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Balconi Marcella

8/04/14
Balconi Marcella

Marcella Balconi

A cura di Raffaela Pagano

Marcella Balconi è stata, con Maria Elvira Berrini e Giovanni Bollea, uno dei principali fondatori della psicoanalisi infantile in Italia. Dal 1949 al 1980 ha diretto dapprima un servizio pilota di neuropsichiatria infantile, poi il reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Maggiore di Novara. Nel suo centro si sono formati centinaia di psicoterapeuti ad indirizzo psicoanalitico che, a loro volta, hanno poi fondato e diretto altri centri con caratteristiche affini. Si può dire che molti dei reparti di neuropsichiatria infantile nati in Piemonte (ma non solo) siano sorti quasi per gemmazione dal reparto novarese diretto da Marcella Balconi.

Molti tra gli psicologi e i medici che hanno effettuato il tirocinio a Novara o che hanno lavorato in quel reparto di neuropsichiatria infantile, sono in seguito entrati nella Società Psicoanalitica Italiana. Anche Marcella Balconi era un membro della SPI.

Si era formata nell’immediato dopoguerra, dapprima attraverso uno stage nell’ospedale parigino di Sant’Anna, dove iniziò a collaborare con Serge Lebovici, poi lavorando nel centro medico-pedagogico di Lucien Bovet a Losanna, infine presso il Service médico-pédagogique di André Repond, nella località svizzera di Malévoz.

Il centro istituito da Repond era, in quegli anni, all’avanguardia in Europa e venne frequentato, tra gli altri, anche da Lebovici, Berrini e Bollea. Era un centro nel quale veniva richiesta una formazione psicoanalitica e Marcella Balconi intraprese un’analisi con N. Beno che si concluse nel 1953.

Ai tirocinanti che lavorarono nel suo reparto di Neuropsichiatria infantile, Marcella Balconi non richiese però mai di fare un’analisi personale, anche se appoggiò e sostenne la scelta di coloro che decisero di intraprenderla. Il suo obiettivo era quello di creare una struttura diffusa capillarmente nel territorio, gestita da operatori ai quali erano affidate mansioni diverse, con un processo di formazione permanente, sempre condotto, però, all’interno di un’ottica psicoanalitica.

Il ruolo e il peso di Marcella Balconi nello sviluppo della psicoanalisi non solo infantile in Piemonte e in altri contesti geografici è stato di assoluto rilievo, come testimoniano coloro che hanno avuto modo di formarsi e di collaborare con lei.(1) Di questa sua attività, condotta per quarant’anni nel centro di Novara, e poi attraverso un numero rilevantissimo di supervisioni negli anni successivi, restano però testimonianze scritte relativamente esigue. C’è infatti una assoluta sproporzione tra la mole di lavoro che Marcella Balconi svolse e i libri che ha scritto.(2)

Per spiegare questa discrepanza, si è detto di lei che fosse soprattutto una clinica e non una teorica. Il che, in parte, forse è vero. Ma è anche vero che non esiste una clinica senza una teoria. E viceversa.
E allora qual era la teoria alla quale Marcella Balconi faceva riferimento? I seminari che Marta Harris e Donald Meltzer tennero per molti anni nel centro di Novara, indussero alcuni a qualificarla come kleiniana. Il che, però, non è corretto.

“Non definirei Marcella Balconi una psicoanalista ortodossa – scrive Carla Gallo Barbisio – Non poteva essere collocata facilmente come kleiniana, annafreudiana, winnicottiana o altro: era se stessa”.(3)

BALCONI2In cosa consistesse questa sua singolarità analitica può essere dedotto, anche se solo a grandi linee, soprattutto da un breve testo pubblicato dai Quaderni di Psicoterapia Infantile nel 1984.(4) Era un numero della rivista dedicato proprio alla fondatrice del reparto di Neuropsichiatria infantile di Novara e al tema per lei cruciale dell’osservazione. Raccoglieva i contributi di molti collaboratori del centro novarese e si apriva, letteralmente, con la voce di Marcella Balconi. Il testo raccolto sotto il titolo di “Autobiografia scientifica”, infatti, non era stato scritto da lei, ma consisteva nella trascrizione di una intervista che Marcella Balconi aveva concesso nel 1980 a Francesco Scotti.(5)

In quell’intervista sono contenuti, pur se in estrema sintesi, i principali concetti teorici ai quali Marcella Balconi ha fatto riferimento per tutta la vita. Sono espressi in modo semplice e piano, con un linguaggio che non ha quasi nulla di tecnico, e ciò nonostante essi contengono spunti che sono di grande attualità e interesse nell’odierno dibattito teoretico in ambito psicoanalitico.

Sono concetti che riguardano il ruolo e la figura del terapeuta, i suoi rapporti con i pazienti, la trasmissione del sapere psicoanalitico, il metro di valutazione riguardo a normalità e patologia, gli strumenti e gli obiettivi della cura, il peso e l’incidenza della realtà esterna nel costituirsi del mondo interno.

Partirò proprio da quest’ultimo punto per descrivere in modo un po’ più approfondito il pensiero di Marcella Balconi. Lo farò ricorrendo a un aneddoto riportato da quasi tutti i suoi collaboratori. Quando un medico o uno psicologo veniva accolto nel reparto di neuropsichiatria di Novara, il primo approccio lavorativo consisteva in un “viaggio nella realtà”. Marcella Balconi portava i nuovi arrivati nei quartieri, nei paesi, nelle scuole e negli asili dove vivevano coloro che sarebbero stati i loro pazienti.(6) Il perché, lo spiegava in questo modo: “Non è solo il mondo interno l’oggetto del nostro lavoro, ma vi è, come elemento costitutivo, anche lo scontro con la realtà”.(7)

La necessità che la muoveva era quella di avere una visione globale: del contesto sociale e del territorio, del contesto famigliare e transgenerazionale e poi del singolo paziente nella sua totalità. Il punto di arrivo era quello di creare “una medicina di territorio di tipo longitudinale”(8).

Lo strumento primario di questo percorso, ovviamente, era l’osservazione: “Quando ho iniziato ad insegnare, tra le prime cose insegnavo proprio come osservare il bambino. Dicevo, fino a diventare noiosa: osservate bene il bambino che entra. Cominciate ad osservarlo fin dalla porta. Guardate come è vestito, guardate come è pettinato, come vi guarda, come muove le mani. Guardate tutto, perché solo così potrete avere una visione di insieme del bambino. L’osservazione vi dice se in famiglia è curato o non è curato, quali sono le condizioni economiche. Il suo sguardo vi rivela se vi vede come un amico o come un nemico. I movimenti hanno il profondo valore di esprimere quelle tensioni che ancora non si esprimono con la parola”.(9)

Era l’osservazione lo strumento che consentiva di cogliere l’essenza della relazione tra madre e bambino e quindi capire aspetti fondamentali della realtà interna del paziente. ” Se osservi una situazione a due, evidenzi tutti i rapporti che esistono tra quei due ed anche i fantasmi che quando il bambino è piccolo sono nella madre e quando il bambino è più grande sono nel bambino”.(10)

Ma, soprattutto, era importante, anzi, essenziale, il modo in cui si conduceva l’osservazione e lo spirito che animava l’atteggiamento del terapeuta.

“Nel nostro lavoro, osservare significa osservare la vita …. Quando osservi, vai incontro a dei rischi. Il primo è quello di devitalizzare l’oggetto di osservazione; poi di vedere solo una parte o un settore di realtà. Osservare vuol dire acquisire la capacità di vedere un insieme, un tutto unitario….tu devi avere sempre la carica umana che ti fa ricercare l’intero e non la parte: l’interesse per una persona viva, non per i pezzi di una persona. Quando incominci ad osservare in questo modo ti rendi conto di avere delle emozioni, di vivere il rapporto in un certo modo. Prendi coscienza che l’individuo che osservi è pieno di vita come te. Qui la psicoanalisi dà un serio contributo nel far vedere che le problematiche del tuo malato sono anche le tue. Incominci ad avere verso il malato quell’atteggiamento che è l’unico possibile se vogliamo portare avanti un discorso nuovo che è di rispetto dell’altro. Si instaura un dialogo per cui impari da lui e lui da quello che tu sai. Si stabilisce cioè un rapporto di parità. Io ho il compito di guarire il malato; il malato insegna a me a guarirne un altro o a migliorare me stessa”.(11)

La visione di Marcella Balconi sul rapporto con il paziente, e quindi sul ruolo e sull’atteggiamento del terapeuta, precorreva dunque alcuni degli spunti teorici che oggi sono oggetto di intenso dibattito.

Non stupisce che Marcella Balconi, pur essendo membro associato della SPI, non abbia mai voluto partecipare in modo più attivo alle vicende societarie. “A me bastava essere psicoanalista …. Il non essere membro ordinario mi lasciava un ampio margine di movimento”.(12)

Questo “margine di movimento” comprendeva anche la libertà di provare delle emozioni, di mettersi sullo stesso piano del paziente pur non cadendo nell’errore di una falsa simmetria, di ammettere che il paziente poteva insegnarci qualcosa anche riguardo al nostro stesso mondo interno. Non erano esattamente questi, i canoni ufficiali della psicoanalisi negli Anni Sessanta e Settanta.

Ma Marcella Balconi andava ancora oltre: “Quando ho iniziato a preparare persone per la psicoterapia, andavo contro corrente. Allora si parlava solo di analisi classica e si diceva che la psicoterapia deve essere fatta solo da persone analizzate. Io, al contrario, preparavo i giovani del servizio a fare la psicoterapia anche se non erano analizzati”.(13)

Ciò che la infastidiva era un concetto per molti versi élitario di psicoanalisi, che contrastava fortemente con il suo impegno politico e sociale.(14) Asseriva che la psicoanalisi doveva essere a carico di una istituzione e che non doveva comportare esborsi ingenti di denaro da parte dei pazienti. La speranza che la muoveva (e per la quale operava attivamente in prima persona) era quella di consentire a tutti, anche ai meno privilegiati, di poter usufruire di cure fino a quel momento riservate solo alle classi più abbienti.

Era la speranza di coloro che, come lei, avevano fatto la Resistenza e che volevano trasformare un Paese arretrato e classista in una democrazia moderna con un sistema di assistenza sanitario efficiente e diffuso capillarmente nel territorio. La scelta di formare psicoterapeuti anche non analizzati andava proprio in questa direzione: c’era molto lavoro da fare, e bisognava farlo in fretta. C’era bisogno di personale qualificato a svolgere funzioni psicoterapiche di base per le quali un’analisi personale non era da lei ritenuta indispensabile. Certo, chi, tra i suoi tirocinanti, poteva e sceglieva di intraprendere un’analisi personale, aveva tutto il suo appoggio. La sua immagine ideale dello psicoterapeuta non era affatto un’immagine riduttiva e sminuente. Al contrario. Nella sua ottica, non solo il terapeuta doveva avere il più alto livello possibile di conoscenze psicoanalitiche, ma doveva averne anche altre di carattere più generale: “Non credo sia possibile fare il nostro lavoro senza avere basi umanistiche: la conoscenza della storia, il piacere dell’arte. L’individuo non è mai avulso dalla società in cui vive, dalla storia del pensiero. Anche per la patologia vale questo legame con la cultura, con il costume”.(15)

In altri termini, non solo il terapeuta doveva operare in modo da avere una visione globale del paziente e del territorio in cui risiedeva, ma anche della società nella quale tutti, pazienti e terapeuti, vivevano.

La società nella quale Marcella Balconi incominciò a lavorare agli inizi degli Anni Cinquanta era una società nella quale non era neppure ben definito il concetto più elementare di patologia. Il bambino che “recava disturbo”, soprattutto se apparteneva ad una classe sociale bassa, aveva buone probabilità di vedersi rinchiuso in una istituzione che certamente avrebbe aggravato i suoi problemi. Il primo impegno di Marcella Balconi fu quello di organizzare uno screening capillare nella scuola primaria e negli asili: “Mi sono posta il problema di quali parametri di riferimento usavo quando dicevo che un bambino era normale o no. Mi sono detta: se vediamo tutti i bambini della nostra città, di una certa età, ci rendiamo conto delle problematiche di questa età. A partire dall’insieme della popolazione potremo dire chi è malato e chi è sano”.(16)

Poi, ovviamente, si trattava di curare chi ne aveva la necessità.
Il fatto che noi, oggi, consideriamo tutto questo quasi come scontato, significa che il lavoro svolto da Marcella Balconi è stato proficuo.

Credo che Marcella Balconi si sia dedicata quasi esclusivamente alla psicoanalisi infantile e non a quella degli adulti perché era convinta, e con ragione, che i bambini fossero i soggetti più deboli e che quindi abbisognassero maggiormente delle sue cure. Curare i bambini significava aiutarli a diventare adulti sani. Cioè a rendere la società, nel suo complesso, migliore.

Io credo però (ma questa è solo una mia ipotesi) che ci fossero anche altre ragioni alla base di questa sua scelta. Ragioni che forse hanno a che fare proprio con il tipo di rapporto che lei tendeva ad instaurare con i suoi piccoli pazienti, e cioè un rapporto, anche, emozionale.

Oggi questo non ci stupisce affatto, ma negli anni nei quali operava Marcella Balconi, il ruolo dello psicoanalista, e in particolar modo nel setting con gli adulti, le emozioni erano ufficialmente bandite. Una psicoanalisi classica, con il paziente sul lettino, non le avrebbe inoltre consentito di instaurare una relazione attraverso uno strumento che lei considerava fondamentale nella terapia con i bambini: lo sguardo.

Il “vedersi” era per Marcella Balconi il mezzo fondamentale attraverso il quale avveniva la comunicazione più profonda tra terapeuta e paziente: “Lo stare di fronte al terapeuta, seduti al tavolo, il poter volgere costantemente lo sguardo a lui e trattenere a loro volta i suoi occhi permette ai bambini una comunicazione che si fa man mano più intensa, dove si intrecciano lo sguardo, l’agire disegnando, il lasciarsi andare, il parlare, l’intendersi e il difendersi in un periodo evolutivo in cui l’espressione puramente verbale non può ancora essere mezzo privilegiato per comunicare sentimenti complessi”.(17)

Oggi noi sappiamo che il verbo non è affatto l’unico strumento di cui disponiamo anche nelle terapie con gli adulti. Anzi, ci siamo resi conto che la parola è spesso insufficiente e inadeguata per raggiungere traumi che sono avvenuti in ambiti psichici così arcaici da precedere la capacità di parola. Ampi filoni della psicoanalisi contemporanea si stanno muovendo in questa direzione. Credo che la psicoanalisi infantile, e con essa Marcella Balconi, ci abbia fornito indicazioni preziose sulla strada da percorrere.

E’ una strada nella quale non è più in gioco solo l’inconscio del paziente, ma, nell’ambito della relazione, anche quello dell’analista, a cui è richiesta una capacità di comprensione che va oltre la cosiddetta razionalità del livello conscio.

Per definire questa capacità di comprendere attingendo a risorse profonde che sfuggono a tutte le teorie codificate, noi a volte usiamo il termine di “intuizione”. Lo usava anche Marcella Balconi, ma senza attribuirgli alcunché di misterioso. “In realtà – diceva – l’intuizione si costruisce acquistando la capacità di osservare e poi di sintetizzare. Ad un certo punto, questo processo avviene con estrema rapidità. Esso viene chiamato intuizione solo da coloro che non si rendono conto della natura del processo. Tutti possono imparare ad avere intuizione”.(18)

E’ una affermazione rassicurante, ma niente affatto scontata. Chi ha avuto l’opportunità, ad esempio, di osservare la capacità quasi magica che Marcella Balconi aveva di “leggere” i disegni dei bambini, individuandone particolari e significati apparentemente invisibili, non può far altro che dubitare che questa attitudine possa essere in qualche modo insegnata e appresa.

Uno dei pochi testi firmati da Marcella Balconi è contenuto nel libro “Il disegno e la psicoanalisi del bambino”. (19) Ha come titolo “Il ciccione e il tetaccio” e riguarda i disegni di un bambino di quattro anni e mezzo, portato al servizio di neuropsichiatria infantile perché presentava problemi di linguaggio. Marcella Balconi ne analizza, commenta e interpreta i disegni. Lo fa servendosi della sua esperienza e delle sue capacità, ma, soprattutto, facendosi aiutare da quanto Paul Klee scrisse nei suoi diari e nel suo testo sulla teoria della forma e della figurazione.

La psicoanalisi, a partire da Freud, ha spesso interpretato il lavoro degli artisti. Ma è assolutamente inconsueto che uno psicoanalista assegni a un artista il compito dell’interpretazione.

Marcella Balconi lo ha fatto.

Nella sua autobiografia scientifica afferma: “Ho sempre insegnato tutto quello che sapevo”.(20)

Peccato che non tutto si possa imparare.

1) Vedi “Grazie Marcella”, Quaderni ArsDiapason 2009, che raccoglie, a dieci anni dalla sua morte, le testimonianze di molti di coloro che hanno lavorato con lei.
2) In “Grazie Marcella”, op. cit., Germana De Leo racconta che “nelle sue ultime settimane di vita Marcella Balconi si chiedeva se fosse il caso di rammaricarsi per non aver scritto e pubblicato con compiutezza il suo pensiero teorico e le sue esperienze di analista-neuropsichiatra infantile, avendolo affidato quasi esclusivamente alla trasmissione orale”. Pag. 12.
3) Ibidem, pag. 74.
4) “Quaderni di Psicoterapia infantile n. 4”, Borla Editore 1984, pagg. 8-20.
5) Ibidem, pag. 8.
6) “Mi disse che non avrei potuto fare bene il mio lavoro con i bambini in ospedale senza conoscere il contesto, senza rendermi conto delle diverse realtà da cui essi provenivano e in cui vivevano” . Carla Gallo Barbisio in “Grazie Marcella”, op. cit. pag. 70.
7)Quaderni di Psicoterapia Infantile n. 4, op. cit. pagg. 15-16.
8) Ibidem, pag. 11.
9) Ibidem, pag. 14.
10) Ibidem, pag. 14.
11) Ibidem, pagg. 18-19.
12 ) Ibidem, pag. 15.
13) Ibidem, pag. 15.
14) Marcella Balconi ricoprì in varie riprese e in più epoche il ruolo di assessore, di sindaco e anche di deputato al Parlamento nelle fila del Pci.
15) Ibidem, pag. 20.
16) Ibidem, pag. 10.
17) Marcella Balconi – G. Del Carlo Giannini, “Il disegno e la psicoanalisi infantile”, Raffaello Cortina Editore 1987, pag. 5.
18) “Quaderni di Psicoterapia infantile n. 4”, op. cit. pag. 19.
19) Op. cit.
20) “Quaderni di Psicoterapia Infantile n. 4”, op. cit. pag. 16

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