
Parole chiave: Follia – Ricerca di senso – Ascolto visivo – Storie cliniche – Film d’anima – Psicoanalisi
Roberto Salati, Cesare Secchi (2024), Misteri e passioni d’anime. La rappresentazione della follia nel cinema d’autore, Pisa, ETS
Recensione di Elisabetta Marchiori
Il titolodel libro Misteri e passioni d’anime. La rappresentazione della follia nel cinema d’autore è non solo l’estrema sintesi del suo contenuto, ma scopre da subito l’intensità dell’amore che muove alla scrittura le menti e le anime dei due autori, Roberto Salati e Cesare Secchi, entrambi psichiatri e psicoanalisti, il primo junghiano, il secondo freudiano. Il loro profondo trasporto si rivolge sia alla Settima Arte sia alla comprensione delle dinamiche psichiche dei misteri della follia attraverso la rappresentazione filmica. La loro formazione si riflette nello stile del libro: sobrio ma partecipe, clinico ma mai riduttivo, analitico ma sempre rispettoso della dimensione estetica e narrativa dell’opera cinematografica.
Nel panorama italiano e internazionale degli studi sulle relazioni tra cinema, psichiatria e psicoanalisi, questo testo si distingue per la capacità di mantenere raro un equilibrio tra sapere specialistico e cultura cinefila, tra teoria e competenza clinica, tra rigore e apertura, dove il film diventa occasione per interrogare la sofferenza e stimolare la ricerca di senso. Uno degli aspetti più notevoli dell’opera è la capacità di proporre una cornice interdisciplinare solida, e nello stesso tempo di stimolare il dialogo e la contaminazione reciproca tra saperi, con una scrittura che si distingue per chiarezza e rigore e con un’accuratezza di composizione editoriale straordinaria.
Era il lontano 2008 quando, presso la Mediateca dell’Università di Modena e Reggio Emilia, Cesare Secchi mi invitò a presentare il suo primo Catalogo audiovisivo multimediale (in CD-rom) Cinema e follia, di cui scrissi all’epoca[1]. Questo raccoglieva allora circa 500 titoli di opere filmiche relative alla sofferenza psichica facenti parte dell’archivio audiovisivo del Centro di Documentazione di Storia della Psichiatria San Lazzaro di Reggio Emilia. Nel 2015 lo stesso autore ha pubblicato Cinema e follia. 1115 film e audiovisivi sulla malattia mentale e oggi i titoli di tale archivio, iniziati a raccogliere negli anni ’80 a fini didattici, sono più di 1800. Si possono riconoscere in queste mappe minuziose qualcosa che va ben oltre il repertorio: una forma di ascolto visivo, un’indagine attenta e precisa sulle immagini che parlano di psiche e alla psiche, con uno sguardo rivolto verso la profondità.
In quest’ultimo lavoro Cesare Secchi, che ha scritto tra l’altro L’infinita sfumatura. Immagini e suggestioni psicoanalitiche attorno a una versione cinematografica di Il giro di vite di Henry James (2007), è accompagnato da Roberto Salati, anch’egli autore di pregevoli lavori sul tema. Insieme riprendono quel percorso già avviato, lo ampliano e lo approfondiscono, trasformandolo in un saggio organico e riflessivo che interroga il cinema come spazio privilegiato per la rappresentazione delle dinamiche psicopatologiche e del mondo interno.
Dall’enorme catalogo a loro disposizione, come descritto nell’Introduzione, i due autori hanno selezionato una serie di titoli, non solo di fiction ma anche di documentari e di serie televisive, secondo un criterio che tiene conto di un duplice aspetto: da un lato, la capacità del film di offrire una rappresentazione sufficientemente verosimile, suggestiva o intrigante della follia (o della complessità psicologica e relazionale dei personaggi e delle trame); dall’altro, un esito cinematograficamente convincente, come più spesso accade nel cinema d’autore. Il loro, come affermano, è uno “sguardo specifico” di “occhio specialistico”, che integra “il piacere di vedere film e la capacità di discernere ciò che vediamo” e si rivolge all’analisi “dei significati, dei segni, dei codici, della rappresentazione, della narrazione” (pp. 13-14). Ne consegue una scelta di campo netta: evitare sia la banalizzazione psichiatrica del personaggio filmico sia l’approccio esclusivamente estetico.
Segue un Prologo intitolato Tre storie cliniche, in cui il doppio criterio di selezione viene subito applicato. Vengono presentati e discussi, come esempi di “storie cliniche” — intese quale vero e proprio “genere cinematografico” — Geheimnisse einer Seele (I misteri di un’anima, G.W. Pabst, 1926), Säsom i en spegel (Come in uno specchio, I. Bergman, Svezia, 1961) e Lilith (Lilith, la dea dell’amore, R. Rossen, 1964): tre film che mettono in scena altrettanti disturbi psichici codificati – una fobia d’impulso e due sindromi schizofreniche – nei quali sono centrali i rapporti emotivi tra il personaggio sofferente e i suoi interlocutori. Questi tre film-sintomo vengono analizzati con attenzione fenomenologica, stilistica e psicoanalitica.
Il libro si snoda in tre ampie sezioni: Tematiche psichiche, La credibilità narrativa e La suspense nel cinema d’anima, ognuna delle quali affronta da prospettive diverse la messa in scena della sofferenza mentale. Non si tratta né di una raccolta sistematica né di una guida didattica: è piuttosto una tessitura di riflessioni, esempi, confronti, in cui ogni film apre una tematica e ogni personaggio ne amplifica le implicazioni.
La Prima Parte evoca e rielabora parzialmente altri lavori scritti da psicoanalisti e psichiatri, usando un linguaggio “il meno possibile specialistico”. Sono individuate diverse tematiche psichiche (conflitto, trauma, relazioni perverse, neo-realtà, morte, dipendenze, luoghi di cura, infanzia e adolescenza, invecchiamento, percorsi terapeuti), attraverso le quali vengono passati in rassegna “contenuti psico(pato)logici” di film e serie televisive. Anche se in questa sezione l’accento è posto soprattutto sui contenuti, dunque sulla trama, ci sono ripetute osservazioni linguistiche che sottolineano la continuità e la reciprocità tra plot e racconto filmico stricto sensu; sono inoltre prese in considerazione le potenziali risposte emotive dello spettatore. Tra i magnifici film considerati, mi ha fatto piacere ritrovarne alcuni cui sono affezionata particolarmente, come Desde allá (Ti guardo, L. Vigas, Venezuela-Messico, 2015, p. 59)[2] e We Need to Talk About Kevin (E ora parliamo di Kevin, L. Ramsay, Gran Bretagna-USA, 2011, pp. 144-146)[3].
Da appassionata di serie televisive, ho davvero apprezzato la lettura di The Fall,(J. Verbruggen, A. Cubitt, Irlanda-Gran Bretagna, 2013) che, benché incentrata su un tema abusato — le vicende di un killer seriale (Jamie Dornan) e di una investigatrice (Gillian Anderson) — riesce a “riformulare molti tradizionali luoghi narrativi” in modo originale “proponendo analisi psicologiche raffinate e inconsuete”, con prove attoriali straordinarie (p. 76).
La Seconda Parte è, invece, tutta impostata sulla credibilità narrativa, ovvero su come il cinema riesca (o meno) a rendere verosimile la follia sullo schermo, anche nelle opere documentaristiche, “al di là della verosimiglianza” (p. 151). Viene esplorata la tensione tra rappresentazione e verità interna, tra artefatto narrativo e autenticità emotiva. Offrendo una continuità con la parte precedente, vengono anche riproposti alcuni film già considerati, esaminandoli da questo diverso punto di vista. Sono analizzati gli incipit, le “azioni drammatiche centrali”, gli explicit, e il “luoghi figurativi”, ovvero quelle “situazioni drammatiche pertinenti alla patologia e a forte pregnanza scenico-visiva” (p. 220) che frequentemente sono presenti in queste opere, sia francamente psicopatologiche/psichiatriche (come l’agitazione psicomotoria, l’allucinazione, il suicidio) sia più genericamente psicologiche (come la fantasia, il ricordo, il passaggio all’atto). Sono presi in considerazione anche gli espedienti formali “che promuovono la soggettivazione del racconto”, quali, tra i tanti, a titolo di esempio, i flashback, le dissolvenze, le sovraimpressioni (p. 220). Gli autori si soffermano, tra gli altri, su M (Il mostro di Düsseldorf, F. Lang, Germania, 1931), Peeping Tom (L’occhio che uccide, M. Powell, Gran Bretagna, 1960), Cœur en hiver (Un cuore in inverno, C. Sautet, Francia, 1992) e la serie Alias Grace (L’altra Grace, M. Harron, Canada, 2017), protagonisti di una serie di considerazioni lungo tutto il testo. E se Alias Grace non potrei annoverarla tra le mie serie preferite, le considerazioni degli autori mi hanno stimolata verso un’inedita visione.
Infine, si arriva a una sintetica nota sulla recitazione, rispetto alla quale viene sottolineato l’apprezzamento per “le interpretazioni scarne, essenziali, ‘dal di dentro'”, quali quella di Olivia de Havilland in The Snake Pit (La fossa dei serpenti, A. Litvak, USA 1958) e quella di Daniel Auteil nel già citato Cœur en hiver.
La Terza Parte propone un’interessante teorizzazione della suspense, in quanto esperienza psichica squisitamente spettatoriale, attivata dai film considerati. Offre quindi la nozione più personale e suggestiva di “film d’anima”: non solo pellicole che parlano di disagio psichico, ma che sono capaci di entrare in risonanza profonda con lo spettatore, evocando domande, attivando emozioni e dinamiche inconsce. Restituisce al cinema la sua potenza trasformativa: i film come sogni condivisi, spazi intermedi in cui la psiche può muoversi, esplorare, elaborare.
I riferimenti sono al perturbante freudiano, in primis, e ad autori quali De M’uzan, Gagnebin, Kohon e Balint, con particolare riferimento ai suoi concetti di ocnofilia e filobatismo. Ad avvallare le ipotesi teoriche, vengono analizzate sequenze tratte dalle sopracitate serie The Fall e Alias Grace e dai film Pursued (Notte senza fine, R. Walsh, USA 1947), Secret Beyond the Door (Dietro la porta chiusa, F. Lang, USA, 1948), Le cri du hibou (Il grido del gufo, C. Chabrol, 1987).
Nell’Epilogo gli autori si interrogano sul profilo dei film selezionati, una costellazione di opere accomunate da uno statuto d’autore e da un interesse esplicito per il mondo intrapsichico, in cui la follia – o, più spesso, la complessità psichica – è trattata come tensione emotiva, conflitto relazionale, perturbante inquietudine.
I film più significativi si muovono tra il drammatico e il noir, sfuggendo a classificazioni rigide e producendo una suspense psichicapiù che narrativa. L’efficacia di queste opere – e il piacere che suscitano nello spettatore – non sta tanto nella risoluzione del mistero, quanto nella possibilità di abitare la sospensione, di lasciarsi toccare da domande che restano aperte. Il “film d’anima”, in questa prospettiva, diventa un’esperienza interiore che si prolunga oltre la visione, come un lavoro mentale che continua nel tempo, tra immaginazione, rêverie e après-coup. Come suggerisce una citazione riportata da Roger Ebert – certi film ci parlano davvero solo qualche giorno dopo, “come una lenta reazione nella storta di un laboratorio” (p. 340).
Il bianco e nero – ampiamente presente nei film analizzati – viene letto come dispositivo simbolico privilegiato per rappresentare lo psichico: nella sua essenzialità, nella sua astrazione, nella sua capacità di evocare chiaroscuri interiori. A questo proposito, propongono un ulteriore commento a Pasažerka (La passeggera, A. Munk, Polonia, 1961-1963), considerato “una sorta di esperienza estrema per lo spettatore” (p. 346).
Oltre a una cospicua bibliografia, il testo è corredato da un indice dei film, dei cineasti e degli autori, oltre che da evocative immagini tratte da film, rigorosamente in bianco e nero. Senza dimenticare la sapiente, approfondita e affettuosa Prefazione al volume di Simona Argentieri, una delle psicoanaliste italiane pioniere degli studi su cinema e psicoanalisi, autrice di innumerevoli scritti. Afferma di appartenere “alla stessa schiera di pubblico professionista” insieme a Salati e Secchi, e di essere “abitata da una doppia anima di psicoanalista e spettatrice seriale” (posso dire che mi ci riconosco anche io?). In quanto tale, ha trovato in Misteri e passioni d’anime non solo un’indagine approfondita sulla rappresentazione della sofferenza psichica nel cinema, ma anche una “storia parallela della psichiatria e del cinema, nonché del pensiero psicoanalitico che accompagna la rappresentazione” (p. 5). È facile condividere, dopo aver letto il libro, ogni sua considerazione, in particolare che gli autori si mostrano senza dubbio “autorevoli detentori di cultura e di competenza senza mai dover rinunciare per questo alla passione e al coinvolgimento emotivo” (p.6). E se in me tale immensa cultura cinematografica ha instillato anche qualche brivido di invidia, ha prevalso la forza della trasmissione della loro passione, che ha nutrito la mia, e della loro conoscenza, cui continuerò ad attingere.
I film vengono letti come luoghi di articolazione psichica, dove l’approccio fenomenologico che guida molte delle analisi è impregnato di una sensibilità clinica e psicoanalitica che consente di passare dalla superficie del racconto filmico ai nuclei profondi dell’esperienza umana. L’ambiguità, l’incertezza e le oscillazioni del soggetto filmico tra normalità e patologia, realtà e fantasia, veglia e sogno, sono assunte come cifra distintiva, non come problema da risolvere. L’attenzione degli autori si sposta, con decisione e originalità, dai “disturbi” ai “movimenti dell’anima”, da ciò che devìa a ciò che cerca, resiste, si dispera, o trova momentanei assetti nel racconto per immagini.
Questa scelta rispecchia la pratica psicoanalitica: più che arrivare a una spiegazione o a una diagnosi, importa esplorare la domanda, sostare nella complessità, ascoltare il racconto dell’altro, porre attenzione a quello che mostra o non mostra.
Misteri e passioni d’anime è un libro affascinante e uno strumento utile per qualsiasi lettore. Per chi lavora con la psiche offre un laboratorio di pensiero, una miriade di storie e immagini atte a comprendere la “psico(pato)logia” e le dinamiche del mondo interno, da usare anche in situazioni didattiche e congressuali e per parlare a un pubblico non specialistico di tematiche scottanti inerenti “la follia”.
Per chi ama il cinema è un invito ad andare oltre la superficie della trama, dell’estetica, delle sensazioni adrenaliniche, per lasciarsi interrogare dai dettagli, dai vuoti, dai silenzi, dalle contraddizioni dei personaggi. Ma è anche per chi è semplicemente curioso di avventurarsi in territori che non conosce, e può darsi che la sua anima venga anch’essa sedotta da tanta passione.
La lettura è tanto più fruttuosa quanto più si condivide l’assunto implicito: che il cinema, come il sogno, costruisca scene per elaborare emozioni, per trasformare l’angoscia in rappresentazione, il trauma in racconto, l’enigma in forma.
In questo senso, la categoria del “film d’anima” – a cui il libro è dedicato – assume un significato particolare: non si tratta solo di film che parlano della psiche, ma di opere che si muovono come una psiche, che ne condividono la logica associativa, la capacità di trasformare l’esperienza, di evocare e contenere emozioni, di lavorare nel tempo. In definitiva, ciò che lega le opere scelte non è un genere, né un tema, ma una tensione comune verso quanto l’immagine riesca a comunicare oltre la parola. Misteri e passioni d’anime è un testo da leggere con gli occhi di chi sa che, dietro ogni fotogramma, si muove qualcosa che ci riguarda. O potrà scoprirlo proprio leggendolo.
Bibliografia
SECCHI C. (2007). L’infinita sfumatura. Immagini e suggestioni psicoanalitiche attorno a una versione cinematografica di Il giro di vite di Henry James. ETS, Pisa.
SECCHI C. (2015). Cinema e follia. 1115 film e audiovisivi sulla malattia mentale, Rimini, Guaraldi.
[2]Ho avuto l’onore di presentarlo assieme al regista a Milano, qui il link del report dell’evento e il mio commento https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/ti-guardo-desde-alla-from-afar-da-lontano/
[3] https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/recensioni-cinema/e-ora-parliamo-di-kevin/