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Il gioco di Aisthesis e Psyche tra L. Albrigo, C. Buoncristiani, D. Chianese, T. Romani

6/02/24
Il gioco di Aisthesis e Psyche di L. Albrigo, C. Buoncristiani, D. Chianese, T. Romani

Parole chiave: Immagini, Psicoanalisi, Soggetto, Corpo

Aisthesis e Psiche

a cura di Domenico Chianese

Campisano Editore, 2024

Premessa. Di recente è uscito il volume collettivo Aisthesis e Psyche, preziosa testimonianza del lavoro svolto dal gruppo di studio omonimo, coordinato da Domenico Chianese che negli ultimi dieci anni ha visti riuniti psicoanalisti della Spi, psicoterapeuti e artisti, nella comune convinzione della centralità della dimensione estetica nella nascita e nello sviluppo della psiche. Avevamo pensato di intervistare due tra gli autori di quello che si configura come un catalogo di immagini psicoanalitiche: Leonardo Albrigo e Domenico Chianese. Ma il potere delle immagini evocate ha trasformato il colloquio più che in un’intervista fatta di domanda e risposte in un tessuto comune “tra” i quattro interlocutori partecipanti. Questo scritto ne è il risultato.

All’inizio c’è un bambino che gioca. Come in Immaginando (2010), uno dei libri più iconici di Domenico Chianese, che ci ha accolto a casa sua per riflettere insieme a lui e a Leonardo Albrigo, sulle tracce del gioco tra Aisthesis e Psyche.

Il bimbo in mano ha una trottola. L’ha detto Winnicott (1971) per primo. Qui tra il bambino e la trottola non c’è confine.  C’è un unico piano di concatenamento.

Poi il bambino dice: “Quetto zira…”. L’amico del nonno nell’attenzione congiunta, dopo il gesto indicale e la verbalizzazione, fa notare tangenzialmente al bimbo che la trottola “fa aria”. L’adulto, cioè, non fissa la definizione, ma entra anche lui nel movimento del gioco. Non fa eco al bambino, ma coglie un particolare. Perché un rispecchiamento perfetto blocca e incanta. Mentre loro vogliono continuare a giocare.

Subito dopo il bambino dice: “U… A…”, indicando i tasti di On/Off del giochino. Il dispositivo è binario, ma continuando a giocare “spento/acceso” non sono altro che attributi della medesima sostanza. Due eventi sullo stesso piano di immanenza.

I quattro psicoanalisti nella stanza da qualche parte del loro pensiero avranno evocato il Fort-Da. Chianese è solito dire che ci sono due modi per osservare una farfalla. Il primo è fermarla con uno spillo al modo degli entomologi. Guardarne ogni dettaglio con attenzione. Ma la farfalla è morta. Il secondo è contemplarla ad una certa distanza per seguirne il volo. In questo caso “U…A…” è il volo dell’insieme legato del bambino-trottola, un ritornello musicale che rilancia il movimento.

Il bambino che gioca ad “U…A…” è un’immagine. Per Chianese le immagini non sono fotografie, farfalle appese a un muro da analizzare, ma forme estetiche vive. Sono sia generazione di forma, sia continue messe in crisi dell’assetto stabile, non certo verso il caos, ma verso una possibilità che è una tensione creativa di altre forme. 

Interrogandoci sull’umano “nel gioco tra l’anima e le forme” l’immagine così intesa sembra uno strumento efficace per pensare le nuove malattie dell’anima (Kristeva 1998). Che forse non conviene “acchiappare” come assetti stabili, per cui isolare nuove definizioni, quanto seguirne l’espressione come linee di spostamento. Qualcosa che rimette in moto una potenzialità di trasformazione.

Un po’ come faceva il buon vecchio Holden (Salinger 1951), The catcher in the rye, con quei ragazzini che si avvicinavano troppo al “dirupo pazzesco” nel campo di segale. I ragazzini, non lasciarli cadere, non bloccarli, ma prenderli al volo e rimetterli a giocare.

Anche Christofer Bollas non intende il cacht them before they fall come un “bloccali prima”, ma come un prenderli in tempo per rimetterli a giocare. D’altra parte Phoebe, la sorellina saggia di Holden, qui sarebbe intervenuta ricordando che quel prendere al volo non è neanche un acchiappare ma un “andare incontro”.

Un andare incontro al notturno dell’immagine, in quanto rottura della forma, che genera così virtualità. Che come potenzialità aprono il diurno della parola. Perché il punto è che l’immagine è irriducibile, non si acquisisce mai completamente. Ha uno statuto allo stesso tempo autonomo e non autonomo. Può legarsi alle parole, ma le eccede di continuo.

Come un bambino che non parla ma “parla” alla mamma indicando la trottola. La mamma nominando l’oggetto ha parlato ma non per questo ha esaurito il segno, che è un’intera situazione in movimento. C’è il gesto del corpo del bimbo e c’è cosa se ne fa la madre. L’immagine non è altro che questo impossibile ad essere fissato. D’altra parte l’immagine e il corpo sono fatti della stessa matrice. Proprietà emergenti di una sensorialità complessa e mutante. Il cui senso è sempre negoziato nel divenire con l’altro.

Nel seguire l’immagine infatti cogliamo la trasformazione sempre dopo, in aprés coup.

L’irriducibilità dell’immagine ad una sua rappresentazione la rende singolare, non riproducibile attraverso una copia. Il principio che governa l’immagine non è quello dell’eidos. Non c’è misurazione di uno scarto e di una mancanza tra modello e copia perché il suo parametro non è la somiglianza all’Uno.

Non essendoci un codice precostituito per l’immagine ma una forma di semiosi idiomatica, l’immagine precede la nascita della soggettività. Ovvero: si diviene soggetti in apres coup proprio cogliendo un senso dell’immagine. Ma l’esperienza estetica in quanto tale non si dà ad un soggetto. Lo precede. Lo genera attraverso delle connessioni estrinseche ad esso. Cosicché il senso è una conseguenza dell’esperienza estetica.

Non siamo lontani dalle riflessioni kantiane sul sublime ne La critica del giudizio e dall’interpretazione epigenetica che ne dà Catherine Malabou nel suo libro Divenire forma. (2014).  

Il gesto del bambino che indica il turbinare della trottola colorata è un gesto generatore di soggettività in quanto l’oggetto estetico, la bellezza della trottola, precede il soggetto che ne diviene l’effetto.

La trottola turbina e il corpo del bambino la indica alla mamma. L’immagine è quanto si dispiega nella tensione “tra” i poli. Tensione che attraverso l’immagine genera un simbolo: questo simbolo collega mondi che nella clinica sono mondi interni “conciliati” del paziente e dell’analista. Dunque, l’immagine fa rottura ma fa anche unione e alleanza.

Se l’immagine è sempre all’opera nello spazio transizionale (il momento indicale nell’esempio del bambino con la trottola) esiste uno spazio transizionale proprio grazie all’immagine. Essa continua a produrre un processo estetico (lo spazio-piano di immanenza-gioco) che si colloca “tra” soggetto e oggetto. Quindi un meno di soggettività rende maggiormente accessibile lo spazio aperto dall’immagine: quello stato proprio dell’infans, ma anche del paziente e dell’analista in seduta, nelle libere associazioni o alle prese col sogno, durante un agito o nelle mille discontinuità del processo analitico. Meno di soggettività che produce un movimento paradosso di un più di esperienza.

In termini clinici lo spazio transizionale così si configura sia come dispositivo di produzione di soggettività sia come strumento di mobilitazione e trasformazione. Questa seconda accezione non è una costruzione della separazione tra sé ed oggetto, ma un passaggio pre-soggettivo, che potremmo avvicinare alla O di Bion (1973) o ai Now Moments di Stern (2005).

Rimane da chiedersi se le immagini ci aiutino a cogliere quel traumatico che eccede le possibilità della psiche. Il sensoriale come probabilmente il concetto di rappresentazione in azione, di cui parla Benedetta Guerrini (2021), si potrebbe in questo caso evocarlo attraverso l’immagine lacerata, di cui parla Didi-Huberman in Immagini malgrado tutto (2005). La preposizione “in”, riferita a rappresentazione in azione, non andrebbe allora pensata come moto a luogo. Una rappresentazione che entra in azione oppure una rappresentazione presente nell’azione. Come una casa in campagna. E neanche come complemento di materia. Una rappresentazione fatta di azione.

Ma in un rapporto tra rappresentazione e azione che sia incrociato, per indicare una consistenza specifica. Come quando si dice “in verità”, “in coscienza”, “in Cristo”. L’azione è la lacerazione della rappresentazione e ne rappresenta dunque la verità. Ovvero: qualcosa di eccedente. Un’immagine in azione.

D’altronde anche la parola deborda costantemente in immagine. Non segue mai il canale dell’ortodossia, tantomeno il vocabolario.

Così in analisi ci si astiene sempre più dall’interpretare e dal tradurre l’inconscio. Come se i contenuti “notturni” incontrassero l’accoglienza etica ed estetica dell’analista, che favorisce lo slittamento della parola e dell’azione in immagine. Forse si potrebbe andare al di là dell’interpretazione aggiungendo: “Immaginiamo”.

D’altronde l’arte è il grande interdetto della psicoanalisi istituzionale. Non nel senso dello scrivere di arte, ma di una frequentazione profonda di una dimensione estetica. E in tal senso l’arte si rivelerebbe un contributo prezioso. Dal momento che le nuove forme di sofferenza dell’anima interrogano parti profonde dell’analista. Sono forme che non rientrano negli schemi di un tempo. Lo obbligano dunque a scegliere se rimanere in una posizione di fissità rispetto alle proprie forme o se iniziare ad immaginare. Infatti l’arte è anticipatrice e con le sue antenne sul mondo delle differenze rompe gli schemi della somiglianza a favore di un apprendistato dell’in-forme.

Ma l’immagine può anche chiudersi. Bloccarsi in organizzazioni fisse come nelle perversioni. Quando tutto deve ripetersi uguale, burocratico. Questo non significa che ogni organizzazione è di per sé cattiva, ma proprio perché l’immagine, anche la più deformante, tende sempre ad una nuova organizzazione, a bloccarla solitamente è qualcosa di esterno. La paura della fine, l’angoscia di morte, un eccesso di eccesso lavorano per chiudere i giochi.

Immaginiamo così una trottola colorata colta nella fissità di una fotografia. È una trottola presa in un punto. È ancora una trottola?

Quando invece la trottola gira, nel suo roteare si mostra nelle infinite linee di colore, che sono gli altrettanti vettori di una forza centrifuga, che al tempo stesso la fa girare e stare in piedi in equilibrio.

La trottola si muove insieme al bambino e a noi, in un roteare di immagini che danzano perché si continui a giocare.

Bibliografia

Bastianini T., Ferruta A., Guerrini Degl’Innocenti B. (2021), Ascoltare con tutti i sensi, Giovanni Fioriti Editore, Roma.

Bion W. (1970), Attenzione ed Interpretazione, trad it. Armando, Roma, 1973.

Chianese D., Fontana A., (2010), Immaginando, Franco Angeli, Milano.

Kristeva J, (1998), Le nuove malattie dell’anima, Borla, Roma.

Didi-Hubermann G., (2005) Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Malabou C., (2014), Divenire Forma, Meltemi, Milano.

Salinger T. J. (1951), Il giovane holden, Einaudi, Torino, 2014.

Stern D. N. (2005), Il momento presente, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Winnicott, D. (1971), Gioco e Realtà, Armando Editore, Roma 2020.

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