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“Prendere vita nella stanza d’analisi” di T. H. Ogden. Recensione di S. Calderoni

25/07/22
"Prendere vita nella stanza d'analisi" di T. H. Ogden. Recensione di S. Calderoni

“PRENDERE VITA NELLA STANZA D’ANALISI”

di Thomas H. Ogden

(Raffaello Cortina ed., 2022)

Recensione a cura di Simona Calderoni

Il libro descrive un cambiamento in atto nella psicoanalisi contemporanea, orientato verso la sensibilità analitica nuova e generativa, verso innovative qualità di ricettività e responsività a ciò che sta accadendo nella seduta analitica. Descrive il passaggio da una “psicoanalisi epistemologica” – che ha a che fare con il conoscere e comprendere introdotta e sviluppata da Freud e Klein – ad una “psicoanalisi ontologica” che ha a che fare con l’essere e il divenire e che è stata introdotta ed elaborata da Winnicott e Bion. 

La concezione della mente di Freud, Klein e Fairbairn tratta la mente come “un apparato per pensare”, mentre Winnicott e Bion vedono la mente come un processo vivente che si colloca nell’atto stesso dell’esperienza.

Nel primo capitolo l’autore approfondisce la propria teorizzazione di una psicoanalisi ontologica ricordando che le domande che ciascuno si pone dalla nascita alla morte consistono nel chiedersi chi si vuole diventare da grande o cosa ci impedisce di essere pienamente noi stessi. Questi sono gli interrogativi che spingono la maggior parte dei pazienti a cercare una terapia o un’analisi anche se, spesso non ne sono consapevoli e si rivolgono al professionista per attenuare o guarire i sintomi che li limitano quando non, addirittura, li attanagliano. A volte l’obiettivo del trattamento è di portare il paziente da uno stato in cui non è in grado di formulare tali domande, ad uno stato in cui lo è. 

È importante ricordare che la psicoanalisi epistemologica e quella ontologica non esistono in forma pura, bensì esse coesistono in una relazione reciprocamente arricchente l’una con l’altra. secondo Ogden la psicoanalisi epistemologica si riferisce ad un processo di acquisizione della conoscenza, che conduce alla comprensione del mondo interno inconscio del paziente e delle sue relazioni con il mondo esterno. Le interpretazioni dell’analista hanno il fine di comunicare la comprensione delle fantasie inconsce del paziente, i suoi desideri, le sue paure, i suoi impulsi e i suoi conflitti. L’intervento clinico più importante, da un punto di vista epistemologico, è l’interpretazione di transfert: l’analista comunica al paziente, attraverso le parole, la sua comprensione di come il paziente stesso sta sperimentando l’analista.

Al contrario, quando Ogden parla di psicoanalisi ontologica, si riferisce a una dimensione della psicoanalisi in cui il principale obiettivo dell’analista consiste nel facilitare gli sforzi del paziente di diventare più pienamente se stesso. Per quanto riguarda il suo interesse al gioco, Melanie Klein si occupò quasi interamente di come usare il gioco in quanto forma di simbolizzazione del mondo interiore del bambino. In questa prospettiva l’analista è sempre troppo occupato a utilizzare il contenuto del gioco per poter osservare il bambino che gioca e a scrivere sul gioco come una cosa a sé. Winnicott introduce una distinzione tra il significato simbolico del gioco e la situazione in cui si può essere coinvolti nel giocare. Egli scrive: “la psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta…Quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine il portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace (p. 71).

In questo passaggio winnicottiano, il ruolo dell’analista è abbastanza diverso da quello che assume nell’analisi di tipo epistemologico. Mentre in quest’ultima il ruolo dell’analista consiste nel trasmettere, attraverso l’interpretazione, la propria comprensione dell’angoscia al suo apice nell’attualità dell’analisi, in una psicoanalisi ontologica, l’analista farebbe meglio ad aspettare prima di trasmettere la propria comprensione al paziente.

Mi sgomenta pensare alla quantità di cambiamento profondo che ho impedito o ritardato a causa del mio personale bisogno di interpretare. Se soltanto sappiamo aspettare, il paziente arriva a capire in maniera creativa e con gioia immensa, ed ora io godo di questa gioia più di quanto fossi solito godere della sensazione di essere stato intelligente. Penso che interpreto soprattutto per far conoscere al paziente i limiti della mia comprensione. Il principio è che è il paziente, e solo lui, a possedere le risposte”(p. 152). In questa parte dell’articolo, inoltre, Winnicott insiste sull’importanza di riconoscere la nostra mancanza di onnipotenza in quanto analisti.

Per come Ogden legge Bion, in tutta la sua opera, egli è principalmente un pensatore ontologico in quanto ha spostato il focus dell’analisi dalla comprensione dei sogni all’esperienza del sognare intesa come un lavoro psicologico inconscio. Bion insiste sul fatto che, come psicoanalisti, dobbiamo liberarci dal desiderio di capire e impegnarci, invece, il più possibile nell’esperienza di ESSERE CON il paziente. Questo è il marchio di fabbrica del pensiero ontologico di Bion: “L’essere ha soppiantato il comprendere; l’analista non arriva a conoscere, a capire o ad afferrare la realtà di ciò che sta accadendo in seduta, la ‘intuisce’, diventa ‘una cosa sola’ con essa, è pienamente vivo nello sperimentare il momento presente” (p. 32).

Anche la concezione di Bion della rêverie riflette la sua inclinazione ontologica. La rêverie è uno stato dell’essere che comporta rendersi inconsciamente ricettivi all’esperienza di ciò che è inquietante per il paziente e che egli non è in grado di sognare. Nel setting analitico l’analista rende disponibile al paziente la versione trasformata, cioè sognata, dell’esperienza non sognata del paziente, parlando o mettendosi in relazione in altri modi a partire dalla propria esperienza di rêverie. Il sogno è l’evento psichico attraverso il quale l’individuo diventa un soggetto che sperimenta il proprio essere. Quando, nelle forme gravi di psicopatologia, la funzione alfa cessa di elaborare le impressioni sensoriali, non solo l’individuo perde la capacità di creare significati, ma anche la possibilità di sperimentarsi come vivo e reale.

Nei seminari clinici del 1987, a un relatore che era preoccupato per gli errori che aveva commesso con un paziente, Bion commentò che “solamente dopo che si è conseguita l’abilitazione e si è finita la propria analisi, allora si ha la possibilità di scoprire chi si è davvero come analista” (p. 34). Qui, Bion distingue tra imparare come “fare l’analisi” e l’esperienza di essere e diventare chi si è davvero come analista. Diventare un analista comporta lo sviluppo di uno stile analitico che è unicamente proprio e diverso, non soltanto per ogni paziente, ma anche dal momento dell’analisi nel quale ci si trova con un medesimo paziente.

Tra i diversi esempi clinici di psicoanalisi ontologica riportati da Ogden, ho scelto di riportarne uno per intero in quanto mi ricorda anche aspetti personali:

Come vorresti essere da grande? (p. 42-43)

Il signor C., un paziente affetto da paralisi cerebrale, aveva iniziato con me una psicoterapia bisettimanale perché era in grande difficoltà, era tormentato da intensi pensieri suicidari, in risposta all’amore non corrisposto per una donna, la signora Z (che non soffriva di alcuna disabilità fisica). Descrisse come, da bambino, sua madre gli avesse tirato addosso le scarpe che aveva nell’armadio per allontanare da sé il “mostro bavoso”. Il signor C. camminava con passi goffi e pesanti e parlava in modo poco articolato. Aveva conseguito la laurea e svolgeva una professione tecnica molto impegnativa. Lavorando insieme per un po’ di tempo, mi affezionai molto al signor C. quando muggiva per il dolore, con le lacrime che gli scorrevano sul viso, provavo per lui una forma di amore che in seguito avrei provato per i miei figli piccoli. Diversi anni dopo il nostro lavoro, dopo che erano avvenuti notevoli cambiamenti riguardo al suo disperato desiderio di amore per la signora Z, il signor C. mi racconta un sogno: “Non succedeva niente di che nel sogno. Ero me stesso con la mia paralisi cerebrale e lavavo la mia macchina godendomi la musica dell’autoradio a tutto volume”.

Per la prima volta, il signor C. nel raccontarmi un sogno, non solo menzionò il fatto di avere una paralisi cerebrale, ma sembra accettarla pienamente come una parte di ciò che era: “Ero me stesso con la mia paralisi cerebrale…”; non era più il mostro che sentiva di essere una volta. Nel sogno era poi un bambino a cui la madre faceva il bagnetto con gioia cantandogli una canzoncina e compiacendosi di lui così com’era. 

Gli dissi: “Che sogno meraviglioso”; essere in grado di riconoscere e accettare teneramente se stesso, così com’era, potrebbe essere pensato come la risposta del signor C., in quel momento, alla domanda: “Come vorresti essere da grande?”: “Me stesso”.

Ho trovato particolarmente interessante e stimolante il terzo capitolo in cui l’autore approfondisce il proprio cambiamento rispetto all’attenzione avuta nel corso degli anni che si è spostata da quello che voleva dire al come lo faceva. Immediatamente ci mette in guardia sul fatto che non è possibile generalizzare su come parliamo con i pazienti, poiché spetta all’analista reinventare la psicoanalisi con ogni persona. La descrizione dell’esperienza, anziché l’interpretazione, promuove un discorso che si rivolge a livello inconscio di ciò che sta accadendo nell’analisi.

SecondoWinnicott un’analisi non darà risultati se il paziente e l’analista riempiono le sedute con “una collusione prolungata all’infinito” di parole che servono come “negazione della non comunicazione”. Per questo Winnicott è convinto che, se l’analista interpreta anziché attendere che il paziente faccia le sue scoperte in modo creativo, ci troveremo di fronte ad una situazione molto pericolosa. D’altro canto, però, non possiamo rimanere in silenzio seduta dopo seduta, settimana dopo settimana nell’attesa, perché tale silenzio incessante, potrebbe far sentire al paziente che l’analista è scomparso. Ogni analista, con ciascuno dei propri pazienti, in ogni seduta, deve rispondere alla domanda: “Cosa fare nell’attesa?”. Nel farlo, l’analista consciamente e inconsciamente accetta le indicazioni del paziente il quale, spesso, ci fa comprendere come sia importante che noi non capiamo e lasciamo accadere ciò che sta per verificarsi senza cercare di capirlo o cambiarlo.

Secondo Ogden la propria esperienza è inconoscibile quando parla con i pazienti e l’esperienza di quest’ultimi è inaccessibile: non potrà mai conoscerla. Il divario tra la soggettività del paziente e quella dell’analista non è un impedimento da superare, bensì uno spazio in cui la dialettica tra separazione e intimità può dare origine all’espressione creativa. 

L’impossibilità di conoscere l’esperienza di un’altra persona ha implicazioni importanti per il modo in cui parlo ai miei pazienti. Cerco di non dire mai a nessuno di loro che cosa pensa e sente, per la semplice ragione che non posso saperlo; cerco invece di limitarmi a dire solo quello che io penso e sento. È importante aggiungere che questa non è una regola rigida che mi impongo. Piuttosto, il modo in cui parlo con ciascuno, dipende da ciò che sta accadendo tra quel particolare paziente e me in quel determinato momento. Nel parlare con un paziente di quello che sento e che sta accadendo emotivamente nella seduta, potrei dire qualcosa come: ‘Mentre lei parlava o stava in silenzio, questa stanza mi sembrava un luogo vuoto’. Esprimendomi così, la questione di chi sente il vuoto o altre sensazioni è lasciata aperta. Era il paziente, o ero io, o era qualcosa che abbiamo inconsciamente creato insieme (“il campo analitico”) o il “terzo analitico? Quasi sempre, si tratta di tutti e tre: io e il paziente, come individui separati e le nostre co-creazioni inconsce” (pp. 70-71). 

Ogden ritiene che non esista una tecnica analitica corretta, piuttosto auspica che ciascuno possa trovare il proprio stile analitico, cioè una creazione personale che è prima di tutto un processo vivente che affonda la propria origine nella personalità e nell’esperienza dell’analista.

Bibliografia

Bion W.R., Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Armando, Roma, 1970.

Bion W.R., Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma, 1972. 

Bion W.R., Attenzione e interpretazione. Armando, Roma, 1973. 

Bion W.R., Seminari clinici. Brasilia e San paolo. Raffaello Cortina, Milano, 1989. 

Bion W.R., Gli elementi della psicoanalisi. Armando, Roma, 1988. 

James W. (1890), “Stream of thought”. In the Principles of Psychology, vol. 1. Dover Pubblications, New York, pp. 224-290.

Winnicott D. W., Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975. 

Winnicott D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma, 1970. 

Winnicott D. W., Esplorazioni psicoanalitiche, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995. 

Winnicott D. W., Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 1974. 

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