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“De l’informe aux configurations psychiques” di J. P. Matot. Recensione di C. Rosso

30/03/22
"De l’informe aux configurations psychiques" di J. P. Matot. Recensione di C. Rosso

di Jean Paul Matot

“De l’informe aux configurations psychiques

di Jean Paul Matot

(L’Harmattan, Paris, 2022)

Recensione a cura di Chiara Rosso

In quest’opera di Matot che arriva a breve distanza dal precedente Le Soi disseminé (Il Sé disseminato, 2020 ), ritroviamo  temi a lui cari  come il parallelismo tra i fenomeni della natura, quelli di matrice antropologica e le configurazioni psichiche. Matot si ispira ad una frase evocativa di Egon Schiele : “ Seminavo davanti a loro sentieri possibili” (Je semais devant eux des chemins surmontables) per illustrare le connessioni tra l’opera artistica di alcuni pittori e alcuni aspetti relativi all’ informe della dimensione psichica. Forte della sua lunga pratica con bambini e adolescenti, l’Autore ha sottolineato (2015) la necessità di de-costruire il “contratto narcisistico primario” che tocca in eredità ad ogni nuovo nato. Un contratto che pur assegnando al bambino un posto nella filiazione, nel contempo lo grava di debiti e di zavorre transgenerazionali che possono interferire con il suo sviluppo. Si tratta allora, oltre che di de-costruire, di liberare uno spazio di “incantamento” o di illusione che favorisca la creatività del soggetto in evoluzione. In questo libro Matot, nel riflettere sui passaggi in cui la de-costruzione lascia il posto alla distruttività, risale più indietro, al “tempo della semina”, e sottolinea con parole poetiche il viaggio che compie il seme dalla fertile terra alla piantina in crescita, dal suolo verso la luce. “Seminare rappresenterebbe la condizione prima per la comparsa di una materia resistente, vivente (..) e (il seminare) dovrebbe precedere l’idea stessa del cammino.”(p.10). E dunque proseguendo nel suo solco metaforico, il buon seminatore è colui che tollera i tempi della crescita e sostiene la vegetazione in via di sviluppo. La coltivazione di Matot porta i suoi frutti: attraverso il dipanarsi di una comparazione originale tra la prospettiva artistica e quella clinica, egli accorda uno spazio centrale al concetto di non-differenziato e di informe. Come già aveva messo in luce nel Sé disseminato a proposito del concetto di coemergenza  rifacendosi alla prospettiva teorica di Simondon (2006) secondo cui esistono “coemergenze di livelli di individuazione e del loro contesto ambientale”(p.28),  Matot  evoca la necessità di andare oltre a un modello unicistico della psiche basato sulla differenza tra dentro e fuori e propone come alternativa la pluralità di configurazioni psichiche eterogenee che potranno emergere nel corso dello sviluppo sulla base di un fondo indifferenziato. Il tema dell’indifferenziato ha catturato l’attenzione di autori come Winnicott, Bleger, Bion, di cui Matot rielabora il pensiero osservando però il registro dell’informe o bacino di “potenzialità,” sotto nuove angolature. Ne sottolinea due nature: da una parte l’informe è l’espressione del fallimento di un tentativo di differenziazione, ma dall’altra esso si costituisce come una sorta di riserva psichica vitale e permanente, come fonte di differenziazioni future. E’ uno stato metastabile, in movimento e suscettibile di trasformazione che richiama l’idea della saturazione intesa come segnale di scompenso per il bebé, qualora nelle sue prime interazioni con l’ambiente un eccesso di stimolazioni vada ad interferire coi suoi meccanismi di autoregolazione ostacolandone la capacità di simbolizzazione.  Saturazione/ipersaturazione sono concetti prestati dalla fisica, che Green (1995) evoca-ricorda Matot- riguardo alla formulazione della terzietà come giuntura di processi interconnessi: “i processi primari limitano la saturazione dei processi secondari e il processi secondari quella dei processi primari” (p.42 ). Ma come illustrare o più propriamente dipingere (dé-pendre, come recita il sottotitolo del suo libro) quanto espresso? In un capitoletto nella parte iniziale del libro Matot si dedica all’osservazione di alcuni quadri di Hopper, notando una cesura tra lo sfondo informe della vegetazione che tuttavia trasmette qualcosa di vivo e l’insieme di oggetti, di cose e di personaggi che si stagliano su di esso. Le figure umane dipinte con un certo realismo hanno uno sguardo fisso, congelato, che tradisce una certa vacuità e sembrano aver perso il legame con la vitalità dello sfondo. L’interpretazione personale di Matot relativamente a questi quadri si intreccia con la visione di un modello metapsicologico del funzionamento mentale secondo cui le configurazioni psichiche corrisponderebbero a molteplici livelli di differenziazione/indifferenziazione, in alternanza a sequenze dentro/fuori. La differenza tra ciò che è “interno” e vissuto come proprio e quello che è “esterno” e vissuto come non-sé, rappresentano secondo Matot solo delle “illusioni funzionali” che strutturano il sentimento di coerenza dell’individuo in rapporto alla realtà, ma la complessità psichica implica l’articolazione di co-emergenze tra più configurazioni psichiche individuali e livelli plurimi ed eterogenei di realtà, come ad esempio i contesti culturali (le ontologie dell’antropologo Descola) e i funzionamenti gruppali e famigliari (le alleanze inconsce di Kaës). In sostanza Matot sostiene l’idea di una prospettiva “politopica” della psiche e ribadisce la presenza di un potenziale di individuazione che rimarrebbe attivo nel corso della nostra esistenza. Il pregio del libro di Matot, a tratti denso e difficile in alcune sue articolazioni, è senz’altro quello di mettere insieme più livelli, da quelli prettamente clinici e metapsicologici che punteggiano qua e là tutta l’opera, a livelli di riflessione filosofica e artistica. Senza dilungarmi sulla sua rivisitazione di concetti metapsicologici (cf. il capitolo “Il transizionale e l’allucinatorio”) mi piace segnalare due passaggi. Nel primo, a proposito dell’involucro psichico (enveloppe psychique) egli sottolinea l’opportunità di riferirsi piuttosto ad una “funzione di involucro” sottolineando l’aspetto dinamico del processo. In un secondo momento invece egli riprende il tema dei fenomeni allucinatori intesi come espressione di una simbolizzazione primitiva, come già stato approfondito da Roussillon (1999). L’allucinazione presenterebbe una doppia polarità, espulsiva ma anche messaggera non significando solo lo scacco di una funzione transizionale. In certi momenti l’inaccessibilità ad una configurazione psichica darebbe il via alla comparsa di processi allucinatori con il ruolo di una funzione simbolizzante “palliativa”.(p.81) Sul piano artistico, a proposito del concetto di “figura” in Francis Bacon e del commento della sua opera da parte di Gilles Deleuze (2008), Matot trova un sostegno alla sua teoria nel tentativo del pittore di emanciparsi dalla differenza tra oggetto/soggetto nonchè dalla funzione narrativa della rappresentazione. Scrive infatti Deleuze :“la pittura non ha né modelli da rappresentare né storie da raccontare”(p.65). Del resto, nel sistema filosofico di Deleuze il “caos mentale” rappresenta non tanto un sistema disorganizzato quanto quello non ancora organizzato, un informe che si presta ad una futura messa in forma creativa. Esemplificativa la considerazione di Matot a proposito del destino della “figura”; egli scrive che tanto Bacon quanto Cézanne “sfigurano”, de-costruiscono l’immagine per trovare la sensazione, che si erge come “maestra” della deformazione. Non posso non associare le teorizzazioni di Matot a quanto mi ha suscitato un’esposizione in corso a Milano (Pirelli HangarBicocca) dal titolo Metaspore, ad opera dell’artista americana di Seul, Anicka Yi. In linea con i pensatori contemporanei che sposano modelli di coesistenza tra mondi e saperi diversi l’artista è consapevole di essere al centro di una contaminazione e la sua arte esprime il tentativo- anche provocatorio- di contaminare la realtà circostante. Ella coniuga aspetti legati alle sensazioni visive e olfattive con la microbiologia, l’intelligenza artificiale e la biologia sintetica, discipline che vengono tenute insieme o meglio “ibridate” attraverso opere scultoree surreali e fortemente originali. Tali produzioni artistiche superano le distinzioni tra dentro e il fuori, interno e esterno, vivo e inanimato ed esprimono una co-emergenza creativa che sollecita configurazioni psichiche plurali. Yi promuove la ricerca sui concetti di interdipendenza e ecosistema, basti pensare che tra le opere presentate vi sono lastre di vetro che racchiudono all’interno un ecosistema di batteri i quali attraverso la corrosione e i sistemi metabolici producono forme e colori che ricordano la visione di paesaggi. (Biologizing the Machine). Nel concludere la recensione vorrei sottolineare il respiro trasversale di questo libro che spazia dall’ambito metapsicologico a culture e filosofie lontane non trascurando una dimensione orientale attraverso l’originale connessione tra la clinica di una paziente e l’opera del pittore cinese  Zao Wou-Ki, il quale nel chiedersi : “come si dipinge il vuoto?” conferisce alle sue tele la potenza dell’informe trasmettendo  “ ciò che non si vede, il soffio della vita , il movimento” e trovando tra quiete e caos un armonico equilibrio con l’infinito.

BIBLIOGRAFIA

Deleuze G. (2008) Francis Bacon. Logica della sensazione. Macerata, Quodlibet.

Green A. (2005) Propédeutique. La métapsychologie revisitée. Seyssel, Champ Vallon.

Matot J.P(2015) La sfida adolescente. Roma, Alpes.

Matot J.P.(2020) Il Sé-disseminato. Una prospettiva ecosistemica e metapsicologica. Padova, Bette.

Roussillon R. (1999) Agonie, clivage et symbolisation. Paris, PUF

Simondon(2006) L’individuazione psichica e collettiva. Hoepli

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