tollerare un rimuginare (C. Ricciardi 2018), talora ripetitivo, su una stessa tematica, a prendere dentro la violenza, la distruttività, la rabbia narcisistica che saturano il funzionamento della mente, in attesa che il lavoro comune possa favorire l’alleggerimento di tale peso e possa dare la stura alla riflessione e all’auto osservazione, nonché l’assunzione di responsabilità.

Nel frattempo restiamo impegnati nel lavorare e significare-interpretare quanto attiene al mondo interno dell’adolescente, alla relazione con gli oggetti primari e alle vicissitudini di quanto la adolescenza mobilita, nel mantenere interne le interpretazioni che naturalmente affiorano, in attesa che si creino nell’adolescente le condizioni per lavorarci insieme, eludendo il rischio che non vengano accolte o vadano perdute, o di soverchiare l’adolescente stesso.

Nei momenti di empasse ricorrere alla esplicitazione delle interpretazioni non ci viene in aiuto, gli adolescenti non le tollererebbero e   rischierebbero di ingaggiarci in un incontro “corpo a corpo” che potrebbe sfociare in abbandono della terapia. Diventa per gli adolescenti preminente il bisogno narcisistico di affermare se stessi. Per loro, in questi momenti, quanto portano in terapia è la sola realtà; se sono depressi, lo sono “giustamente”, non c’è altra soluzione perché non c’è possibilità di aiuto; le idee che portano restano allora inconfutabili. Cosa fare ci chiediamo? Tenendo presente il funzionamento mentale in atto e il tipo di difese vigenti e ci avvaliamo, nel frattempo, di proporre elementi figurativi attingendo a fonti personali di esperienze di vita e di cultura e di quanto possiamo attingere dal nostro controtransfert.

Ad Es: in momenti di empasse sinceramente ci troviamo a dire: certo in questo momento ci ritroviamo entrambi in difficoltà forse con un alone di impotenza a diversa valenza per entrambi ma restiamo qui ad occuparcene in attesa che il nostro impegno dia frutti. Spesso gli adolescenti stanno parlando della loro relazione coi genitori che si sottraggono e si ritengono detentori della verità e li offendono sollecitando rabbia narcisistica, e questo ci richiede un attento monitoraggio del nostro narcisismo per valutare quanto si può comunicare e in che modo, ricordando che il più cattivo dei genitori non può essere denigrato se non dal figlio che tende a mantenere la speranza di recuperarli come polo affettivo e punto di riferimento.

In momenti di difficoltà, a varia coloritura clinica, tante volte mi è venuto in aiuto Eduardo: tipo “adda passà a nuttata” o “mai più scura da mezzanotte po venì”  da “Filumena Marturano” ed anche in altre situazioni cariche di tensioni o altro naturalmente evocavo immagini da film le cui tematiche si incastravano bene con quanto sotteso ai contenuti della seduta , evocazione di soggetti di dipinti o di proverbi ad hoc il che trasformava, talora, una situazione carica di tensione in ilarità, seguita da abbozzi di pensieri ed evocazioni. Tale modalità richiama il ricorso ad un oggetto terzo che non ingaggia direttamente il paziente e salvaguarda la relazione da rischio di tensione incandescente, ma dà anche la misura di quanto restiamo ingaggiati nel lavoro con loro.

 Altre volte ci viene in aiuto il silenzio, un silenzio direi pieno di una qualità emotiva, restando empaticamente molto vicini al paziente, auspicando che il buon lavoro precedente mantenga la relazione, in attesa di momenti migliori per significare quanto accade.

Non va sottovalutato che il narcisismo del terapeuta è sempre in agguato e rischia di favorire manovre di seduzione, di impossessamento cui l’adolescente naturalmente, tenta di sottrarsi come con i genitori. Anche un tentativo di voler troppo dare, proporci troppo impegnati, può indurre l’adolescente a rivendicare la sua autonomia e una propria   corretta capacità interpretativa e una validità delle sue teorie per fronteggiare il timore di soccombere alla dipendenza.

Rimanere così attenti a non rendere gli adolescenti passivi, assoggettati a noi alla nostra conoscenza alle nostre esperienze, pena rischiare una dipendenza nella regressione con offesa narcisistica. La passivazione, dice A. Green (1982), “E’ lo stato originario del bambino sottomesso all’impossessamento della cura materna, e nuovamente lo stato del soggetto adolescente sottomesso alla pubertà”.

Col sollecitare la passivazione rischiamo una ondata di ribellione narcisistica che indurrebbe anche ad interrompere la terapia. In contraltare neanche passivizzarci noi, tanto più se ipocritamente, ma rimanere lealmente attivi per così dire, scendere in campo facilitando l’apporto reciproco. Questo presuppone un reale, fermo investimento sull’assetto mentale dell’adolescente, sulle sue figurazioni: gli adolescenti hanno bisogno di essere nutriti dall’investimento libidico ed aggressivo dell’adulto adeguato alla loro speciale condizione.

Il nostro intervento tendenzialmente non sarà saturante, esplicativo o assertivo come risultato di una teoria-conoscenza da imporre come dogma ma tenderà ad una apertura, a sollecitare  un loro punto di vista,  tenendo conto del livello del pensiero al momento  e di quanto il loro pensiero sia in grado di cogliere ed appropriarsi in una sorta di confronto che diventi per l’adolescente un confronto con sé stesso fruendo, per così dire, di un “rimuginare”  C. Ricciardi 2018) con una idea, un evento, col disegno, spesso astratto o fatto solo di schizzi, come gli schizzi-prova dei pittori prima di dipingere un quadro; coglieremo lo stato emotivo del momento per significarlo nella relazione e ampliarlo nella sua storia e valorizzarlo; tenderemo a cogliere di volta in volta gli elementi nuovi per quanto sfumati sostenendo cosi la loro creatività  e il loro narcisismo,  non ci porremo nella posizione di sgamarli ma attenderemo che si sgamino da soli; magari tenteremo solo di far cogliere, con leggerezza, contraddizioni o segni di onnipotenza assertive. Soprattutto tenderemo a porci veramente come oggetti diversi dai genitori che accolgono con piacere quanto emerge da loro.

 Potrà avviarsi una relazione che possa sollecitare un’apertura o una domanda nuova, interinfluenza come inter-induzione di pensare, senza che si possa dire ciò che viene dall’uno o dall’altro. Si lavora, seguendo R. Cahn (2014), “come apparato di trasformazione, di legame e di creazione di legame nella relazione intersoggettiva, offrendo un apparato psichico comune, che appartiene alla coppia in quanto origina dal reciproco scambio intersoggettuale e interidentificatorio, che potrà essere, in seguito, introiettato, così da delineare il proprio spazio intrapsichico in pazienti con confini del Sé incerti e instabili; si rende possibile l’attività percettiva, costruttiva e creativa nella quale la figurazione psichica è inclusa ed elaborativa”.

Condivido con tanti autori come, paradossalmente, le interpretazioni, soprattutto quelle di transfert, in certe fasi e in presenza di una certa qualità di funzionamento mentale sono ingombranti e  vanno soppesate. Quello che resta vitale è la possibilità di far percepire che ci siamo, che accogliamo ogni figurazione psichica emergente in seduta, che investiamo con  reale  interesse; che siamo impegnati nel lavoro comune, che sia promotore di idee e pensieri connessi al mondo interno, non vivibile come  arido o minaccioso, e  che  gli adolescenti possano  diventare fieri di scoperte realizzate anche da loro e sostenute dal nostro contributo nella reciprocità.

Questo riguarda una capacità contentiva legata ad una maggiore flessibilità di assetto, che non significa minore impegno, anzi, maggiore impegno analitico interno nel cogliere sfumature nella comunicazione soprattutto quando diventa ripetitiva o al contrario molto rapidamente cambia registro comunicativo. Flessibilità di assetto che mette in moto una capacità ben temperata di attingereal bagaglio formativo e culturale tale da poter virare, in sintonia con l’adolescente, per assecondare l’onda ed impedire che la barca si capovolga e, fruendo di un buon equipaggiamento, possa trovare la direzione per il processo analitico.

Bibliografia:

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C. Ricciardi e M. Sapio: “La valenza comunicativa delle condotte agite nella psicoterapia con adolescenti”. Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza: 65, 19-26, 1998.


[1] Secondo Bleger (Simbiosi e ambiguità,1967, Armando 2018) la fusione simbiotica con l’oggetto – stadio evolutivo primitivo, che precede le posizioni schizo-paranoide e depressiva -preserva, in maniera onnipotente, il fragile equilibrio psichico, e l’altro viene utilizzato come depositario di parti del Sé che non possono essere integrate.

[2] Lombardi R. (2016) Metà prigioniero, metà alato. Bollati Boringhieri, Torino.

[3] Rosenfeld  1987, Ogden 1989, Ferro 2003, Lombardi 2005, Civitarese 2008.

[4] Winnicott, D. (1965) Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1970.

[5] Nicolò A. M. (2021) Rotture evolutive. Pp 208-216, Raffaello Cortina, Milano

[6] Anzieu, D. (1985) L’Io-pelle. Roma, Borla, 1987; Milano, Raffaello Cortina, 2017.

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