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Vanda Shrenger Weiss La prima psicoanalista in Italia di R. Corsa. Recensione di A. Gesuè

26/10/17

Recensione di Angela Gesuè al libro di Rita Corsa

Vanda Shrenger Weiss

La prima psicoanalista in Italia

La psicoanalisi a Roma in epoca fascista

(Alpes Editore, Roma 2017, pg 352).

Dopo il suo libro Edoardo Weiss a Trieste con Freud. Alle origini della psicoanalisi italiana (2013), Rita Corsa torna alla storia della formazione del gruppo psicoanalitico italiano. Lo fa con la passione della storica che non disdegna di maneggiare vecchi fascicoli “ammuffiti”, anzi ne fa una scelta metodologica paziente e rigorosa, perché ritiene che è proprio a partire da essi che a volte emergono «pezzi di verità che possono frantumare certezze sino a quel mentre considerate inalienabili. Orme del passato, dai contorni incerti, perché “Lontano è il reale ed estremamente profondo. Nessuno ne verrà a capo”» (Qohèlet,7,24).

Una ricostruzione quindi lontana dalle idealizzazioni, fatta per accostamenti di materiali diversi tra loro: lettere, documenti d’archivio, articoli di psicoanalisi, ma non solo, che tratteggiano un panorama variegato della società italiana tra le due guerre, del difficile inserimento della novella scienza soprattutto nell’ambito medico, delle figure dei pionieri tra cui spicca quella di Vanda Shrenger Weiss. Circa quest’ultima, a Rita Corsa preme dimostrare che può essere considerata la prima psicoanalista italiana, ma allo stesso tempo ne valorizza l’umanità, su cui l’identità professionale fa perno. Il libro si apre infatti con una lettera, indirizzata a Paul Federn, che ha catturato l’attenzione dell’autrice “con folgorante intensità”, in cui Vanda rassicura l’analista di Edoardo Weiss sulle condizioni del marito in vista dal programmato trasferimento a Roma di entrambi (si realizzerà nel 1931), su come sono uniti in questo progetto, e come l’uno possa costituire per l’altro un sostegno reciproco. Risulta dal carteggio con Federn che l’attività come psicoanalisti di Edoardo e poi di Vanda avrebbe avuto a Trieste scarsa possibilità di incrementarsi, con l’inevitabile conseguenza di non riuscire a dare una forma più compiuta e favorire lo sviluppo della Società Psicoanalitica Italiana.

Quest’ultima, fondata dal prof. Marco Levi Bianchini a Teramo il 7 giugno 1925, avrà come primo Presidente Edoardo Weiss, e come Vicepresidente Del Greco, che si è distinto “per costanza ed amore” nel professare “nella psichiatria italiana, la corrente psicologica e behavioristica”. Naturalmente c’è l’augurio di Freud, di Ferenczi e di Eitingon che ben presto la Società Psicoanalitica Italiana, soddisfatte le condizioni e gli oneri di affiliazione, possa chiedere di entrare nella Società Psicoanalitica Internazionale.  Naturalmente i primi anni romani non saranno privi di difficoltà per i coniugi Weiss: ad Edoardo arrivano assai pochi dei pazienti e dei colleghi da analizzare che l’eminente accademico romano Sante De Santis aveva promesso di inviargli. Quindi i primi tempi sono piuttosto duri, e Vanda contribuirà all’economia familiare adattandosi a tradurre dal tedesco i molti libri che De Santis le procura.

Il libro contiene un ricco, documentato e appassionato affresco della costituzione e dei primi sviluppi della Società Psicoanalitica Italiana, le vicende dell’adesione e i contributi scientifici dei primi soci ordinari (oltre ai coniugi Weiss, nomi come quelli di Cesare Musatti, Nicola Perrotti ed Emilio Servadio risuonano fino alla nostra storia più recente), della nascita della Rivista Italiana di Psicoanalisi (gennaio-febbraio 1932), che esordì pubblicando temi inerenti il penale, la letteratura, traduzioni di scritti di Freud, che poterono diventare materia di studio per i primi psicoanalisti italiani, i loro primi lavori psicoanalitici. Lo scenario in cui tutto questo si svolge è la Roma del periodo fascista che si prepara alla seconda guerra mondiale. In tale contesto, sotto i colpi inferti dall’élite culturale, dalla censura della chiesa cattolica e del regime fascista, avverrà lo scioglimento della Rivista. Successivamente con la promulgazione delle leggi razziali (18/9/1938) che privavano dei diritti civili i cittadini di ascendenza ebraica, il piccolo gruppo di psicoanalisti italiani, quasi tutti ebrei, furono costretti a nascondersi o ad espatriare. E così si dissolse la giovane scuola psicoanalitica italiana.

Pur contenendo il libro una grande ricchezza di materiali – di cui tanti inediti che ci aiutano a far luce sugli ambivalenti rapporti tra il movimento psicoanalitico e il regime fascista – che Rita Corsa ci espone in dettaglio e con grande rigore, mi sembra opportuno evidenziare i punti che danno spessore a quella che l’autrice ci presenta come la prima psicoanalista italiana: Vanda Shrenger Weiss.

Quindi tornando a Vanda, è nel suo percorso di vita che troviamo le ragioni della sua duttilità, della sua tenacia. Quintogenita di nove figli, proveniente da una famiglia croata di ascendenza ebraica, la sua biografia si intreccia con i periodi più drammatici della storia europea: il primo conflitto mondiale, le rivoluzioni e le dittature degli anni venti e trenta, la persecuzione antisemita nell’Europa Orientale, che decimò la sua famiglia d’origine. Infine le leggi razziali introdotte nell’Italia fascista, che indussero i Weiss a rifugiarsi in America e segnarono l’ultima parte del loro percorso.

Vanda conosce Edoardo Weiss a Vienna dove entrambi frequentano sia la facoltà di Medicina che le lezioni di psicoanalisi tenute dal Professor Freud il quale, diversamente dagli altri professori, dimostra un grande apprezzamento per la studentessa croata. Mentre i due giovani fanno progetti per il futuro in Europa scoppia la grande guerra. Tornano nel 1919 in una Trieste restituita all’Italia, ma potentemente lacerata da conflitti tra i diversi nazionalismi. Mentre Edoardo comincerà a lavorare come psichiatra presso il Civico Frenocomio e come psicoanalista privatamente, Vanda inizia a praticare come pediatra, influenzata dalla triestina Evelina Ravis, una pioniera della neuropsichiatria infantile.

Un primo elemento che fa di Vanda Weiss la prima psicoanalista italiana, e con un interesse specifico, è questo. Cosa insolita per quei tempi avvicinerà la sofferenza infantile con un nuovo approccio in cui sono presenti il suo bagaglio teorico-tecnico di provenienza freudiana ed il bagaglio medico pedagogico con cui la Ravis cercava di prendersi cura di quei bambini difficili che per carenze costituzionali ed ambientali presentavano all’inizio difficoltà scolastiche poi tendenze antisociali. Non fa pensare tutto questo al lavoro di Winnicott e di Bowlby con bambini ed adolescenti simili, che erano diventati un grosso problema durante e dopo la seconda guerra mondiale?

Anche il commento di Vanda (pubblicato sulla Rivista di Psicoanalisi nel 1932) al lavoro di Hanns Sachs Bubi Calguta (Caligola fanciullo) sembra seguire questo filone d’interessi. Cerca infatti una comprensione del tiranno partendo dall’indagine della sua prima infanzia e adolescenza.

Sempre nella Rivista di Psicoanalisi del ’32 esce il suo primo lavoro psicoanalitico “La realtà nella fantasia”. È un lavoro di ampio respiro che studia quanto le fantasie sono percepite come reali e come non si possa godere di esse se non le si vive come tali. È un fenomeno analogo a quello che si registra al risveglio da sogni molto intensi e più in generale dopo stati mentali confusionali. Questo fenomeno viene studiato nelle diverse psicopatologie e permette di differenziare il livello di compromissione dell’io che può risultare in ognuna di esse.

Le analisi personali di Vanda sono due. Nel 1936 una prima corta tranche “ortodossa” con Margarete Ruben, un’analista formatasi a Berlino, per qualche tempo iscritta alla SPI, cui Weiss ha inviato oltre alla moglie anche un nipote affetto da una patologia grave. Una seconda (1937-1939) con Ernest Bernhard. Quest’ultimo, pure formatosi presso l’Istituto Psicoanalitico di Berlino, aveva fatto una prima analisi con Rado ed una seconda autoanalisi con la supervisione di Fenichel, poi colloqui con Jung e altre sessioni analitiche con analisti junghiani. Bernhard (1937) era un tenace sostenitore dell’integrazione tra la psicologia freudiana e quella junghiana del profondo e si rammaricava che questo fosse di così difficile realizzazione. Su questa base si può ipotizzare come una volta emigrata in America sia stato agevole per Vanda il passaggio all’Istituto Psicoanalitico Junghiano di San Francisco di cui fu uno dei primi membri.

La storia delle analisi di Vanda, come quelle di molti altri componenti del primo gruppo italiano, “è un argomento piuttosto sdrucciolevole” (Corsa, 2017). Con molta sincerità anche Emilio Servadio (1965) ha affermato che “la preparazione analitica personale dei primi analisti italiani lasciava molto a desiderare”. Penso che abbia contribuito a questo: la scarsità di analisti italiani sufficientemente formati e la loro distribuzione nelle varie città, la grande difficoltà di recarsi per l’analisi all’estero, come aveva fatto Edoardo Weiss, sia per motivi di lingua che di possibilità di espatrio e di rimanere a lungo in un paese d’oltralpe.  Così gli standard del setting psicoanalitico erano piuttosto lontani da quelli che in un secondo momento abbiamo ritenuto augurabili.

Un’ulteriore angolatura sulla psicoanalista Vanda ci è fornita da un suo elaborato clinico del 1959 “Un esempio di individuazione”, non pubblicato, consegnato come dattiloscritto dalla figlia Marianna a Rita Corsa e incluso tradotto in appendice. È un lavoro scritto dopo il trasferimento a San Francisco e la svolta junghiana. Riporta la storia di una donna proveniente da una facoltosa famiglia greca molto legata alle tradizioni familiari ed alla religione ortodossa per cui il trasferimento in un tessuto socio-culturale di una città californiana degli anni ’50 ha comportato una crisi nella coesione del Sé che si esprime con una grande sofferenza. Sono punti d’interesse nel lavoro:

  1. la qualità dell’utilizzo del controtransfert nel decidere la presa in carico della paziente. La donna è portatrice di una pena per la quale per la quale l’analista avverte “un’intuitiva comprensione” ed “una certa kinship” (affinità, parentela). Sicuramente i ripetuti e traumatici cambiamenti avvenuti nella vita di Vanda possono avere favorito l’immedesimazione con la vita della paziente.
  2. Dare senso alla fluviale produzione onirica della paziente perché Vanda ritiene che la sequenza dei sogni possa illustrare al meglio la dinamica del processo analitico. Secondo Rita Corsa, il modo in cui l’autrice tratta il sogno all’interno della seduta evoca concetti sviluppati molto tempo dopo, come il “terzo analitico” di Ogden.
  3. L’adozione di un modulo terapeutico multidisciplinare in cui, accanto ad un trattamento analitico rigoroso, viene predisposto anche un trattamento farmacologico con uno psichiatra, collega fidato, che possa fornire anche un appoggio al marito, proteggendo così il lavoro analitico da intromissioni.
  4. La puntuale interpretazione del transfert, anche quello negativo, che permette un lavoro a tutto campo sulla relazione analitica.

L’insieme equilibrato di quanto sopra esposto permette alla paziente di produrre sogni in cui trova “cibo greco” nella cucina dell’analista ed entrambe possono goderne. È inutile sottolineare la vicinanza di questo passaggio con quello che troviamo nell’odierna psicoanalisi relazionale.

  1. Nelle pagine finali del lavoro la Shrenger Weiss propone toccanti riflessioni tra il lavoro psichico e la realtà esterna nostra e dei nostri pazienti che, secondo lei, non deve essere mai trascurata da qualcuno che svolga il nostro mestiere. Per lei e per la sua paziente, le cui vite si erano svolte in mezzo ai drammatici cambiamenti dell’Europa nel “secolo breve” fino all’emigrazione nel nuovo continente, questo era particolarmente vero. Ugualmente lo è per noi oggi esposti a cambiamenti inusuali: gli effetti di guerre che non possiamo mai considerare lontane, gli epocali effetti di vicine povertà, la rivoluzione tecnologica e la sua influenza sulla struttura stessa della mente.

 

16 ottobre 2017

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