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“L’Identità polifonica al tempo della migrazione” a cura di Chiara Rosso. Recensione di Carmen-Désirée Riemer 

10/04/18

IDENTITA’ POLIFONICA AL TEMPO DELLA MIGRAZIONE

Verso una “clinica delle molteplicità” in psicoanalisi  a cura di Chiara Rosso

Recensione di Carmen-Désirée Riemer 

Collana i Territori della psiche

Alpes Italia s.r.l., 2018

“La lingua è l’anima di tutte le cose”[1] Haviva Pedaya[2]

“Un uomo che perde la sua madrelingua è malato per il resto della sua vita” (Aharon Appelfeld) [3]

 

L’Identità polifonica al tempo della migrazione, curata da Chiara Rosso, è un’ opera che coglie l’attualità di questo momento storico in cui l’Europa è chiamata ad affrontare il crescente fenomeno di flussi di popolazioni che solcano il suo territorio e a confrontarsi su più livelli con la figura dello straniero/estraneo.

Grazie alla maestria della curatrice sono stati raccolti contributi originali sul tema della migrazione, declinati a partire da vertici diversi. Otto psicoanalisti ed un sociologo, provenienti da diversi contesti geografici, geopolitici e linguistici sono convocati a riflettere sul tema delle implicazioni della migrazione. Il libro è dunque frutto di molteplici considerazioni riguardo alla dimensione dello straniero e dell’estraneità da un punto di vista intrapsichico, interpersonale e societario. Nonostante il differente background culturale e formativo degli autori, l’attenzione clinica e l’importanza conferita al setting costituiscono il filo conduttore di tutte le riflessioni esposte.

Florence Guignard coglie nella sua prefazione ‘l’audacia’ della scelta del sottotitolo del libro da parte di Chiara Rosso: “Verso una clinica della molteplicità in psicoanalisi”. In effetti tale sottotitolo orienta l’attenzione sull’importanza dell’aiuto che la comunità psicoanalitica è in grado di offrire alle persone coinvolte nei fenomeni migratori.

Perché “identità polifonica”? Nell’intento di illustrare i transiti identitari, culturali e linguistici che sostanziano la tematica del libro, la curatrice prende ispirazione dal pensiero di Bachtin per il quale ogni discorso è di per sé ‘polifonico’ poiché racchiude diversi stili e voci in un piccolo universo capace di condensare “la memoria storica dell’umanità”.

Il libro, tripartito, traccia nel suo insieme una rotta, che inizia con lo Straniero dalla letteratura alla clinica, prosegue con le famiglie in transito e le ricombinazioni intra-familiari, per approdare infine alla polifonia culturale e linguistica. Ogni parte raccoglie tre contributi di autori diversi.

La prima parte viene aperta dallo psicoanalista francese René Roussillon con la sua riflessione sul romanzo de Lo Straniero di Albert Camus. Roussillon ritiene che quest’opera, assieme al Mito di Sisifo e a Caligola dello stesso autore, rientri nella cosiddetta: “trilogia del negativo”. Egli approfondisce la ‘matrice del negativo’  attraverso la lente letteraria e filosofica della noia, in stretta relazione con i temi dell’oscuro, dello straniero,  dell’assurdo e della ripetizione. Tematiche che confluiscono tutte, a suo avviso, nel sentimento di disperazione. Questo articolo presenta infine un interessante condensato dei diversi processi psichici relativi alle dinamiche della giustizia e di come esse possano intersecare la visione psicodinamica del clinico nel realizzare la ‘stesura’ del  profilo criminale. Esso può risultare interessante anche per un pubblico appartenente alle discipline giuridiche.

Segue l’importante contributo di Nathalie Zilkha, psicoanalista svizzera e nota in Italia per i suoi scritti sull’adolescenza e sulla genitorialità. L’autrice, analizza il film francese Le nom des gentes (The Names of Love) del 2010 di Michel Leclerc a partire dall’incontro conflittuale tra i due protagonisti e il dilemma rappresentato dalle loro origini. Ella prende in rassegna alcuni elementi utili alla comprensione della clinica che sembrano intralciare il cammino verso la soggettivazione, come l’uso del nome, il diniego delle origini e la vergogna. Zilkha ritiene che dietro al diniego delle origini si possa celare la vergogna e che essa si associ a lutti antichi non elaborati, o a lutti impossibili che riemergono in seguito sotto la forma di un tabù relativo al pensare la propria provenienza. A partire dal quesito di una donna centenaria con molte migrazioni alle spalle :“Ma tu da dove vieni?” l’autrice, attraverso un gioco complesso di identificazioni e di proiezioni o  identificazioni crociate, sottolinea l’importanza nel raggiungere la consapevolezza dello ‘straniero’ che vive in noi e di come questa dimensione si dipani nelle infinite  sfaccettature che caratterizzano sia la nostra vita intra-psichica che quella inter-soggettiva.

Anche Ludovica Grassi, che chiude la prima triade, tratta il tema della vergogna in connessione con la migrazione tratteggiando la storia della fontana Pretoria (o “ Fontana della Vergogna”) traslocata da Firenze a Palermo. A proposito degli “affetti in transito” l’autrice coglie una metafora eloquente ed un parallelismo con i transiti migratori delle persone e con le perdite e il dislocamento ad essi associati. In poche righe ella traccia le esigenze implicate nel processo di spostamento/migrazione: la creazione di uno spazio che accoglie (contenitore), deve comprendere degli adattamenti ivi compresi la demolizione di strutture preesistenti per cui anche il contenuto  sarà oggetto di inevitabili cambiamenti. Nel caso specifico della fontana, gli elementi trovano una diversa collocazione nella nuova sede e si caricano di altri significati.

La seconda parte Famiglie in transito, ricombinazioni Intra-Familiari si apre con l’articolo del sociologo Maurizio Ambrosini, il quale in un contributo originale, analizza con sensibilità il fenomeno dell’insediamento di famiglie immigrate: un processo sovente arduo e costellato da ostacoli nel tentativo di raggiungere, da parte dei protagonisti,  una condizione di normalità e di integrazione nella vita quotidiana. La “geometria variabile” delle famiglie i cui componenti migrano in tempi diversi, danno luogo a storie famigliari in continuo mutamento e dove la riunificazione famigliare più che rappresentare il lieto fine di un percorso accidentato rappresenta un nuovo inizio ricco di incognite. A seguire, Massimiliano Sommantico tratta i delicati aspetti dell’adozione internazionale con l’ausilio di un caso clinico relativo ad una psicoterapia psicoanalitica famigliare. Egli pone il focus su alcune aree tra cui quella relativa alla dinamica del fraterno nel suo intersecare i conflitti familiari. Il processo adottivo rischia il naufragio nel momento in cui la coppia non sarà in grado di rielaborare il mito comune e condiviso delle rispettive famiglie di origine oppure quando non riuscirà a contenere e a trasformare il mito portato dal bambino adottivo all’interno di un clima più allargato di “miti incrociati” secondo l’accezione di Kaës (1985).

In ogni adozione, soprattutto all’epoca dell’adolescenza, rimane centrale l’aspetto dell’incontro con l’altro che costituisce un tassello obbligato per lo sviluppo del lento processo di soggettivazione; le caratteristiche e la qualità di questo incontro influenzano l’equilibrio dei soggetti.

Daniele Biondo infine, si interroga sulla natura dell’‘Altro’ e di come esso possa essere percepito dalla collettività. Egli illustra un esempio pratico attraverso l’esperienza vissuta all’interno del Centro di Accoglienza giovanile che lui dirige. Un gruppo interdisciplinare costituito da educatori, psicologi, antropologi e psicoanalisti che lavora secondo i termini di gruppo di lavoro (Bion, 1961). L’autore espone due casi clinici e sottolinea l’importanza delle supervisioni psicoanalitiche periodiche, affinché gli operatori possano rielaborare l’esperienza inconscia attivata dalla relazione con l’adolescente. La  mancata rielaborazione di quanto vissuto comporta invece il rischio di blocco del processo di soggettivazione dell’adolescente, coinvolto in uno siluppo identitario complesso e dalla duplice natura poiché egli è: “…doppiamente colpevole d’appartenenza e di tradimento: appartiene al suo gruppo d’origine senza appartenervi e, reciprocamente appartiene alla società ospitante senza farne parte” (pag.101). Auspico, in tempi a noi prossimi, la nascita di ulteriori realtà che s’ispirino al modello qui proposto da Biondo.

La terza parte dal titolo: Polifonia culturale e linguistica si apre con due lavori di psicoanalisti libanesi. Maurice Khoury descrive lo sviluppo della psicoanalisi all’interno di un contesto con una lunga tradizione di diversità e di pluralismo culturale che accoglie origini talmudiche, islamiche e cristiane. E’ ben tollerata la coesistenza nello stesso territorio di due tra le principali religioni monoteistiche, mentre l’identità plurale si struttura attraverso un doppio Super-Io, culturale e religioso. Il paese è destabilizzato dalla costante presenza di conflitti che si ripercuotono sulla pratica psicoanalitica. Il setting viene spesso vissuto come una protezione dalla realtà intrusiva e drammatica dei bombardamenti;  in tale circostanza l’analista più che “guardiano del setting” finisce per essere vissuto come dotato di una certa ‘invulnerabilità’ da parte del paziente. Marie Thérése Khair Badawi  si interroga ed analizza alcuni elementi che alimentano il rifiuto dello straniero, in particolare del musulmano, fenomeno oggi dilagante nel mondo occidentale. Ella osserva la posizione difensiva adottata dall’occidente che tende ad erigere ‘fili spinati’ (interni ed esterni) dietro ai quali proteggersi da ciò che viene percepito come una minaccia all’identità.  Ella ricollega il vissuto di  stupore e di ignoto al sentimento del perturbante, Freud (1919) e al concetto del “narcisismo delle piccole differenze” di Crowlay citato da Freud (1917, p.435).  E’ quest’ultimo a creare un divario tra il “noi” e il “loro”  nel momento in cui emergono motti di intolleranza e non è più possibile rintracciare “il senso di appartenenza comune all’essere tutti libanesi. L’ostilità e i sentimenti di estraneità che osserviamo in ogni relazione umana trionfano sul sentimento di una comune appartenenza e possono distruggere il comandamento dell’amore universale tra gli uomini” (pag.155). Il libro si conclude con l’articolo di Chiara Rosso la quale approfondisce  l’intreccio tra lingua e cultura nel tentativo di collocare il fenomeno della migrazione all’interno della nostra attuale realtà tecnologica e di comunicazione. L’individuazione delle diverse sfumature della dimensione plurilinguistica della cura, con l’ attenzione posta ai meccanismi psichici più sollecitati come la scissione e la dissociazione in ambito migratorio, ne fanno un interessate contributo sullo sviluppo della tecnica psicoanalitica. L’autrice rintraccia, in chi è plurilingue, la necessità di avviare una specifica elaborazione del lutto in fasi diverse, “ affinché si realizzi la possibilità di transitare da un livello in cui coesistono identità alternative scisse verso un piano che abbracci forme più integrate di identità” (pag.186). All’inizio della mia recensione ho sottolineato quanto tutti gli autori convocati a contribuire alla realizzazione di questo bel libro avessero dedicato una particolare attenzione alla clinica e al setting analitico, è per questo che mi piace concludere questa riflessione citando l’ultimo passaggio dell’articolo di Chiara Rosso: “ La parola analitica libera il linguaggio dal lutto” (…) Ecco l’effetto del setting analitico sulla lingua  (Green, 1984, p.133) (…) Un effetto, tra l’altro,  in grado di ristabilire i legami tra l’apparato del linguaggio e l’apparato psichico per consentire il reinvestimento di quella terzietà sequestrata da lutti sospesi o non elaborati” (p.186).

Einaudi, 2004

 

Bibliografia:

Bion W.R.  (1961), Esperienze nei gruppi, Armando Editore, Roma, 1972.

Freud S. (1917), Il tabù della verginità, in OSF, VI, Torino, Bollati Boringhieri, 1985.

Freud S. (1919), Il perturbante, in OSF, IX, Torino, Bollati Boringhieri, 1977.

Green A. (1984), Il linguaggio nella psicoanalisi, Borla, Roma, 1991.

Kaës R. (1985), L’apparato psichico nei gruppi, Armando, Roma, 1983.

 

Note:

[1] Marion Maurin cita Haviva Pedaya nel suo articolo apparso sul magazzino di babbel (sito per apprendere le lingue)“Kann die eigene Muttersprache verlernt werden?” (Possiamo dimenticare la nostra madrelingua?) www.de.babbel.com

[2] Prof.ssa di filosofia alla Ben Gurion University of the Negv. Poetessa e ricercatrice di giudaismo, misticismo, Kabbalah e Hasidim Vincitrice, quest’anno, del premio Gershom Scholem Prize per la ricerca sulla Kabbalah.

[3] Citazione dalla sua più celebre intervista in Philip Roth: “Chiacchere di bottega” Uno scrittore, I suoi colleghi e il loro lavoro”; Einaudi, 2004

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