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“Flussi vitali fra Sé e non-Sé” di S. Bolognini. Recensione di B. Guerrini Degl’Innocenti

19/11/19

Flussi vitali fra Sé e non-Sé – di Stefano Bolognini

Raffaello Cortina Editore

Recensione di Benedetta Guerrini Degl’Innocenti

Che cos’è oggi per noi la psicoanalisi? Una relazione fra due menti? Un’invenzione a due voci? Una conversazione che dovrebbe assomigliare alla vita reale?  O forse, come Stefano Bolognini suggerisce nel suo ultimo libro, Flussi vitali fra Sé e Non-Sé, è soprattutto la possibilità di scoprire impensabili o impensati passaggi segreti verso l’inconscio in compagnia di un esploratore/co-sperimentatore?

Raccontare un libro di Stefano Bolognini è tutt’altro che facile: per farlo senza tradirne il senso più profondo bisognerebbe saper adeguare, per quanto è possibile, le parole a quello che è il suo stile. Per quanto è possibile perché il suo stile è inimitabile. Lo è non soltanto perché è l’espressione di un’arte antica, che lui ha coltivato e perfezionato nel corso di quarant’anni di esperienza analitica, ma perché è la più felice espressione di quello che Stefano Bolognini è come persona: intenso, attento all’altro, denso nel pensiero e leggero nell’espressione come solo i grandi maestri sanno essere. Parlerò allora di questo suo ultimo libro senza affrontarlo in modo sistematico, attitudine che temo ne svilirebbe la qualità, ma usando piuttosto alcune parole chiave: chiavi che possano facilitare l’accesso al suo pensiero e alla sua idea di psicoanalisi, senza togliere il gusto di leggere un libro che rappresenta anche un’esperienza-in-sé.

La cifra teorica e stilistica di Stefano Bolognini è, prima di ogni altra connotazione, legata alla scelta del linguaggio, prima parola chiave. Quello di Stefano Bolognini è un pensare per immagini unico nel suo genere, che prende un costrutto complesso, quello che usualmente descrive teoricamente o tecnicamente un fenomeno psichico, sempre in qualche modo sfuggente e sostanzialmente irriducibile nella sua essenza all’esperienza che si sforza di descrivere, e lo trasforma in un nuovo oggetto. E questo nuovo oggetto, espressione della più comune realtà che ci circonda, oggetto familiare dell’ambiente umano, assume istantaneamente uno straordinario potere metaforico: diventa qualcosa che solo al sentirlo nominare, istantaneamente, ci fa dire “questo oggetto lo conosco!”. E’ quello che fa Bolognini con le parole: tocca il nostro preconscio e ci offre, ogni volta, l’irresistibile profumo di una nostra personale madeleine.

La comunicazione interpsichica diventa così, nella trasformazione che quasi magicamente sembra operarsi al passaggio attraverso la sua mente, l’ormai famosa gattaiola, dispositivo che l’analisi contribuisce a creare delimitando “un livello funzionale ad alta permeabilità condivisa tra due apparati psichici”. Così come i portici di Bologna diventano 40 km di un “né dentro, né fuori”, “un’area intermedia in cui il sé e il non-sé non si chiedono reciprocamente il passaporto”, come l’interno dell’autobus, in cui può capitare di condividere con sconosciuti “un’esperienza interpsichica della durata di poche fermate”. Tutte felici immagini di una nuova e più umana topografia del Sé. “Le metafore aprono passaggi là dove non sembrava ce ne potessero essere” scrive Bolognini in Passaggi Segreti, libro pubblicato nel 2008.

La metafora che crea Stefano Bolognini però, attenzione, non trasforma l’oggetto della sua osservazione: nella sua mente e nel suo discorso, e quindi nella mente del lettore, l’oggetto teorico e la nuova metafora creata per descriverlo coesistono e coabitano come affluenti di un unico corso. Voglio dire che quello che Bolognini fa con le parole non ha lo scopo di costruire una nuova narrazione ma semplicemente, absit iniuria verbis, avvicinare le parole all’esperienza psichica, non solo del paziente ma, più in generale, dell’Altro. Racalbuto avrebbe detto che Bolognini trova parole che danno anima alle cose.

La seconda parola chiave, che bene emerge anche in questo lavoro, è Relazione. Bolognini in questo libro che fa il punto sulla sua concettualizzazione teorico-clinica descrive come il concetto di relazione, inteso come funzione analitica della mente, ci serva a spiegare come e perché sia possibile che una persona cambi i propri modi di sentirsi, di consistere, di rappresentarsi, di essere, di evolvere e di vivere, anche e soprattutto grazie alla relazione che può entrare in gioco tra due persone. Mostra come questo avvenga attraverso continui “scambi di contenuti interni”, attraverso il passaggio dal mondo interno di uno al mondo interno dell’altro e descrive le modalità con le quali due esseri umani si combinano, in analisi come nella vita, modulando preconsciamente la percezione del Sé e del Non-Sé.

Luciana Nissim (1984) pensava che la relazione che si stabilisce in un’analisi costituisca un rapporto interpersonale che è molto di più e di diverso di un “rapporto tra persone”, che può diventare un rapporto nel quale viene a crearsi un ambito o spazio in cui qualcosa emerge e di cui non sono più padroni né l’uno, né l’altro. Mi sembra che questo modo di vedere si avvicini molto a quella che è un’altra parola chiave del pensiero di Bolognini che vorrei mettere in evidenza, e cioè fusionalità.

Questo è uno di quei concetti che in psicoanalisi ha avuto corsi e ricorsi. Bolognini sembra partire dal presupposto che i confini del Sé non siano qualcosa che semplicemente c’è o non c’è, ma che tra questi due poli vi sia una vasta gamma di situazioni nelle quali il coefficiente di separatezza, come lo definisce Paolo Fonda (2000), può essere molto vario. In altre parole, ci stimola ad immaginare che a partire da un elevato grado di fusionalità, specifico e indispensabile nelle prime fasi della vita, si passi poi, in un percorso ottimale, a una struttura reticolare a maglie più o meno strette. Tale struttura, se sufficientemente elastica come nei casi in cui genetica e ambiente abbiano felicemente interagito verso un buon livello di salute psichica, renderebbe possibile uno scambio più o meno continuo fra interno ed esterno, scambio reso necessario dalla connotazione spiccatamente “sociale” della nostra mente. Il lungo processo di separazione/individuazione cui il soggetto va incontro durante l’infanzia determinerebbe progressivamente un restringimento delle maglie del reticolo e quindi un incremento di quel coefficiente di separatezza di cui parla Fonda. La resilienza del reticolo permetterebbe però il permanere di un certo grado di elasticità in previsione di un nuovo allargamento delle maglie in situazioni che fisiologicamente richiedano un aumento della spinta fusionale quali ad esempio l’adolescenza, la gravidanza e il puerperio, le primissime fasi di una relazione amorosa o, appunto, un’analisi. Bolognini usa per questo meccanismo la metafora del carrellare: cioè la possibilità per l’individuo di andare e venire avanti e indietro rispetto a una condizione di maggiore o minore indifferenziazione o separatezza, non intenzionalmente, ma in maniera abbastanza naturale. “Se il nostro senso d’identità è sicuro, allora perdersi (un poco) nello spazio clinico è essenziale perché il paziente possa scoprire sé stesso” questo scrive Bollas (1987), un altro grande evocatore d’immagini.

Ecco allora da dove ha origine la possibilità del costituirsi di quel Noi funzionale, incluso il Noi di lavoro in analisi: nella fusionalità fisiologica primaria, quando sia stato possibile per l’individuo sperimentarla e questa esperienza abbia funzionato sufficientemente bene.

Tutto questo ci porta, inesorabilmente, verso la quarta parola chiave, vero cuore del libro e il punto più avanzato della concezione psicoanalitica di Stefano Bolognini: Interpsichico.

Qualcuno potrebbe dire che l’Interpsichico non l’ha creato lui: esattamente come Freud non ha creato l’inconscio. Quello che Bolognini ha fatto, come Freud, è stato intuire e concettualizzare con pazienza, sapienza e mente aperta intorno ad una serie di fenomeni clinici, quasi mai evidenti, spesso ambigui e fortemente infiltrati della diffidenza psicoanalitica per tutto ciò che attenta alla dimensione dell’asimmetria all’interno della relazione. Il tema fondamentale è la qualità dell’esperienza vissuta dall’individuo quando entra in contatto intimo e significativo con un altro. Quando parla di contatto intimo Bolognini intende quelle congiunzioni corporee creative tra esseri umani che possono realizzarsi quando la relazione analitica diventa luogo di ritrovamento e di trasformazione nella capacità di relazionarsi creativamente con l’altro attraverso quella che lui definisce, appunto, una “parziale fusionalità non confusiva”. Non ha quindi a che fare con la confusione, ma con la possibilità che si attiva di condividere, temporaneamente, un’area presoggettuale o co-soggettuale di sensazioni e di pensiero, mantenendo però contemporaneamente, ad altri livelli, modalità di funzionamento psichico caratterizzate da una buona separatezza.

L’Interpsichico è, nella definizione che ne dà Bolognini, “un livello di funzionamento a banda larga, nel senso che consente la coesistenza naturale e non dissociata, ma in continuità, di stati della mente in cui l’oggetto è pienamente riconosciuto nella sua separatezza, con altri in cui tale riconoscimento è più sfumato”.

E come tener conto di questa funzione svolta da transitorie, parziali esperienze di fusionalità nel lavoro analitico? In altre parole, come si può trasformare la modulazione della distinzione esperenziale tra Sé e Non-Sé in uno strumento tecnico che permetta un accesso allo spazio interpsichico?

Bolognini ce li fornisce in un capitolo che intitola “Sei provvedimenti tecnici minimi di uso comune”. La prima associazione che mi è venuta è stata con i “Sei pezzi facili”, le lezioni di fisica di Richard Feynman, leggendarie per la loro perspicuità ed efficacia. Per dare un’idea del perché della mia associazione a chi non avesse avuto occasione di leggerle nell’edizione Adelphy, nel primo pezzo, dopo una breve introduzione ai metodi e al significato della ricerca – tre sole pagine che valgono intere biblioteche di testi epistemologici – si dice di che cos’è fatta la materia che cade sotto i nostri sensi: atomi in moto. Nel secondo si spiega che non tutto è così limpido come sembra e che nella materia c’è anche dell’altro: il mondo quantistico e i suoi paradossi.  E così via. E’ stato considerato uno dei tentativi più prodigiosi e riusciti di spiegare in modo incredibilmente semplice, l’infinitamente complesso. Non credo che sia necessario esplicitare ulteriormente il perché dell’accostamento. Le funzioni che questi “Sei provvedimenti tecnici minimi di uso comune” possono svolgere nel dialogo analitico sono altrettanto apparentemente semplici quanto in realtà complesse e fondanti nella concettualizzazione che ce ne offre Bolognini: dalla possibilità di mostrare al paziente che l’analista non è onnipotente e non si vergogna di non sapere, al promuovere una reciproca collaborazione, al facilitare, scegliendo l’uso del “Noi”, quella “buona fusionalità”, particolarmente laddove non ce ne sia stata a sufficienza nei primi stadi della vita.

Questo libro rappresenta, in sintesi, un’esplorazione partecipata di tutte quelle dimensioni di scambio che attraversano la nostra esistenza di individui e una riflessione profonda e creativa su come la psicoanalisi possa osservare, promuovere e ri-significare questi scambi: scambi fra interno ed esterno, fra Io e Sé, fra Sé e Non-Sé, fra Sé e l’Altro. “Un’esplorazione condivisa dell’esperienza passata e di quella conscia, preconscia e inconscia in atto, come ci dice l’autore, al fine di condurre, nel miglior percorso possibile, ad “un’armonizzazione cooperativa tra le varie parti del Sé”, un’armonizzazione che ripari quello che si era danneggiato e reintegri quello che non si era integrato.

Questo libro permette di fare un’esperienza di cos’è la psicoanalisi per Stefano Bolognini attraverso la sua impareggiabile capacità di costruire metafore che toccano, a partire da una porta murata, luogo inespugnabile sepolto nei sotterranei dell’antica casa di famiglia, primum movens di ogni futuro amore della conoscenza. Una porta murata che, come sottolinea Paola Marion nella bellissima prefazione al libro, serve per introdurre il lettore, “al mondo sotterraneo del lavoro analitico, all’esplorazione dei contenuti inconsci ai quali ci avviciniamo senza usare né martello né né scalpello, rispettando, quando ciò è opportuno, anche il confine che la porta murata definisce”.

 

Bibliografia

Bollas C. (1987) L’ombra dell’oggetto. Borla Editore.

Feynmann R. (1994) Sei pezzi facili. Adelphy Editore.

Fonda P. (2000) La fusionalità e i rapporti oggettuali. Rivista di Psicoanalisi, 46:3, 429-449

Marion P. (2019) Prefazione. In: Flussi vitali fra Sé e Non-Sé. Raffaello Cortina Editore.

Nissim L. (1984) Due persone che parlano in una stanza. In: L’ascolto rispettoso. Raffaello Cortina Editore.

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