La Ricerca

“L’Al di là del principio di piacere è la fine del piacere?” A. Baldassarro

30/12/22
Bozza automatica 47

ANISH KAPOOR 2016

Parole chiave:tensione; presa; dissolvimento; morte; godimento

Abstract È con la cosiddetta “svolta degli anni ’20” che il ruolo svolto dal principio di piacere è stato fatto oggetto da parte di Freud di un ripensamento e di una interrogazione sulla sua funzione all’interno dell’apparato psichico. Il principio di piacere si pone come una funzione che si sforza di esercitare una presa, un controllo su una tendenza che andrebbe, se lasciata a sé stessa, a mettere in crisi l’esistenza stessa del soggetto. Ma se il piacere è sia tensione che allentamento della tensione, non è forse questo il godimento, la jouissance? “Al di là” del principio di piacere, sembra allora volerci dire Freud, c’è proprio il piacere ultimo, lo scioglimento definitivo dei legami, la dissoluzione del tutto, la perdita dei confini. Ovvero quando, con la morte stessa, il piacere massimo si realizza estinguendosi.


Ospitiamo il contributo di Andrea Baldassarro

“L’Al di là del principio di piacere è la fine del piacere?”

Pubblicato in Notes per la psicoanalisi, n. 16, 2020, Roma, Alpes.

Andrea Baldassarro

“L’Al di là del principio di piacere è la fine del piacere?”

Nulla è più difficile da far ammettere a un paziente che l’esistenza di un piacere inconscio nel dolore

A. Green, Pourquoi les pulsions de destruction ou de mort?, p. 208

Situazione della psicoanalisi

La questione del piacere costituisce uno dei più misteriosi e affascinanti problemi con cui l’essere umano si misura da sempre e che ha sempre costituito un’interrogazione non solo per i filosofi ma anche per l’uomo comune. La psicoanalisi ha posto al centro della propria riflessione questa problematica con la contrapposizione tra principio di piacere e principio di realtà e, al di là delle apparenze, stabilendo un primato del primo sul secondo: è la realtà psichica, più di quella materiale, a determinare il comportamento umano e la vita affettiva e cognitiva. Anzi, potremmo dire che non c’è opposizione sostanziale tra principio di piacere e principio di realtà, che è di fatto sottomesso al primo, in quanto costituisce soltanto una diversione che tiene conto della realtà appunto ma solo per giungere comunque ad un soddisfacimento, anche se differito. È il piacere, anche nelle sue forme più insolite, a determinare le vie per raggiungerlo, e non dimentichiamo che Lust, in tedesco, vuol dire non solo piacere ma anche desiderio e godimento.

È comunque con la cosiddetta “svolta degli anni ’20” che il ruolo svolto dal principio di piacere è stato fatto oggetto di un ripensamento e di una interrogazione sulla sua funzione all’interno dell’apparato psichico. Certamente Freud ha sempre cercato di poggiare le fondamenta della sua costruzione teorica su un terreno il più solido possibile, spesso riferendosi alla biologia. Ma allo stesso tempo egli ha anche sostenuto la necessità di una fondazione autonoma della psicoanalisi, e pur volendola annoverare nel consesso delle scienze, ha sempre pensato che, occupandosi dell’inconscio, fosse inevitabile riferirsi ad una sorta di statuto particolare sul piano epistemologico. La psicoanalisi – ed è questo un problema particolarmente sentito ai nostri giorni – non ha bisogno, per fondarsi, di riferirsi ad altre discipline che ne giustificherebbero l’esistenza. In ogni caso, con l’introduzione della seconda topica, Freud cerca di trovare nuove strade per affrontare i problemi che con la triade conscio-preconscio-inconscio non trovavano soluzione, in particolare per quanto riguarda la distruttività umana. Green fa notare che esistono in verità non due teorie o due topiche, come usualmente si ritiene, ma piuttosto tre: se un tempo – nella prima topica – la contrapposizione era stata infatti tra pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali, con l’introduzione del narcisismo anche le pulsioni dell’Io assumono carattere libidico, “e prendono come oggetto l’Io stesso del soggetto” (Freud, 1920, n.1 p. 146). Vengono così distinte pulsioni dell’Io e pulsioni oggettuali, entrambe di carattere libidico. Ma la terza e definitiva topica – che è quella introdotta in Al di là…. e poi concettualizzata ne L’Io e l’Es del 1922 – deve misurarsi con la distruttività in contrasto con le pulsioni libidiche (dell’Io e oggettuali), distruttività presente nell’Io stesso: questione di non poco conto per lo sviluppo della concettualizzazione successiva, basti pensare alla questione della scissione dell’Io – o meglio nell’Io – che occuperà Freud fino alla fine della sua riflessione. La contrapposizione definitiva, a questo punto, sarà allora quella tra pulsioni di vita (Eros) e pulsioni di morte (Thanatos). L’evoluzione successiva all’introduzione del concetto di pulsione di morte sarà infatti poi legata alla sempre maggiore attenzione ai fenomeni di scissione, che non saranno più di pertinenza delle sole perversioni o delle psicosi, ma apriranno il campo all’investigazione della colpevolezza, del masochismo e della reazione terapeutica negativa, particolarmente presente negli stati-limite, in cui a fare problema è – non a caso – la difficoltà, se non l’impossibilità, a rappresentare l’assenza. Torna così la centralità del Fort-da, il famoso gioco del rocchetto del nipotino di Freuddescritto in Al di là…,ovvero della necessità per il soggetto in costruzione di padroneggiare l’angoscia dovuta all’assenza dell’oggetto.

Fenomeni di ripetizione

In ogni caso, le questioni affrontate in “Al di là del principio di piacere” riprendono i problemi già sollevati a proposito della ripetizione in Ricordare, ripetere, rielaborare del 1914: in questo saggio la ripetizione veniva messa in contrapposizione alla rimemorazione, e considerata come un tentativo di superamento della censura, una scarica nell’azione di ciò che non può essere ricordato ed elaborato. La ripetizione sarebbe insomma un richiamo ad eventi traumatici, che si manifesta sul piano clinico in impasses ed agiti, e il compito dell’analista è quello di ricondurre questi elementi al passato: il paradosso è infatti che non è reale ciò che è attuale, ma piuttosto ciò che appartiene invece al passato. Ma la ripetizione indica anche una resistenza, ed è l’Io stesso implicato in questa resistenza. Infatti, anche il transfert, che è indubbiamente una delle forme della ripetizione, è essenzialmente resistenza in Freud, e in Lacan indice di un incontro sempre fallito: “Se il transfert è ripetizione, sarà ripetizione dello stesso fallimento” (Lacan, 1973, p. 145). Perché nella ripetizione si ripete sempre un incontro mancato, quello con il reale cui in effetti non corrisponde, nella triade lacaniana reale-immaginario-simbolico, nulla. Mentre è al simbolico che la ripetizione fa riferimento, vi è per così dire ancorata, vi fa indice, così come la reminiscenza è di pertinenza dell’immaginario. L’incontro con il reale è sempre mancato perché il soggetto cerca di ritrovare ciò che non solo è perduto per sempre ma non c’è mai stato: ovvero la tyche che giace dietro l’automatòn, dietro l’insistenza del ritorno ripetitivo. Quello che il soggetto cerca di ritrovare, il reale, è di fatto inscritto nella propria economia immaginaria e soggetta alle leggi della ripetizione simbolica. Cercando infatti di ritrovare, attraverso la reminiscenza, l’oggetto che un tempo suscitò il primo investimento amoroso, il soggetto si trascina, di fatto, lungo la catena interminabile delle sostituzioni metonimiche dell’oggetto mancante. E tutti gli oggetti che gli si fanno incontro, e che ri-trova grazie ai fenomeni ripetitivi di transfert, non sono neppure dei sostituti, perché anche l’oggetto che appare oggi irraggiungibile di fatto non c’è mai stato, ma sarebbe frutto della costruzione immaginaria del soggetto. Ciò che è reale di fatto – in questa suggestiva quanto rigorosa disamina lacaniana – è dunque la mancanza stessa, non il suo oggetto. Questione che ridisegna del tutto la problematica non solo del desiderio ma anche del piacere stesso.    

In fondo, la ripetizione in un certo senso protegge proprio dall’incontro con il reale: perché è proprio l’irruzione del reale a provocare l’angoscia, ne è un segnale. Tuttavia, se c’è angoscia, c’è comunque la possibilità di una forma di legame: i sintomi ossessivi riescono a legare l’energia libidica – che allo stato libero genera appunto angoscia – così come quelli isterici, che producono quei sintomi singolari che implicano sempre un coinvolgimento del corpo. E proprio l’aspetto della necessità del legame, della Bindung, sarà decisivo nella teorizzazione (speculazione, nelle parole dello stesso Freud) del Lustprinzip: “Insomma, la necessità del legame sopravanza la ricerca del piacere” (Green, 2007, p. 44).

La ripetizione che si manifesta nel transfert è allora l’indice di un fallimento della rimozione, in quanto piuttosto che un sintomo si produce un ritorno dello stesso, un indice della ripresentazione di un fatto traumatico che il soggetto non è in grado di governare, e che per questo fa insistentemente ritorno. La ripetizione, cos’è allora? Ricerca di qualcosa di perduto, o tentativo di padroneggiare “a posteriori” un evento traumatico, di liberarsi della sua memoria? Forse torna utile al proposito la distinzione che de M’Uzan traccia quando giustappone il ritorno del medesimo a quello dell’identico (de M’Uzan, 1977), attribuendo al primo la possibilità di una “plasticità” psichica, che può essere creativa e lasciare spazio alla diversità, ad una “variazione sul tema” che non sia il ritorno invece dell’identico, che costringe invece il soggetto a seguire sempre le stesse vie della ripetizione e a non potersi così mai liberare degli effetti del trauma. Si tratta allora, forse, di governare attivamente ciò che si è subito passivamente, nel tentativo di rendere tollerabile per l’economia psichica del soggetto quello che un tempo è stata fonte di sofferenza.

La ripetizione perturbante

Contemporaneamente alla stesura di Al di là…, Freud scrive anche Il perturbante, nel 1919. Non è certo un caso, in quanto nei fenomeni di ripetizione Freud già vedeva qualcosa di sinistro, di inquietante. Il perturbante cos’è infatti, se non qualcosa che dovrebbe essere rimosso e invece affiora alla coscienza, ciò che pur essendo spaventoso ci è tuttavia familiare? Heimlich infatti, come il suo opposto Unheimlich, che non è propriamente un opposto ma suggerisce piuttosto una differenza, indica qualcosa che richiama – nella sua radice Heim – il focolare, la patria, il luogo natìo, ma allo stesso tempo ciò che è nascosto, celato, segreto, e che dunque può non può che evocare qualcosa di sinistro, di lugubre, finanche di demoniaco: tutti caratteri che Freud ascrive alla coazione a ripetere, e che evoca la presenza dell’altro dentro il soggetto stesso.

La ripetizione è allora conservazione e invarianza, fallimento della rimozione ma allo stesso tempo tentativo di liberarsi della memoria del trauma. La ripetizione richiama il medesimo, ma non è esattamente l’identico (come suggerisce de M’Uzan), in quanto presuppone anche una possibilità, uno scarto, ovvero una possibilità di “legare” il fatto traumatico che viceversa si ripresenta di continuo, cercando così una soluzione. Si tratta insomma di padroneggiare retrospettivamente – in maniera attiva – ciò che si è stati costretti a subire, in un tempo passato, passivamente. Come per il transfert, ciò che si ripete indica certamente un ostacolo, ma proprio questo indice suggerisce un “luogo” psichico che fa problema, e che dunque mostra una strada, una via di possibile soluzione: come per il delirio, forse la ripetizione indica anch’essa un tentativo di guarigione, o almeno di superamento dell’insistenza dell’automatismo di ripetizione stesso. Se non fosse per il masochismo originario e la pulsione di morte…

Pulsioni di vita, pulsioni di morte

In ogni caso, l’aspetto più problematico dell’“al di là” del principio di piacere sta, lo sappiamo bene, nell’introduzione della pulsione di morte, concetto che Freud non vorrà più abbandonare, a dispetto della sua problematicità e della perplessità – se non franca opposizione – che aveva suscitato nei suoi più stretti collaboratori e che a tutt’oggi solleva una notevole diffidenza nel campo psicoanalitico, con poche ma significative eccezioni, a partire dalle considerazioni di Melanie Klein. Eppure, se la pulsione viene definita come un ritorno ad uno stato di cose precedenti, la pulsione di morte risulta essere la pulsione per eccellenza, avendo come proprio orizzonte quello di far tornare il soggetto ad uno stato iniziale, precedente l’esistenza o la vita stessa, che è caratterizzata da uno stato di tensione perenne e di turbolenza fisica, affettiva e relazionale. Mentre la pulsione di morte aspira ad una sorta di equilibrio definitivo, di annullamento delle tensioni, di raggiungimento di uno stato di equilibrio senza spinte né aspirazioni, che Freud ascrive al “principio del Nirvana”. Essa lavora “silenziosamente”, apparentemente sottomessa al suo padrone, il principio di piacere, che è in realtà al suo servizio. Ma la pulsione di morte non è tuttavia necessariamente una spinta alla distruttività, come spesso viene spesso pensata, ma va considerata come un semplice tentativo di annullamento delle tensioni: è “desiderio di non desiderio” (Aulagnier, 1975).

La questione di fondo è allora: se la pulsione per eccellenza è la pulsione di morte (ovvero un ritorno ad uno stato di cose precedente), come conservare il dualismo pulsionale, se in fondo ogni pulsione si riduce ad una sola fondamentale? Freud non ha mai smesso di essere dualista, ed anche in questo caso pulsioni di vita e pulsioni di morte non possono essere considerate indipendentemente l’una dall’altra, ma solo come un’articolazione perenne che vede le due pulsioni intrecciarsi e misurarsi insieme. Allora, o consideriamo una sola pulsione decisiva, che tende allo slegamento definitivo e al “Nirvana”, e che coincide con la jouissance come godimento ultimo, come dissoluzione finale; oppure, si fa contrapporre – o meglio, confrontare – alla deriva verso la quiete ultima e definitiva  della pulsione di morte la liaison della pulsione di vita, al narcisismo negativo il narcisismo di vita di cui parla André Green che tende a costruire, a creare legami, e che è anche, non dimentichiamolo, la direzione della cura analitica: “Il narcisismo appare come il nodo più centrale delle pulsioni di vita, come l’asse portante di tutto l’edificio futuro dell’Io, il solo a poter esercitare una resistenza organizzata nei confronti delle pulsioni di morte, e tuttavia bisogna considerare che questo nodo centrale è assai vulnerabile” (Green, 2007, p. 53). Il narcisismo costituisce in effetti un trait d’union tra pulsioni di vita e pulsioni di morte, in quanto protegge la vita ma allo stesso tempo mostra una “vocazione annientante”, quella del narcisismo negativo, “che è senza dubbio una delle forme più devastanti della pulsione di morte” (ibid., p. 49).

Lo stesso Green fa notare anche che l’introduzione della pulsione di morte si fonda su di un’ipotesi filogenetica, dunque diacronica. E dunque che la pulsione di morte non può essere per Freud che quella più originaria, “la pulsione primaria, quella che vorrebbe annullare le tensioni nate dall’introduzione della vita nella materia inerte” (Green, 2007, p. 44). Mentre in un’altra prospettiva, al contrario sincronica, si dovrebbero porre sin dall’inizio pulsioni di vita e pulsioni di morte (ibid., p. 14 e pp. 29-30). Insomma, come non si dà vita senza morte, o viceversa, non si dà pulsione di vita senza pulsione di morte, con quest’ultima che cerca di riportare l’organismo alla sua condizione originaria, l’inanimato, e la prima che cerca invece continuamente di differire, di riportare indietro la corsa verso l’annullamento di sé.

“Appoggi” biologici: l’apoptosi

C’è da dire che Freud ha trovato una – forse insperata – fonte di appoggio alle sue tesi nella biologia contemporanea, ed in particolare nel concetto di “apoptosi”, ovvero nella scoperta che le cellule prevedono nel loro programma genetico una sorta di “auto-soppressione”, di autodistruzione insomma, non fosse altro che per rendere possibile la comparsa e lo sviluppo di altre cellule, insomma la prosecuzione della vita stessa e della specie. La vita consisterebbe insomma nella negazione di un evento negativo che è in realtà la morte, la quale si trova dunque – come recita il titolo del libro di Jean Claude Ameisen, al cuore della vita stessa.  

Resta comunque sempre un problema di difficile soluzione: non solo che la morte è destinata a trionfare sempre, inevitabilmente, ma soprattutto che ci si deve misurare di continuo con un confronto e un impasto (intrication in francese) pulsionale, nel quale il piacere è dato da ciò che si colloca tra un prima della “presa” (anche autoerotica) sull’oggetto e un dopo dato dalla scarica. Qui si colloca la questione della rappresentazione e dell’assenza dell’oggetto e delle vie alternative al soddisfacimento della pulsione, come può avvenire ad esempio attraverso la sublimazione. Il piacere – anche se nessuno, come suggerisce in qualche modo Freud, può veramente dire in cosa consista – è dato dunque non solo dalla pulsione nel suo esercitare una presa, un potere, ma è anche preparazione, tensione in atto, che consente poi l’accesso alla scarica, in cui si realizza forse il massimo del piacere. E la tensione viene in genere percepita come un dispiacere, tanto che l’apparato psichico cerca di evitarla, o almeno di ridurla. Ma la tensione stessa è anch’essa fonte di un certo piacere, e il dispiacere avvertito come tale in una regione dell’apparato psichico può costituire invece un piacere in un’altra. Il piacere – questo è il paradosso che la psicoanalisi ha mostrato – può essere esperito anche come dispiacere. E al di là del principio di piacere – senza essere necessariamente in opposizione ad esso – esiste una tendenza che non ricerca necessariamente il piacere ed evita il dispiacere. Piacere e dispiacere non sono allora nettamente distinguibili, tanto che Freud sarà costretto ad ammettere un masochismo primario, originario, frutto di una “co-eccitazione libidica” (Freud, 1924, p. 127), in cui dolore e piacere sono strettamente legati, di fatto non separabili, e dunque indistinguibili. Masochismo che ripropone la questione di una distruttività rivolta all’interno del soggetto e che si riversa poi all’esterno come reazione terapeutica negativa, in cui l’oggetto di transfert è odiato ma allo stesso tempo vincolato indissolubilmente al soggetto: l’odio precede infatti, sempre, l’amore. In ogni caso, fino a che la pulsione non viene “legata” (e sappiamo quanto le pulsioni siano “indisciplinate”), il principio di piacere non può esercitare il suo dominio.

Legamento e slegamento – Sadismo e masochismo

Forse, più che parlare di pulsione di vita e di morte, sarebbe opportuno utilizzare un altro linguaggio, proposto da Green, che mette in tensione legamento (liaison) e slegamento (déliaison), ad indicare il continuo intreccio tra una spinta ad unire, a mettere in relazione, che è quella propria di Eros, ed un’altra che cerca invece di dissolvere, di sciogliere i legami, data da Thanatos, e che ha nella distruttività la sua rappresentanza più evidente. Ma non bisogna pensare alla déliaison solo come a una tendenza opposta alla necessità di fare legame, ma come un processo necessario proprio per consentire la creazione di nuovi legami. Così come il negativo non è da concepire solo come il contrario di un positivo, ma come l’apertura di una possibilità che si realizzi il nuovo: senza il negativo non si crea alcun “positivo”: è infatti grazie all’assenza, ad un negativo dunque, come insegna la psicoanalisi, che si dà la possibilità di pensare.

Non c’è dunque opposizione tra pulsioni di vita e di morte, o tra legamento e slegamento, ma una “struttura di alterazione”, secondo l’appropriata definizione di Derrida. Quello che conta è allora – sempre in un sistema rigorosamente dualista, come ogni concezione freudiana è sempre stata – la coppia costruzione-distruzione, con il suo correlato impasto-disimpasto.      

La coppia costruzione-distruzione evoca necessariamente quella di sadismo-masochismo, i cui effetti si situano ben al di là della psicopatologia perversa. Sappiamo che Freud è stato sempre molto incerto e contraddittorio nel porre all’origine dello psichico l’uno o l’altro, partecipi entrambi di una spinta comunque distruttiva. Se la prima teoria freudiana vuole il sadismo come primario, come una spinta aggressiva che non corrisponde ad alcun piacere sessuale, ma alla volontà di assoggettare l’altro, di dominarlo attraverso una pulsione di impossessamento (pulsion d’emprise), questa posizione richiama tuttavia la necessità del Binden, del legare. Ora, questa funzione, la Bindung, il legame, il vincolo, è quella che sarà assunta in qualche modo proprio dal principio di piacere, che in un certo senso si organizza per legare il piacere stesso (secondo la sequenza presa-legame-scarica), e che dunque va per così dire paradossalmente “contro” il piacere, che sarebbe invece in fin dei conti scioglimento, dissoluzione, slegamento. Dunque, espressione della tendenza allo zero dell’apparato psichico, o della sua necessità di un abbassamento al livello più basso possibile dell’eccitamento presente in esso (principio del Nirvana). Questo sembra essere, va detto – se questa lettura è, non dico corretta, ma almeno pensabile secondo questo asse di pensiero – l’aspetto più inquietante e più indecifrabile, forse, della teoresi freudiana dell’al di là del principio di piacere.

Nella definitiva teorizzazione freudiana infatti (Freud, 1924), non bisogna mancare di notarlo, il masochismo viene concepito come una sorta di pulsione primaria, e in quanto espressione della spinta all’autoannullamento di sé, realizzazione piena della pulsione di morte. Il sadismo non sarebbe dunque primario, ma bisogna ammettere al contrario, sostiene alla fine Freud, l’esistenza di un masochismo originario, espressione della pulsione di morte (o se vogliamo del narcisismo negativo di Green): dunque, è il masochismo che “dirige” in realtà le operazioni della vita del soggetto, ponendosi addirittura come cardine della attività psichica. Questione già evidente quando ci si renda conto che è il masochista a detenere il potere di “costringere” il sadico ad assistere ad una scena nella quale si mostra che “il dolore è piacere, che l’orrore è fascinazione, che la castrazione è una forma pura di godimento” (Aulagnier, 1967, p. 34). Se il sadico sfida infatti la legge, il masochista sfida la realtà codificata, il senso comune. Il masochista sovverte infatti a tal punto la legge da mostrarne la sua assurdità, quando cerca nella punizione il proprio godimento (Deleuze, 1967, p. 99). D’altra parte, non aveva Freud sostenuto che il sadico gode identificandosi al masochista, alla sua sofferenza?

Il masochismo insomma “fonda” per così dire il soggetto, e ne spiega la sua reiterazione alla sofferenza, alla volontà di non guarire da essa – come si osserva anche nella reazione terapeutica negativa – e nella distruttività rivolta all’altro come estroflessione all’esterno della spinta autodistruttiva. Si può arrivare ad uccidere per non morire, almeno immaginariamente. Ma se il narcisismo protegge dalla tentazione auto-dissolutiva, esso si lega proprio al masochismo nella reazione terapeutica negativa, neutralizzando, per così dire, ogni tentativo, non solo di cura, ma addirittura di intervento dell’analista. Un modo per assicurarsi in ogni caso del risultato, come fa notare acutamente Green: “chi vince perde”, è la formula che alla fine risulta sempre efficace. Si può continuare a soffrire, ma non si cede all’altro nessun potere su di sé. Il proprio narcisismo è così sempre salvo.

Sempre Green fa notare anche che se l’uomo dei lupi fornisce del materiale per elaborare la seconda topica (la terza secondo Green), a Freud sfugge però proprio la sua organizzazione masochistica, che è quella che rende ragione dello scacco terapeutico cui andrà incontro lo stesso Freud. Il masochismo è infatti una minaccia per la sopravvivenza dell’individuo perché anche l’autodistruzione della persona non può prodursi senza soddisfacimento libidico. L’autodistruzione è così paradossalmente legata all’Eros, da cui non può separarsi. Dunque, il principio stesso dell’apoptosi, di cui parlavamo sopra, si giustificherebbe anche per la presenza di un soddisfacimento inevitabile per il soggetto, sia a livello corporeo che psichico.

Cos’è il piacere?

Ma, in fin dei conti, a cosa corrisponde il piacere? Nessuno lo sa per davvero, in realtà. Nella logica freudiana corrisponde ad una diminuzione della tensione, della quantità di energia “libera”, ma è indubbio – e lo stesso Freud non manca di evidenziarlo – che anche un aumento della tensione provoca un certo piacere, se non diventa troppo estremo. Dunque, il piacere si realizza sia con un incremento che un decremento della tensione, e si avvicina “pericolosamente” a quella condizione masochistica che diviene così la situazione umana di fondo. E il suo opposto, il sadismo, si configura allora come lo sforzo del soggetto di esercitare una “presa”, un dominio sull’altro, un tentativo di assoggettamento dell’altro: è l’esercizio di una “pulsione di impossessamento” (pulsion d’emprise) che illude forse il soggetto di poter sfuggire alla spinta autodistruttiva che domina l’apparato psichico, riversando all’esterno la distruttività presente all’interno.

Il piacere è allora sia tensione che allentamento della tensione: non è forse questo però il godimento, la jouissance? Il piacere è altrove, al di là, o di lato, eccentrico rispetto al principio di piacere stesso. Jenseits: non solo al di là, ma anche oltre, dall’altra parte, al di fuori.

Dunque, il principio di piacere si pone come una funzione che precede e determina il piacere stesso. Che si sforza di esercitare una presa, un controllo su una tendenza che andrebbe, se lasciata a sé stessa, a mettere in crisi l’esistenza stessa del soggetto: “è limitando l’intensità possibile del piacere e del dispiacere che il principio di piacere conquista la supremazia che gli è propria” (Derrida, 1980, p. 166). Il principio di piacere è il guardiano della vita e non solo dello psichismo perché se il sadismo attacca l’altro, il masochismo arriva a uccidere il soggetto, in quanto “il residuo della pulsione di morte che non ha potuto essere evacuata all’esterno costituisce il potenziale di autodistruzione che minaccia l’individuo (Green, 2007, p. 63).

Le esperienze di piacere sono infatti sempre “al limite”, anzi, corrispondono ad una “perdita” del limite: fusione, estasi, orgasmo, petite mort. Anche il “sentimento oceanico”, il sentimento di fusione con il tutto, di cui parla Freud nella sua corrispondenza con Romain Rolland, farebbe parte di questo stesso discorso. Per questo i mistici trovano delle vie apparentemente insolite per riuscire a incontrare il divino.

“Al di là” del principio di piacere, sembra allora volerci dire Freud – e per questo il suo discorso risulta forse particolarmente ostico, anche per gli stessi psicoanalisti – c’è proprio il piacere ultimo, lo scioglimento definitivo dei legami, la dissoluzione del tutto, la perdita dei confini. Ovvero proprio la morte?

Insomma, l’“al di là” del piacere è la fine del piacere? Siamo allora alle prese con un paradosso, che rende forse ragione dell’incompiutezza, del differimento continuo che le tesi di Al di là… ci propongono; il piacere massimo si realizza quando il piacere stesso si estingue: “Il piacere vi perde nella misura stessa in cui fa vincere il proprio principio” (Derrida, 1980, p. 166).

La vita la morte

La vita va allora concepita come una diversione del ritorno dell’inorganico a sé stesso, una parentesi, un incidente sulla via della morte. Se la morte è da concepire come annullamento definitivo delle tensioni, paradossalmente come godimento assoluto, la vita invece funziona come presa, dominazione, dominio, come potere (sull’altro e su sé stessi). Anzi, secondo la formula di Derrida, c’è solo “la vita la morte”, in continuità e non in opposizione. Non la vita o la morte, né la vita e la morte.

Cosa resta allora al soggetto? Freud su questo punto è drastico: il soggetto non desidera altro che “morire a modo proprio”, secondo vie soggettive insomma, come se volesse egli stesso determinare la propria fine, pur essendo di fatto assoggettato alle leggi della natura. Darsi la morte che gli è propria, che gli appartiene. In fondo, potremmo dire che è l’inconscio del soggetto a determinare la fine della propria esistenza, a voler morire secondo una decisione magari, o certamente inconsapevole, e tuttavia soggettiva. Anzi, forse è quanto di più personale l’essere umano possa esprimere, o desiderare. Ed ogni esistenza, in fondo, non è mai del tutto conclusa, c’è sempre un “resto” che è rimasto inespresso, qualcosa che doveva o poteva essere e non è stato.

Al di là… è infatti anch’esso un testo che non si conclude, che non arriva a un punto terminale, che lascia insoddisfatti Freud stesso e si suoi lettori, che inciampa di continuo, ma che rispecchia in questo modo l’oggetto stesso del discorso freudiano: una conclusione sarebbe la fine del piacere, cioè di tutto. La morte, appunto? Non c’è infatti alcuna tesi dimostrabile in Al di là…: c’è piuttosto una conclusione che non conclude, c’è uno “zoppicamento” che non porta da nessuna parte, che non approda a una tesi: in Al di là… si tratta infatti di una “atesi”, dice Derrida. Se infatti l’esito di tutto è inevitabilmente la fine di tutto, ovvero la morte, di questo esito non si può in fondo dire nulla.

Bibliografia

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