La Ricerca

Mancia M. (Ed.) (2007). Come le neuroscienze possono contribuire alla psicoanalisi. Introduzione a M.Mancia (ed.) Psicoanalisi e neuroscienze. Springer Verlag, Italia

24/05/13

Introduzione   –   Come le neuroscienze possono contribuire alla psicoanalisi

Confronto, non incorporazione. Integrazione, reciproco apporto alla conoscenza delle funzioni della mente; reciproco rispetto dei limiti metodologici ed epistemologici di ciascuna disciplina: questa la norma che regola il mio pensiero interdisciplinare e che mette a confronto per un reciproco arricchimento le Neuroscienze e la Psicoanalisi.

Parlare di Psicoanalisi ai neuroscienziati non è più facile che parlare di Neuroscienze agli psicoanalisti. L’intero secolo appena concluso ha assistito ad una sordità e a volte a volgari polemiche tra i cultori delle due discipline, contrassegnate spesso da ignoranza o scarsa conoscenza della psicoanalisi teorica e clinica da parte dei neuroscienziati e disinteresse oltre che ignoranza degli psicoanalisti rispetto alle ricerche e agli sviluppi delle neuroscienze.

Ma il grande avanzamento delle scienze neurologiche, neurofisiologiche, neuropsicologiche, psicologiche sperimentali, e la formazione di una nuova generazione di psicoanalisti più aperti dei loro predecessori ad accettare il confronto con altre discipline, o comunque sollecitati ad aprirsi ad altre avventure del pensiero e ad altri incontri interdisciplinari, o persino preoccupati della “crisi” in cui la Psicoanalisi ha finito per entrare girando intorno agli stessi concetti, hanno facilitato l’incontro e il superamento delle reciproche diffidenze. E’ stata così possibile la formazione di una base comune su cui costruire un linguaggio che possa promuovere la ricerca sulle funzioni della mente, particolarmente cara alla Psicoanalisi ma cui si sono avvicinate anche le Neuroscienze.

In questi ultimi anni si è sviluppato un forte interesse per un dialogo tra Neurobiologia e Psicoanalisi; ne è testimone il gruppo di neuropsicoanalisti che hanno contribuito allo studio dell’attività mentale conscia e inconscia in pazienti con lesioni neurologiche focali, osservati con il metodo analitico. Altri lavori su questo tema sono usciti recentemente e l’European Psychoanalitical Federation mi ha incaricato di organizzare gruppi ad hoc in occasione delle sue riunioni annuali.

E’ iniziato così a strutturarsi un pensiero condiviso teso non tanto a dimostrare che Freud aveva ragione o torto o che le teorie psicoanalitiche sono o meno compatibili con la definizione di scienza, quanto a portare dati sperimentali capaci di ampliare concetti psicoanalitici di base e dare loro una consistenza anatomo-funzionale nel tentativo, già presente nel pensiero di Freud, di poter un giorno spiegare la mente con le sue emozioni, affetti, passioni e pensieri in termini scientifici il più possibile vicini a quelli usati dalla chimica, fisica e biologia. Nel presupposto che la mente non può essere spiegata a prescindere da un monismo ontologico anche se le modalità del suo studio sono diverse sul piano epistemologico e del metodo. Consapevoli che la Psicoanalisi è tutta fondata sulla intersoggettività mentre le Neuroscienze si basano su un rapporto del soggetto con l’oggetto del suo interesse. E consapevoli anche che diverse sono le logiche che sottendono queste ricerche, una logica della spiegazione è alla base delle Neuroscienze mentre una logica della comprensione caratterizza la pratica della Psicoanalisi. 

Emozioni e memoria 

Vorrei ora sinteticamente accennare ai contributi più recenti relativi a funzioni mentali che le Neuroscienze hanno affrontato con metodi sperimentali e che saranno in gran parte oggetto di discussione in questo volume. Iniziando con il problema delle emozioni, per le implicazioni che esse hanno per la psicologia generale (in particolare per l’organizzazione della memoria) e per la teoria e pratica della psicoanalisi.

Dopo Darwin, che nel 1872 con “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” metteva le basi per un discorso scientifico sulle emozioni, pochi scienziati si sono occupati di questo tema centrale alla psicologia e alle scienze umane e sociali. Questo relativo disinteresse dei neuroscienziati per le emozioni è durato per molti anni ed è stato interrotto dal lavoro di Ledoux che, cento anni circa dopo Darwin, con il suo “Cervello emotivo” ha espresso le idee di base su come le emozioni si producono nel cervello e si esprimono, su come il cervello percepisce gli stimoli emotivamente eccitanti e risponde loro, su come l’individuo apprende e memorizza emozioni e su come i sentimenti coscienti dell’uomo emergono dall’inconscio.

Tra i contributi più originali di Ledoux, utili per la psicoanalisi, ricordo qui quello relativo all’influenza delle emozioni sui processi della memorizzazione. Questo autore riprende i dati sperimentali sull’animale e sull’uomo che hanno permesso la scoperta di un doppio sistema della memoria: l’implicita e l’esplicita, la prima mediata da varie strutture controllate dall’amigdala, la seconda mediata dal lobo temporale dove l’ippocampo gioca il ruolo principale. La memoria esplicita viene definita come cosciente mentre la implicita è non consapevole. La esplicita ha nell’ippocampo il suo regista in virtù del suo essere collegato alla corteccia associativa tramite la corteccia definita come transizionale (peririnale, entorinale, paraippocampale) cui arrivano le informazioni dalla corteccia sensoriale (visiva, acustica, somatica, gustativa, olfattiva). L’ippocampo organizza degli “engrammi” o “configurazioni neurali” con cui seleziona e codifica le informazioni che lo raggiungono per depositarle attraverso i nuclei talamici nelle cortecce associative diffusamente nel cervello. Questa operazione giustifica le più antiche osservazioni di Lashley che permettono di considerare la funzione della memoria come olistica, appartenente cioè diffusamente al mantello neocorticale.

La memoria implicita è quella più direttamente emozionale. Essa è gestita dall’amigdala e dalle aree a questa collegate che sono l’ipotalamo, il tronco-encefalico, i nuclei della base, il cervelletto e le aree corticali associative. L’amigdala è collegata a doppia via con l’ippocampo influenzando così anche la memoria esplicita o dichiarativa. Il sistema della memoria implicita entra in gioco nelle emozioni condizionate come ad esempio la paura, che sappiamo coinvolgere anche il cervelletto. La memoria implicita è invocata da Ledoux anche per spiegare l’amnesia infantile. Egli riprende il lavoro di Jacobs & Nadel nell’affermare che traumi precoci, anche senza essere ricordati, possono avere un’influenza duratura nello sviluppo della vita mentale, e che l’amigdala matura prima dell’ippocampo. In questa affermazione egli anticipa il lavoro di Siegel che sottolinea la diversa maturazione nel tempo delle due strutture chiave dei sistemi della memoria, favorendo l’ipotesi che la memoria implicita maturi prima della esplicita. Questo dato ha un’enorme importanza nello sviluppo della mente infantile e nel processo che conduce alla organizzazione dell’inconscio, come spiegherò in seguito.

Le modalità con cui uno stimolo o esperienza emotiva può essere memorizzato sono molteplici. Attraverso una via nervosa lo stimolo emotivo può raggiungere l’amigdala e direttamente coinvolgere strutture prosencefaliche e corticali per una archiviazione. Ma lo stesso stimolo via amigdala, ipotalamo laterale, tronco encefalico e sistema nervoso autonomo, può produrre liberazione di adrenalina che può facilitare, attraverso il locus coeruleus, la secrezione di noradrenalina. Quest’ultima ritorna all’amigdala stessa e all’ippocampo attivandoli. La co-attivazione delle due strutture chiave della memoria a seguito di uno stimolo emotivo può facilitare l’apprendimento e la sua memorizzazione. Tale processo può partecipare anche alla sua rievocazione nell’ambito del sistema della memoria esplicita.

Importante per la psicologia e la psicoanalisi il tema, trattato da Ledoux dell’effetto di traumi e stress sui due sistemi della memoria, dal momento che gli effetti traumatici sull’amigdala sono diversi da quelli sull’ippocampo. Osservazioni recenti hanno di fatto approfondito questo aspetto e confermato il ruolo di traumi precoci nel funzionamento della memoria. Traumi di varia natura possono far riemergere nel mammifero risposte condizionate alla paura apparentemente estinte. Questo dato sperimentale è di interesse anche psicoanalitico in quanto ci autorizza a pensare che determinate esperienze traumatiche e stressanti di un tempo passato possono riemergere nel transfert in quanto depositate nella memoria implicita e apparentemente estinte (cioè non ricordabili). Ma l’apparente estinzione non cancella le esperienze che anzi, depositate nella memoria implicita, continuano a condizionare la vita emotiva e cognitiva del soggetto per tutta la vita. Ledoux6 propone una spiegazione neurofisiologica per la resistenza all’estinzione di una paura condizionata depositata nella memoria implicita. Egli ipotizza che l’organizzazione neuronale dell’amigdala possa essere tale da creare una rete condizionata che attraverso una particolare “plasticità” dei neuroni crei le condizioni per resistere alla estinzione. Ciò comporta che le esperienze emozionali siano impresse in maniera indelebile nel sistema implicito e non siano pertanto cancellabili. Tuttavia la loro espressione può essere “plasticamente” regolabile e trasformabile dal cervello attraverso un’azione di controllo corticale sull’amigdala stessa. L’amigdala, infatti, invia molte proiezioni alle aree corticali e perciò stimoli emotivi possono passare direttamente dall’amigdala alla corteccia associativa (è probabile che sia l’emisfero destro ad essere interessato maggiormente da queste proiezioni ). Ma anche quest’ultima, sebbene in minor misura, manda fibre all’amigdala realizzando con questa un complesso circuito a feed-back. E’ questo che permette alla corteccia di esercitare un’azione regolativa sull’amigdala. Questo dato può fare da supporto all’ipotesi che il pensiero elaborato nel corso dell’analisi e che presumiamo abbia una sua collocazione funzionale nella neocorteccia, possa esercitare una modulazione e un controllo sulle emozioni attraverso la sua azione sull’amigdala.

Dopo Ledoux molti neuroscienziati hanno studiato le emozioni con tecniche più sofisticate e hanno potuto osservare “in vivo” quali aree del cervello si infiammino quando stimoli emotivi le raggiungono e come essi possano essere elaborati. Tra questi Damasio che vede l’emozione come un processo capace di promuovere un evento a valanga: la secrezione di sostanze che a loro volta creano un evento che produce la scarica di altre sostanze che si diffondono a varie regioni cerebrali. Pertanto, gli stimoli emotivi producono cambiamenti del profilo chimico del corpo, che a loro volta modificano strutture e funzioni cerebrali che organizzano “configurazioni neurali” che diventano responsabili del vissuto emozionale. Per cui l’emozione è vista come un mutamento transitorio dello stato dell’organismo, un insieme concreto di “configurazioni” neurali organizzate da mappe di strutture relazionali. Tali organizzazioni si strutturano molto precocemente, influenzano lo sviluppo della mente infantile ed hanno la possibilità di condizionare il comportamento e il pensiero umano nel corso dell’intera vita.

In un lavoro successivo, Damasio fa l’ipotesi che le emozioni precedano i sentimenti in quanto esse sono comparse prima nel corso dell’evoluzione. Questo autore ipotizza che i processi mentali siano fondati su mappe del corpo presenti nel cervello sotto forma di “configurazioni neurali” nelle quali sono rappresentate le risposte agli eventi che causano emozioni e sentimenti. L’autore distingue le emozioni primarie o fondamentali che comprendono la paura, la rabbia, la felicità, la tristezza, e quelle sociali che riguardano la vergogna, il senso di colpa, la gelosia, l’invidia, ecc. Queste ultime, in particolare, sembrano prodotte da configurazioni neurali che regolano il comportamento e che sono innate. Lo stimolo adeguato attiva le aree corticali associative e somato-sensoriali, che a loro volta coinvolgono l’amigdala attraverso l’attivazione del prosencefalo basale, ipotalamo e tronco encefalico. Pertanto le aree associative somato-sensitive possono essere considerate la “centralina” o area che contiene mappe del corpo e costituisce un organo di smistamento delle emozioni e sentimenti che coinvolgono successivamente le parti anteriori del cingolo e dell’insula. Le aree somato-sensitive che realizzano il più alto livello di rappresentazione dello stato del corpo sono quelle dell’emisfero destro. Questo dato si collega al ruolo dell’emisfero destro nel processo delle emozioni e della memoria emotiva15 come vedremo in seguito

Il cervello è dotato di sistemi capaci di creare rappresentazioni che simulano ciò che altri individui sentono attraverso determinate espressioni facciali, capaci di veicolare affetti ed emozioni. Per questi autori, la corteccia somatosensoriale gioca un ruolo fondamentale in queste rappresentazioni capaci di riconoscere le emozioni facciali. La corteccia somatosensoriale di destra, in particolare, insieme all’amigdala e alla corteccia visiva dello stesso emisfero, appare importante nel recuperare informazioni relazionali rilevanti dall’osservazione dei volti. Lo studio con immagini funzionali ha inoltre dimostrato che l’imitazione di un’altra persona attraverso l’esperienza visiva produce attivazione dell’opercolo frontale di sinistra e della corteccia parietale di destra. Tali dati sperimentali sull’uomo suggeriscono che l’espressione facciale di emozioni coinvolge regioni dell’emisfero destro che servono a rappresentazioni visive e somato-sensoriali di emozioni associate all’espressione del viso. Casi offerti dalla neuropatologia dimostrano che la lesione della corteccia somatosensoriale di destra può produrre anosognosia e un disturbo della conoscenza del proprio stato corporeo, spesso accompagnato da un appiattimento delle emozioni. La corteccia somatosensoriale di destra insieme all’amigdala funzionano così come due componenti indispensabili di un sistema neurologico che permette di recuperare la conoscenza delle emozioni espresse dal viso.

Di estremo interesse per il discorso sulle emozioni precoci è il contributo di Jaak Panksepp che ha portato evidenze a favore dell’ipotesi che le esperienze emozionali precoci possano condizionare profondamente lo sviluppo del cervello e della personalità del bambino in quanto producono un cambiamento della sua economia mentale. Questa trasformazione costituisce la base di quello che Edelman chiama “darwinismo neurale”. Si sa oggi che emozioni positive precoci promuovono aspetti più ottimisti e più sani della personalità, mentre esperienze emozionali negative possono essere la causa di stati fortemente ansiosi e depressivi del soggetto anche da adulto. Tali influenze possono esercitarsi a livello cerebrale, promuovendo fattori di crescita o la secrezione di varie molecole, tra cui il glutammato, in risposta a stimoli ambientali. Questi possono avere una grande importanza nel modulare la “plasticità” del sistema nervoso centrale. Tali risposte possono dare ragione del fatto che neonati e bambini vivono più intensamente degli adulti le proprie emozioni e sono in grado di attivare processi autoregolatori delle stesse. Lo stesso senso primario del Sé che si organizza fin dalla nascita appartiene più alla sfera emozionale che a quella cognitiva. Traumi precoci, come abbandoni, violenze fisiche e psicologiche, abusi e stress di varia origine, possono creare le condizioni per una tendenza, che dura l’intera vita, alla tristezza, depressione, rabbia e risentimento. Un contenimento del neonato da parte della madre e il contatto fisico pelle-a-pelle con lei, veicolano affetti ed emozioni capaci di promuovere fattori di crescita, liberazione di oxitocina e altre sostanze che riducono lo stress infantile. Importante a questo riguardo la produzione del corticotrophic releasing factor (CRF) che è stato dimostrato sperimentalmente nei mammiferi essere il fattore che più risente dello stress emotivo prodotto dalla separazione del neonato dalla madre.

E’ ormai accertato che le influenze precoci dell’ambiente possono agire sulla plasticità neuronale. Il troncoencefalo umano è pienamente funzionante alla nascita. Esso risponde a funzioni motorie e vegetative vitali. Il sistema limbico (ipotalamo, amigdala, setto, cingolo e ippocampo) controlla la fame e la sete ed è responsabile dell’esperienza e dell’espressione di emozioni che includono piacere, rabbia, paura, gioia e desiderio del contatto sociale emozionale. Le esperienze ambientali precoci possono influenzare l’organizzazione di queste specifiche reti neurali interferendo quindi con la loro abilità di selezionare e controllare il comportamento. Pertanto le influenze sociali, emozionali e ambientali precoci, esercitano effetti organizzanti significativi sul cervello e sugli aspetti intellettuali, sociali ed emozionali dello sviluppo.

L’interesse di queste osservazioni per la Psicologia e la Psicoanalisi appare subito evidente se si pensa che il neonato con il suo sistema limbico che provvede alla organizzazione di ogni aspetto del comportamento sociale ed emozionale richiede una considerevole quantità di stimoli sociali e fisici, incluso il contatto materno, sensoriale ed emozionale per svilupparsi. E’ così pervasivo questo bisogno “limbico” di stimolazione emozionale, che il neonato, durante la maggior parte del primo anno di vita, è alla ricerca di un contatto sociale e sorride alla vicinanza di chiunque, persino di uno sconosciuto. Nel sistema limbico l’amigdala appare come l’organo guida dei processi alla base del comportamento affettivo ed emozionale nei mammiferi e in particolare nell’uomo. Essa riceve input sensoriali multimodali e proietta a tutti i livelli del sistema nervoso centrale facilitando il consolidamento delle memorie emozionali. I suoi neuroni mostrano attività Tetha durante l’arousal emozionale e vari tipi di oscillazione durante il sonno caratterizzato da onde sincrone. Questi autori ipotizzano che gli eventi sincronizzanti dell’amigdala possano promuovere la plasticità sinaptica del cervello facilitando l’interazione tra le aree non-corticali che partecipano al deposito delle informazioni e la struttura del lobo temporale mediale più direttamente coinvolta nella memoria esplicita o dichiarativa. Tuttavia, poiché l’amigdala gestisce il circuito che sottende il sistema della memoria implicita ed ha un ruolo nel condizionare le memorie emozionali, è probabile che essa partecipi alla organizzazione, codificazione e deposito delle esperienze precoci che saranno archiviate in questa forma di memoria.

Sappiamo che le emozioni influenzano fortemente le funzioni della memoria. In situazioni emotive l’amigdala modula sia la codifica che l’archiviazione della memoria ippocampo-dipedente, cioè esplicita10. Tale azione è affidata anche ad ormoni dello stress che attivano recettori adrenergici nella amigdala baso-laterale che a sua volta modula gli effetti di questi ormoni sul consolidamento ippocampale. Studi con bio-immagini hanno suggerito che l’amigdala di destra e quella di sinistra possono essere coinvolte in maniera differenziale nel processo della memoria per stimoli emozionali in rapporto al sesso del soggetto. L’amigdala di sinistra sembra correlata con l’organizzazione della memoria nella donna, mentre l’amigdala di destra è più attiva nella organizzazione della memoria nell’uomo. Esiste anche uno specifico coinvolgimento dell’amigdala di sinistra e di destra nella memorizzazione di esperienze rispettivamente verbali e visive, Queste indagini con bio-immagini suggeriscono anche che la relazione tra l’amigdala e l’ippocampo può essere bi-direzionale in relazione alla codifica di eventi essenzialmente emotivi.

Un particolare contributo al ruolo dell’amigdala nel consolidare la memoria a lungo termine viene dal lavoro di McGaugh per il quale la regione baso-laterale dell’amigdala ha un ruolo cruciale nel processo di memorizzazione delle esperienze emozionali. Ci sono evidenze che ormoni prodotti da stress e altri sistemi neuromodulatori convergono nel regolare l’attività dei recettori noradrenergici all’interno del nucleo baso-laterale dell’amigdala. Tale nucleo modula il consolidamento mnemonico attraverso le sue proiezioni ad altre strutture importanti della memoria esplicita come l’ippocampo, il nucleo caudato, il nucleo basale e la corteccia cerebrale. Accanto agli aspetti emozionali della memoria esplicita, come si può intuire dalla sua capacità di attivare i neuroni ippocampali, l’amigdala partecipa al consolidamento della memoria implicita in quanto memoria emozionale, come è suggerito ad esempio dal suo ruolo nel consolidamento della paura condizionata. Questi dati costituiscono una base funzionale per l’influenza reciproca tra memoria implicita ed esplicita, modulazione di estrema importanza nello sviluppo della mente infantile e nei processi di apprendimento precoce.

Oltre a queste osservazioni è stata sottolineata l’importanza della interazione tra amigdala e ippocampo ai fini di una regolazione limbica sottocorticale del processo di memorizzazione e l’effetto di traumi e stress precoci sulla struttura e sulla funzione dell’ippocampo. Lo stress aumenta il livello di corticosteroidi che causa atrofia dei dendriti delle cellule piramidali CA3, inibisce la neurogenesi nel giro dentato e impedisce l’apprendimento e la memorizzazione nella memoria esplicita ippocampo-dipendente. Queste osservazioni appaiono di estremo interesse per la psicologia dello sviluppo. Lo stress da deprivazione e separazione dei piccoli mammiferi neonati dalla madre per 3 ore ogni giorno diminuiva la produzione di nuovi granuli nell’adulto attraverso un meccanismo corticosteroidi-dipendente14. Tali traumi precoci nell’infanzia impedivano parallelamente in modo permanente l’apprendimento e la memoria ippocampo-dipendente e aumentavano la disponibilità alla deprivazione inibendo la neurogenesi adulta dell’ippocampo. Queste osservazioni presentano un particolare interesse per la psicologia dello sviluppo e per la psicoanalisi che fa
risalire molti aspetti della patologia mentale a distorsioni e traumi che hanno interessato il neonato in epoca precoce del suo sviluppo. 

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I numerosi contributi fin qui discussi relativi al ruolo delle emozioni nel processo di apprendimento e memorizzazione attraverso la loro azione sull’amigdala e sull’ippocampo, strutture chiave nella funzione della memoria rispettivamente implicita ed esplicita, trovano nelle più recenti osservazioni e riflessioni riportate in questo volume un loro completamento e integrazione.

Sergerie e Armony sottolineano come l’essenza dell’emozione risieda nel suo effetto negativo sul pensiero. Citando il lavoro di altri autori essi riportano il ruolo dei neuroni amigdaloidei nel rispondere selettivamente ai visi e nel modulare processi attenzionali attraverso le loro proiezioni dirette alle aree corticali o indirettamente nel loro modulare il sistema colinergico del “forebrain” e noradrenergico del locus coeruleus. La corteccia orbito-frontale viene considerata da questi autori come parte di un sistema di collegamento o interfaccia che unisce il sistema che segnala una minaccia (l’amigdala) con il sistema attenzionale (la corteccia fronto-parietale). Un segnale di pericolo attiva così un sistema attenzionale attraverso l’amigdala con la corteccia orbito-frontale in funzione di interfaccia. L’amigdala è parte essenziale del sistema che incrementa la memoria emotiva. Poiché tale incremento è assente in situazioni sperimentali per lesione dell’amigdala di sinistra, ma non per quella di destra, è evidente il ruolo della prima nel rinforzare la dimensione emozionale della memoria dichiarativa sia a seguito di stimoli verbali (narrazioni) che non verbali (immagini di quadri).

Alcuni autori pensano che l’amigdala influenzi il deposito delle memorie emozionali in varie regioni cerebrali coinvolte nella memoria episodica. E’ stato proposto che questo nucleo limbico moduli la memoria emozionale, la codifichi e la consolidi attraverso la sua influenza su altre strutture come l’ippocampo, lo striato e la corteccia cerebrale. L’amigdala non parteciperebbe al ricordo di esperienze emozionali. Questo sarebbe il compito del solo ippocampo. Tale ipotesi è interessante per la definizione dei compiti dei due sistemi della memoria: la esplicita e la implicita. Sulla base di questi dati è probabile che l’amigdala codifichi e consolidi la memoria emozionale implicita che non permette il ricordo. La sua partecipazione al recupero di materiale emozionale è stata ipotizzata da alcuni autori mentre altri riportano risposte specifiche dell’amigdala alla vista di quadri che richiamavano delle emozioni. Sergerie e Armony sottolineano le incertezze che tuttora esistono sul ruolo dell’amigdala nel recupero di esperienze memorizzate. E’ probabile che essa sia coinvolta nel recupero di emozioni depositate nella memoria esplicita in virtù della sua relazione con l’ippocampo, mentre partecipi alla archiviazione di emozioni nella memoria implicita solo nella loro codifica e consolidamento, senza il loro ricordo, che questa forma di memoria comunque non permette. 

Memoria e inconscio 

Le emozioni possono essere viste come facenti parte di un processo adattativo in relazione al sistema cognitivo e alle funzioni emisferiche asimmetriche. E’ l’emisfero destro che sembra deputato a organizzare il livello più basso delle emozioni e di integrarlo con il loro livello più elevato. Varie recenti osservazioni suggeriscono inoltre che l’emisfero destro è coinvolto nelle varie forme di memorie emozionali non consapevoli: quelle prodotte da condizionamento emotivo e quelle rappresentate dalle varie dimensioni della memorie implicita. Quest’ultima funzione riveste un particolare interesse per la psicoanalisi in quanto collega la memoria emotiva all’inconscio e conferisce all’emisfero destro un ruolo estremamente importante nell’organizzazione di quest’ultima funzione della mente.

La scoperta del doppio sistema della memoria: esplicita o dichiarativa, cosciente, verbalizzabile e ricordabile, essenziale per la nostra identità e per la nostra autobiografia, ed implicita, non cosciente, non verbalizzabile e non ricordabile, apre prospettive enormi alla teoria e clinica psicoanalitica ed estende il concetto di inconscio. In particolare la implicita è la sola memoria che si sviluppa precocemente, è presente ed attiva già nelle ultime settimane di gestazione ed è l’unica memoria di cui dispone il neonato nei suoi primi due anni di vita. La sua dimensione procedurale ed emotivo-affettiva permette al bambino di archiviare in essa le sue prime esperienze collegate alla voce e al linguaggio materno e all’ambiente in cui cresce. Inoltre lo stesso rapporto che la madre ha con il corpo del neonato, il suo parlargli, guardarlo e toccarlo, in sintesi la sua rêverie veicola affetti ed emozioni che saranno archiviate nella sua memoria implicita.

Se ora seguiamo il percorso del pensiero dello stesso Freud per il quale ogni evento depositato nella memoria è parte strutturante l’inconscio dell’individuo, possiamo prospettare un collegamento tra la memoria implicita e la funzione inconscia della mente allo “stato nascente”. Tale inconscio precoce non può essere frutto di una rimozione in quanto le strutture della memoria esplicita indispensabili per la rimozione (in particolare l’ippocampo) non sono mature prima dei due anni di vita. Pertanto le esperienze presimboliche e preverbali che sono depositate nella memoria implicita non sono perdute anche se non sono ricordabili. Esse costituiscono la struttura portante di un inconscio precoce non rimosso che condizionerà la vita affettiva, emozionale e cognitiva dell’individuo anche da adulto e per il corso della sua intera vita.

E’ possibile qui collegare questa nuova dimensione delle funzioni inconsce della mente con la clinica. Essa ci permette di approfondire e affinare il nostro modo di stare con il paziente così da poter ricuperare tale inconscio non rimosso, anche senza il ricordo, attraverso una particolare attenzione alla “dimensione musicale” del transfert, così come appare nelle sue comunicazioni infraverbali. Questa dimensione transferale collega come un metaforico ponte le emozioni vissute nel corso della seduta con quelle precoci dell’infanzia ed è in grado di comunicare quegli affetti che non possono essere comunicati dalla sola narrazione. Una specifica attenzione alle possibilità ricostruttive offerte dal sogno permetterà all’analista di recuperare, attraverso le potenzialità simbolopoietiche di quest’ultimo, le esperienze presimboliche così da poterle verbalizzare e rendere pensabili. Gli studi neuroscientifici relativi alla memoria offrono così all’analista teorico e pratico degli strumenti preziosi per raggiungere le aree più nascoste e arcaiche della personalità del paziente, aree inconsce dimenticate ma operative in lui, che potranno riaffiorare nella relazione analitica, costruire l’essenza di una estesa Nachtraglikeit freudiana e permettere la storicizzazione del suo inconscio, a partire da quello non rimosso.

E’ interessante proprio per l’importanza che la memoria riveste nelle funzioni inconsce della mente, riferirsi qui ai contributi di quegli autori che considerano la memoria (esplicita) non come una struttura statica da archivio, ma come una funzione dinamica, interattiva, sottoposta ad una continua “ricategorizzazione” incorporata secondo il modello proposto da Edelman per la coscienza. L’ipotesi che qui propongo, sulla base delle esperienze neuroscientifiche e dei processi trasformativi più complessi che avvengono nell’incontro analitico è che anche la memoria implicita, sollecitata dal transfert, possa essere sottoposta ad interazioni dinamiche con la memoria esplicita e che vada incontro a “ricategorizzazioni” nel corso del processo. Tali processi possono costituire la base di trasformazioni che fanno seguito ad insight e prese di coscienza ottenuti con il lavoro costruttivo e ricostruttivo nel transfert e con la interpretazione dei sogni. Altrettanto interessante mi sembra pensare che anche le “ansie senza causa apparente, persecutorie e depressive” descritte in questo volume e che affliggono tanti nostri pazienti possano trovare una spiegazione nelle esperienze traumatiche inconsce precoci preverbali, mai rappresentate, mai conosciute e mai pensate, depositate nella loro memoria implicita e pertanto parti attive del loro inconscio non rimosso. 

Empatia, simulazione e condivisione di affetti 

Un argomento di estrema attualità e di grande interesse per la psicoanalisi riguarda quello emerso dalle esperienze neurofisiologiche e neuropsicologiche con bio-immagini relative alla empatia, simulazione incorporata, imitazione, intenzionalità, condivisione di stati affettivi ed emozionali. L’empatia, in particolare, è stata oggetto di numerosi studi in questi ultimi anni sia sul piano sperimentale che clinico. Un’ampia analisi storica e un approfondimento clinico sono stati fatti da Bolognini che ne ha descritto le caratteristiche specifiche nell’ambito della relazione analitica distinguendola dalla condivisione di affetti, dalla fusionalità e da altre modalità relazionali inconsce. Sul piano clinico, questo autore ha portato esempi in cui l’empatia, o un difetto di essa, aveva conseguenze nel processo analitico. Non emerge con chiarezza da questo scritto il rapporto che l’empatia ha con la identificazione proiettiva. Questo aspetto ha una sua importanza anche ai fini dell’interpretazione di dati sperimentali sull’uomo che riguardano la condivisione di stati affettivi e la simulazione incorporata di cui si sono occupati molti autori in questi ultimi anni. In particolare, è stato osservato, sperimentando sull’uomo, che le stesse aree affettive del dolore (aree anteriori del cingolo e dell’insula) si attivano sia nel soggetto sottoposto a stimoli fisici dolorifici, che ad osservatori che hanno un legame affettivo con il soggetto. La comunicazione della sofferenza del soggetto era comunicata all’osservatore solo attraverso uno specchio, quindi per via extraverbale con le espressioni del viso e del corpo[ii]. L’attivazione delle stesse strutture affettive del dolore si osservava anche quando il soggetto era sottoposto a stimoli verbali che mimavano un’esperienza affettiva dolorosa . Questi dati sperimentali suggeriscono che l’affetto doloroso è mediato da una interazione funzionale tra la parte anteriore della corteccia del cingolo e la corteccia prefrontale. Una ricerca più recente con la tecnica delle bio-immagini ha dimostrato un’attività neurale indotta nell’osservatore dalla visione o dalla immaginazione di un dolore sofferto da un altro individuo. L’attivazione delle strutture nervose del dolore (aree sensoriali specifiche, cingolo anteriore e insula) si sovrappongono ampiamente. Questo effetto che coinvolge sia la struttura affettivo-emozionale che quella discriminativa del dolore dell’osservatore e dell’osservato, è stato descritto come una forma di empatia. Il concetto di empatia è stato così messo in rapporto a quello di “simulazione incorporata” che permette di “replicare” nella mente del soggetto lo stato mentale dell’individuo osservato. Tale stato implica che le condizioni motorie ed emozionali di un individuo possano attivare delle “rappresentazioni o configurazioni neurali” corrispondenti nel sistema nervoso di un altro individuo che lo osserva. Il confronto-simulazione con il dolore dell’altro permette di avere una comprensione empatica esperienziale del dolore dell’altro.

La scoperta dei neuroni-specchio   porta un contributo importante alla processualità di sistemi neurali relativi ad azioni senso-motorie e ad emozioni proprie e a quelle osservate negli altri. E’ stato così dimostrato che esiste una possibilità di raggiungere una “sintonizzazione intenzionale” con altri individui in virtù di una “simulazione incorporata”. Tale processo permette un insight esperienziale della mente dell’altro con cui si è in relazione. I neuroni-specchio sono il correlato neurale di questo complesso meccanismo che permette il sentimento dell’empatia e una “modalità condivisa di intersoggettività”. Essi possono rappresentare anche i meccanismi neurofisiologici dell’imitazione descritti primariamente in ambito psicoanalitico.

La ricchezza dei dati provenienti dagli esperimenti sui neuroni-specchio delle cortecce frontali e parietali della scimmia permette l’ipotesi che questo sistema “configurazionale senso-motorio primario” possa essere innato, risponda a stimoli specifici e costituisca una funzione neurologica indispensabile alla sopravvivenza dell’individuo e della specie.

Di grande interesse, a questo riguardo, l’osservazione recente eseguita con la tecnica del fMRI che i bambini che soffrono di una sindrome autistica mostrano l’assenza di attività dei neuroni-specchio nel giro frontale anteriore (pars opercularis). Di fatto l’attività in quest’area era correlata inversamente alla severità dei sintomi autistici suggerendo l’ipotesi che una disfunzione del sistema dei neuroni-specchio sia responsabile dei deficit relazionali osservati nella sindrome autistica. Sorge qui un problema di non facile soluzione: è il sistema dei neuroni-specchio deficitario fin dalla nascita per ragioni genetiche ad essere responsabile della sindrome autistica, oppure è un disturbo traumatico ambientale legato soprattutto al fallimento della relazione primaria ad impedire quell’espressione genica indispensabile perché il sistema dei neuroni-specchio possa funzionare in epoca precoce e nello sviluppo mentale del bambino?

Questi risultati possono comunque costituire degli importanti correlati neurofisiologici di processi mentali particolarmente interessanti per la teoria e pratica psicoanalitica. Chi ha esperienza analitica sa che la relazione tra due individui che esprimono emozioni di varia natura (anche dolorose) può comportare il passaggio dall’uno all’altro di emozioni ed affetti più vari. Tale modalità che assolve a molte funzioni (comunicative, difensive, offensive, ecc.) è stata descritta dalla Klein nel 1946 e definita come identificazione proiettiva. Essa consiste nel fatto che parti del Sé cariche di affetti ed emozioni possono essere inconsciamente scisse e proiettate nell’altro che con le caratteristiche di queste parti viene identificato. Le numerose esperienze sopra descritte che riguardano la condivisione di stati affettivi o la stessa empatia, o quelle che gli autori chiamano “simulazione incorporata”, possono essere viste come l’espressione fisiologica di stati mentali che hanno profonde analogie con la identificazione proiettiva sopra descritta. 

Sogno 

Il sogno, in questi ultimi anni, è stato oggetto di interessi interdisciplinari e si è posto come oggetto di dialogo tra le Neuroscienze e la Psicoanalisi. Come è noto, il sogno ha interessato la Psicoanalisi prima di qualsiasi altra disciplina scientifica ed ha coinvolto oniromanti, teologi, poeti, medici, artisti e filosofi di tutti i tempi. E’ con la scoperta del sonno REM che le porte del sogno si sono aperte alle Neuroscienze. I contributi della neurofisiologia sono stati tesi soprattutto a riconoscere i meccanismi del sonno e le strutture coinvolte, le sue fasi, le caratteristiche neurofisiologiche che le qualificano. E’ stata la psicofisiologia ad interessarsi agli stati mentali che compaiono nelle diverse fasi del sonno. Queste ricerche hanno proposto un modello dicotomico del sonno (REM e non-REM) che attribuiva al solo sonno REM le caratteristiche di “cornice biologica” all’interno della quale il sogno poteva formarsi. Su questa base, alcuni autori hanno negato ogni significato psicologico al sogno relegandolo alla sfera del biologico. Tuttavia altre ricerche psicofisiologiche  hanno dimostrato che un’attività mentale di tipo onirico con allucinazioni, emozioni e autorappresentazioni può presentarsi in ogni fase del sonno dall’addormentamento al risveglio. Sulla base di questi risultati, è stata avanzata l’ipotesi che nel sonno si attivi un unico generatore del sogno relativamente indipendente dalle sue fasi. Tuttavia, poiché il sogno in fase REM presenta anche caratteristiche qualitative diverse dal sogno in fase non-REM è stato ipotizzato un doppio generatore del sogno corrispondente alle due grandi fasi del sonno (REM e non-REM).

La ricerca più recente con bio-immagini  ha suggerito una dissociazione tra sogno e stati del sonno e ha indicato nel circuito dopaminergico l’organizzatore del sogno che coinvolge pertanto varie strutture e circuiti cerebrali, in particolare regione parietale di destra e sinistra, aree frontoventrali, regione occipito-temporale e aree limbiche. L’attivazione del circuito dopaminergico avverrebbe per azione delle aree frontoventrali che presiedono al processo motivazionale. Tuttavia, anche lesioni di fibre afferenti alla corteccia parieto-occipitale (in particolare dell’emisfero destro) producono una scomparsa dei sogni, mentre l’architettura del sonno resta del tutto normale . Queste osservazioni lasciano pensare che l’abolizione del sogno per lesioni centrali che interrompono il circuito dopaminergico sia da ascrivere ad una sindrome da disconnessione.

E’ del tutto evidente che i diversi approcci neuroscientifici al sogno non ci dicono nulla sul suo significato, né sul suo ruolo nella economia della mente. E’ la psicoanalisi la sola disciplina ad interessarsi al sogno come rivelatore dell’inconscio, come funzione della mente in grado di trasformare simbolicamente esperienze presimboliche e di creare immagini che colmano il vuoto della non rappresentazione di un inconscio precoce non rimosso. Oltre, naturalmente, a riportare alla luce, attraverso il ricordo, esperienze rimosse nella infanzia (dopo i due anni) e nel corso della vita depositate nella memoria esplicita.

Il sogno ha quindi anche la funzione, originariamente descritta da Freud, di riportare alla luce materiale rimosso, operazione che potremo definire di de-rimozione. A questo riguardo mi sembra di estremo interesse l’esperienza di rimozione volontaria che, studiata con bio-immagini, permette di osservare una attivazione delle aree frontali dorsolaterali ed una deattivazione dell’ippocampo bilateralmente. Poiché questo fenomeno è esattamente l’opposto di quanto avviene nel sogno (in fase REM) in cui si osserva una attivazione dell’ippocampo e una deattivazione della corteccia frontale dorsolaterale, l’esperienza di rimozione volontaria confermerebbe a livello neurofisiologico la funzione de-rimotiva del sogno.

I dati neuroscientifici sull’attività onirica del cervello offrono un contributo al pensiero psicoanalitico contemporaneo e in particolare alla riflessione sull’idea che ci sia un continuum tra le fantasie (inconsce) della veglia e le fantasie (oniriche) del sogno. Questa idea, che dobbiamo a Bion e a Meltzer è affascinante e sottolinea il ruolo insostituibile delle fantasie inconsce nella vita mentale della veglia e del sogno. Esistono tuttavia delle differenze neurofisiologiche processuali tra questi due stati della mente che la ricerca neuroscientifica sta ora mettendo in evidenza. Ad esempio, l’elaborazione delle informazioni che il cervello compie dipende dal suo stato funzionale, inteso in senso globale, in quel momento specifico. E’ quest’ultimo che controlla le strategie processuali che condizionano i contenuti cognitivo-emozionali della memoria, le procedure di immagazzinamento e la relazione di ciò che il soggetto può ricordare o dimenticare con il sogno.

Recentemente è stato inoltre dimostrato che gli stimoli dati ad un’area corticale del cervello umano subiscono un destino diverso nel loro processo diffusivo interemisferico e intracorticale a seconda che il soggetto dorma in sonno sincrono o sia sveglio. Esiste una stretta relazione tra questi diversi stati funzionali della corteccia cerebrale e il diverso stato di coscienza che caratterizza la veglia e il sonno. In veglia l’attivazione di una limitata area corticale si diffonde tra aree corticali dello stesso emisfero e dell’emisfero opposto, mentre nel sonno (in cui si elabora il sogno) questa diffusione è inibita e lo stimolo resta confinato all’area stimolata. Ciò dimostra una diversa processualità funzionale del mantello neocorticale e sottolinea la differenza dei due stati di coscienza e presumibilmente del contenuto dei processi emozionali e cognitivi che caratterizzano gli stati della mente nelle condizioni di sonno (sogni) rispetto alla veglia (fantasia inconscia). 

 Coscienza e inconscio 

Un discorso interdisciplinare tra Psicoanalisi e Neuroscienze non può non interessare la coscienza e i suoi diversi livelli funzionali. Freud si è occupato di coscienza in rapporto all’inconscio nel 1922 in L’Io e l’Es. L’incipit di questo lavoro è: “La distinzione dello psichico in ciò che è cosciente e ciò che è inconscio è il presupposto fondamentale della psicoanalisi […] La psicoanalisi non può far coesistere l’essenza dello psichico nella coscienza ed è invece indotta a considerare la coscienza come una delle qualità della psiche” (p. 476). Tra inconscio e coscienza esiste comunque per Freud un’area intermedia, un limbo psichico che egli chiama preconscio. Quest’ultimo corrisponde a un materiale psichico latente ma molto vicino alla coscienza: “Riserviamo invece – precisa Freud – a ciò che è rimosso e dinamicamente inconscio la denominazione di inconscio” (p. 478).

Tuttavia Freud, sottolineando l’importanza dell’inconscio rispetto alla coscienza, nel senso che è quest’ultima ad essere condizionata dall’inconscio, afferma che “tutto il nostro sapere è invariabilmente legato alla coscienza. Anche l’inc. possiamo imparare a conoscerlo solo rendendolo cosciente […] la coscienza costituisce la superficie dell’apparato psichico […] Sono C [coscienti] tutte le percezioni: quelle che ci giungono dall’esterno (le percezioni sensoriali) e quelle che provengono dall’interno e che chiamiamo sensazioni e sentimenti” (p. 482).

Già nel 1912, in “Nota sull’inconscio in psicoanalisi” Freud aveva usato, per indicare la coscienza, il sistema percezione-coscienza (P-C) per sottolineare il fatto che noi siamo coscienti soltanto di quelle rappresentazioni di cui abbiamo percezione: “Chiameremo allora ‘conscia’ – egli scrive – soltanto la rappresentazione che è presente nella nostra coscienza e di cui abbiamo percezione, attribuendo questo solo significato al termine ‘conscio’; invece le rappresentazioni latenti, se abbiamo motivo di supporre che continuino a esistere nella vita psichica – com’era nel caso della memoria – dovranno essere designate come ‘inconsce’” (pp. 575-576). Questo passaggio di Freud mi sembra di particolare interesse in quanto collega – direi identifica – l’inconscio con la memoria di rappresentazioni latenti.

Freud dedica molta attenzione in L’Io e l’Es alle funzioni dell’Io considerato il rappresentante della coscienza, senza dimenticare tuttavia che esso è, in parte, anche inconscio. Il linguaggio assume (come rappresentazione di parole) la funzione in grado di portare alla coscienza le rappresentazioni (di cose) inconsce, ma resta comunque il fatto che l’Io si comporta in modo essenzialmente passivo e viene “vissuto” da forze ignote e incontrollabili. L’Io è al servizio dell’Es: “Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio, sul quale poggia nello strato superiore l’Io, sviluppatosi dal sistema P [percezione] come da un nucleo” (pp. 486-487). L’Io appare così a Freud come un’istanza a struttura complessa con processi psichici legati alla coscienza ed altri invece inconsci (che si comportano alla maniera del rimosso).

Questa doppia natura dell’Io pone gli studiosi dell’età evolutiva nella condizione di vedere la ontogenesi della mente umana come caratterizzata da una formazione della coscienza che decorre parallelamente alla organizzazione dell’inconscio. All’inizio della vita, infatti, lo sviluppo della mente infantile si articola su tre poli: il desiderio del bambino legato alle sue preconcezioni e motivazioni che lo spingono a relazionarsi con l’oggetto materno; l’equipaggiamento interno del bambino di natura genetica che è in grado di condizionare l’incontro del bambino con la madre e l’ambiente in cui cresce; e, infine, l’ambiente dove la madre ha un ruolo centrale con la sua rêverie nel veicolare, attraverso la voce, il linguaggio, il modo di trattare il corpo e la sua sensorialità, affetti ed emozioni al neonato.

Nei primi periodi della vita, il bambino inizia precocemente a crearsi delle rappresentazioni che nascono dalle sue esperienze sensoriali e dalle sue abilità trasformative legate alla transmodalità percettiva. In virtù di queste capacità da cui nasceranno precocemente le sue funzioni relazionali riflessive, il bambino è in grado di crearsi delle rappresentazioni che costituiranno la base delle imitazioni sensomotorie. Successivamente iniziano i primi processi di identificazione di tipo proiettivo e introiettivo che permetteranno al bambino di arricchire e trasformare le prime rappresentazioni e di sviluppare le proprie capacità simboliche di organizzazione del pensiero. Questo percorso è parallelo a quello descritto dalla Klein, che vede il neonato passare da una posizione schizo-paranoide ad una posizione depressiva, e comporta un processo trasformativo che dalle prime rappresentazioni affettive, raggiunge processi di significazione: plastica, iconica e di vario tipo (nell’area transizionale del gioco), fino alla sviluppo del linguaggio. Questo processo trasformativo può essere dominato da traumi ed emozioni, fantasie e difese che possono influenzarlo e distorcerlo profondamente. Tale processo costituisce comunque le fondamenta della coscienza e della identità del bambino. Ma, ad un tempo, le emozioni e gli affetti, le fantasie e difese che l’accompagnano, depositati nella memoria implicita, verranno a costituire gli elementi fondanti il suo inconscio precoce non rimosso. Il bambino, infatti, in questo periodo della vita non può rimuovere esperienze dolorose e traumatiche né le difese ad esse collegate in quanto le strutture necessarie per la memoria esplicita (ippocampo), indispensabili per la rimozione, non sono ancora mature. Egli usa piuttosto modalità inconsce caratterizzate da negazione e da scissione e identificazione proiettiva di parti del Sé cariche di angoscia. Sarà compito della madre di bonificarle e ritornarle al neonato per una introiezione.

L’ontogenesi della coscienza dunque si accompagna ad un processo parallelo di organizzazione dell’inconscio. La coscienza diventa allora una funzione complessa ma non autonoma. Essa sarà condizionata da fantasie, difese ed emozioni inconsce che influenzeranno i processi di simbolizzazione e tutto il processo trasformativo che dai sistemi delle rappresentazioni affettive raggiungerà i sistemi di significazione fino al linguaggio. Le esperienze qui descritte possono influenzare le primarie relazioni del bambino e facilitare quello che Money-Kyrle chiama “fraintendimento primario”. Il risultato di tale fraintendimento sarà la distorsione delle rappresentazioni affettive inconsce che a loro volta potranno influenzare quelle attività percettive e cognitive che costituiscono gli elementi strutturali della coscienza.

E’ evidente dunque che la coscienza, per la psicoanalisi, è legata al mondo delle rappresentazioni. Una sorta di organo di senso delle qualità psichiche, legato al linguaggio, una funzione che consente al soggetto di porsi in relazione con la propria realtà inconscia. 

* * * 

Diverso è l’approccio neuroscientifico alla coscienza. Non potendosi interessare all’inconscio in quanto privo, fin ad oggi, di un referente anatomo-funzionale specifico, le neuroscienze si sono interessate alle basi neurofisiologiche della coscienza. Esse hanno individuato due forme di coscienza: la coscienza di base (o coscienza primaria, secondo Edelman) e la coscienza differenziata (o coscienza di ordine superiore, secondo Edelman).

La coscienza, nella sua dimensione di base, equivale alla vigilanza e fonda le sue radici nel cervello più arcaico e cioè nei sistemi che operano nel tronco encefalico, in particolare nel sistema reticolare ascendente che controlla il mantello neocorticale attraverso il talamo aspecifico mediale e intralaminare. Su questa base è interessante l’ipotesi di Alfred Fessard che lo stato di coscienza sia dovuto ad una integrazione esperienziale (experienced integration) che avviene all’interno della formazione reticolare del tronco encefalico. Essa infatti è organizzata a rete, integra le varie afferenze sensoriali e organizza un circuito a feed-back che tende ad aggiustare la sua attività ad un livello operativo ottimale da cui dipendono i diversi stati di coscienza, dalla veglia più attenta al sonno; è sensibile a sostanze e ormoni circolanti, controlla in senso ascendente il sistema talamocorticale. I neuroni di questo sistema sono in grado di rispondere a varie afferenze modificando la propria attività passando da un ritmo continuo a un ritmo oscillante come equivalente elettrofisiologico delle variazioni dello stato di coscienza.

La corteccia cerebrale e la sua attività modulare resta il luogo del massimo livello di integrazione. Essa è condizionata dalle influenze sottocorticali di origine reticolare e talamica che possono desincronizzarla (come equivalente elettrofisiologico della veglia) o sincronizzarla (come equivalente elettrofisiologico del restringimento del campo di coscienza fino al sonno).

La coscienza differenziata o di ordine superiore ha caratteristiche diverse e proprietà specifiche come la capacità di analizzare, sintetizzare, richiamare alla mente esperienze ed integrarle nella struttura dell’Io attraverso un sistema coordinato di spazio-tempo. E’ a Jasper che va dato il merito di aver definito le quattro caratteristiche fondamentali della coscienza relativa a) alla propria identità, b) alla propria unicità, c) alla propria attività, d) all’essere in antitesi con il mondo esterno e con l’altro. Molteplici sono le definizioni di coscienza: un complesso di processi psichici che permettono al soggetto di essere consapevole di sé e del suo ambiente, della propria vita psicologica e della propria possibilità di integrare il presente con il passato, di utilizzare le percezioni esterne e interne, o di essere capace di intenzionalità.

Il problema che le neuroscienze si sono poste è: come può l’essere umano diventare consapevole dello spazio-tempo in cui vive, del proprio corpo e della propria identità? Come può stabilire un rapporto tra sé e il mondo?

Vari sono i processi psicofisiologici essenziali per l’organizzazione della coscienza. La percezione è la pietra miliare di tale organizzazione, ma anche l’attenzione, la memoria, l’ideazione, la critica, il giudizio, la volontà, le emozioni, il pensiero, sono aspetti fondamentali della coscienza necessari ad essa per integrare le esperienze con il mondo sensoriale. L’uomo è capace di autocoscienza quando è in grado di attribuire un senso alla sua esperienza vissuta dove percezione, immaginazione e realtà possono integrarsi.

Numerosi neuroscienziati si sono occupati in questi anni di dare una spiegazione neurofisiologica alla coscienza a partire da Popper & Eccles che hanno proposto una teoria dualista interazionista in cui le aree corticali associative dell’emisfero dominante (sinistro) diventano le aree di interfaccia e interazione fra mente e cervello. Tuttavia, l’integrazione più interessante di questi ultimi anni tra neuroscienze e psicoanalisi relativamente alla coscienza viene dai contributi di vari autori. Edelman afferma che la coscienza di sé è legata all’attività della corteccia cerebrale dove si ha l’elaborazione delle informazioni che provengono dall’esterno e dall’interno del corpo, la loro selezione e il trasferimento ad altre aree corticali. La sua teoria della selezione dei gruppi neuronici si basa sulla possibilità che gruppi di neuroni corticali hanno di selezionare schemi di risposte a determinati stimoli, schemi che possono costituire delle mappe cerebrali. Queste ultime interagiscono reciprocamente attraverso un processo di “rientro” che permette alle diverse aree cerebrali di coordinare la loro attività per dare luogo a nuove e sempre più complesse funzioni (come la memoria, la simbolizzazione e lo stesso pensiero). Il cervello, in virtù di questa organizzazione a mappe, può compiere delle categorizzazioni percettive. La teoria della selezione dei gruppi neuronali spiega anche la capacità del bambino di organizzare un’area simbolica precedente a quella sintattica e quindi come elemento centrale della organizzazione della coscienza di ordine superiore.

Per Daniel Dennet, il cervello è capace di ri-progettare se stesso creando la base dell’apprendimento e della memoria. Le funzioni della coscienza si legano così alla plasticità del cervello che ha permesso lo sviluppo del linguaggio dall’homo habilis a noi. E’ dall’homo habilis, infatti, che è iniziata una complessa organizzazione di un software che ha influenzato l’hardware del cervello fino al punto di trasferire queste modificazioni nel genoma (questa è l’essenza di quello che Dennet chiama “effetto Baldwin”).

Damasio pensa che la mente sia un insieme di rappresentazioni o configurazioni neurali che diventano immagini e che possono essere manipolate e diventare forme di una coscienza superiore. Il tutto avviene per integrazione di processi che coinvolgono le aree associative e le aree sensoriali di ordine inferiore in maniera che le percezioni che le raggiungono possono essere organizzate in concetti e categorizzate. La categorizzazione dell’esperienza nelle cortecce prefrontali sarebbe responsabile di rappresentazioni: La coscienza fa parte delle funzioni della mente, frutto di esperienze elaborate e selezionate, memorizzate e storicizzate nel nostro cervello.

Più recentemente, il sistema talamo-reticolare è stato considerato come il responsabile, in virtù del suo controllo sui moduli corticali, delle proprietà essenziali dell’esperienza cosciente. Per questi autori, perché la coscienza emerga è necessario che diversi gruppi di neuroni del sistema talamo-corticale siano coinvolti in circuiti “rientranti” che vengono nel tempo differenziandosi l’uno dall’altra. Il fenomeno del “rientro” è il meccanismo specifico che assicura l’integrazione dell’informazione a livello del sistema talamo-corticale. Questi gruppi neuronali vanno incontro a varie selezioni nello sviluppo, in virtù dell’esperienza che, attraverso vari “rientri”, crea nel tempo nuove sinapsi e partecipa alla plasticità neuronale.

Una proprietà fondamentale dell’esperienza cosciente si fonda sulla capacità che il cervello con le sue componenti ha di affrontare la differenziazione e la molteplicità pur conservando la propria unicità e la propria coerenza. Ad Edelmann & Tononi va dato il merito di avere proposto un’ipotesi che può affrontrare, anche se non risolvere, l’annosa questione di come un’esperienza oggettiva, com’è il caso delle osservazioni in campo neuroscientifico, possa spiegare l’esperienza soggettiva che è alla base della relazione psicoanalitica. Si tratta del problema dei qualia, intesi come qualità specifiche dell’esperienza soggettiva. In quanto esperienze soggettive, i qualia non possono non interessare la psicoanalisi. Alle neuroscienze interessano poiché i qualia, come altre esperienze, possono trovare una loro spiegazione nell’attività di gruppi neuronali che, attraverso i processi di “rientro”, possono costituire un nucleo di elevata complessità quale base per l’esperienza soggettiva. La discriminazione dell’attività neuronale, ad esempio, anche nel neonato o addirittura nel cervello fetale, può venire dal sistema propiocettivo, cinestesico e autonomo. Tali funzioni riguardano in particolare il cervello più antico e cioè il tronco cerebrale (in particolare il ponte) dove i neuroni colinergici maturano molto precocemente rispetto ad altri sistemi. I qualia che emergono da queste attività neuronali del tronco e riferibili a questa precoce discriminazione, potrebbero – secondo questi autori – essere fondanti il Sé più primitivo.

Esiste a questo punto una convergenza di estremo interesse tra questa ipotesi neuroscientifica e quella che emerge dagli studi della vita prenatale. In particolare, è stata recentemente osservata con tecniche ecografiche la presenza alternata sotto forma di cluster di movimenti generali e parziali del feto e di suoi movimenti respiratori già a partire dalla tredicesima settimana di gestazione. La presenza di altri elementi comportamentali ha permesso a questo autore di avanzare l’ipotesi che i neuroni pontini che si sviluppano precocemente nel tronco encefalico coordinino con un meccanismo di alternanza, dovuta all’intervento di interneuroni inibitori, l’attività motoria e respiratoria e diano origine all’inizio del sonno attivo. E’ evidente l’interesse per i qualia che possono emergere da queste attività neuronali e quindi costituire la base per una organizzazione protomentale del feto che può iniziare durante il sonno attivo. Lo stesso discorso può valere per l’interazione precoce madre/bambino dove le esperienze sensoriali e affettive che coinvolgono queste strutture del tronco quale fondamento dei qualia possono costituire le radici primarie di uno stato di coscienza e ad un tempo di un inconscio non rimosso. 

Vita prenatale e neonatale

Infine, vorrei fare qualche riflessione che proviene dalla ricerca sulle origini dell’attività mentale umana a partire dal feto e nei primi periodi della vita.

Un interesse vivo per la vita psichica fetale è presente da molti anni nella comunità psicoanalitica internazionale. Un particolare interesse è stato dedicato alle diverse componenti fisiologiche del feto: attività senso-motoria, comportamento generale, funzioni integrative, in particolare relative ai vari stati di sonno e di veglia. Di particolare interesse è l’attenzione dedicata al comportamento precoce del feto, dalla 10ma alla 20ma settimana di gestazione. Sono state osservate funzioni precoci: movimenti generalizzati, movimenti respiratori, clonie e singhiozzi, ed altri movimenti e comportamenti. E’ stato visto come gruppi di movimenti (generalizzati e respiratori) sono organizzati in clusters alternati. Dato che le strutture neuronali del ponte sono le più precoci ad organizzarsi, è possibile avanzare l’ipotesi che esse presiedano a funzioni ascendenti e discendenti di tipo motorio e sinaptogenico. L’alternanza dei clusters offre una evidenza interessante a favore della maturazione di alcuni circuiti interneuronali inibitori nel tronco encefalico che agirebbero come interruttori che regolano la organizzazione motoria e respiratoria. La precoce attività pontina pone poi un problema importante anche per la psicoanalisi, nel senso che essa può rappresentare la base di un inizio precoce del sonno attivo del feto analoga (per alcuni aspetti) al sonno REM del cervello maturo.

Alla nascita e con l’inizio delle relazioni primarie, il neonato presenta una precoce e intensa capacità di apprendimento basata soprattutto sulle emozioni e sugli affetti che scaturiscono da queste relazioni. Già durante la gestazione, il feto percepisce alcuni ritmi biologici materni come il ritmo cardiaco e il respiratorio. Inoltre egli sente la voce materna nella sua intonazione che gli veicola stati affettivi ed emozionali specifici. Queste esperienze possono essere memorizzate. Su questa base il feto inizia il suo primo rapporto con la madre che si svilupperà alla nascita con il progressivo sviluppo del linguaggio. La voce materna è in grado di influenzare la frequenza cardiaca e il tasso di suzione del neonato. La sensibilità al linguaggio della madre e dell’ambiente in cui cresce permette al neonato di apprendere la sua prosodia molto precocemente e a partire dal sesto mese di vita di rappresentarsi le intonazioni sequenziali relative alle vocali e alle consonanti dello stesso linguaggio.

Esperienze recenti hanno dimostrato che la percezione del linguaggio e le stesse conoscenze grammaticali si sviluppano nel neonato entro il suo primo mese di vita. I fattori linguistici che si organizzano più precocemente sono gli uditivo-fonologici e, in seguito, quelli lessico-semantici. I primi sono legati a una processualità che riguarda il giro temporale superiore posteriore (area 22 di Brodman), mentre i secondi interessano le regioni temporo-parietali (giro angolare e sopramarginale, aree 39 e 40 di Brodman) dell’emisfero sinistro. I processi grammaticali e sintattici giocano un ruolo critico nell’integrazione selettiva delle informazioni lessico-semantiche e sono localizzati nel giro frontale inferiore dell’emisfero sinistro, che comprende le aree opercolari e triangolari (aree 44 e 45) e l’area frontale laterale premotoria (aree 6, 8, 9) di sinistra. Queste aree costituiscono quello che è definito come “centro grammaticale” del linguaggio. Esso si attiva per qualsiasi lingua cui il bambino è esposto confermando la natura universale dei processi grammaticali già proposta da Chomsky. E’ necessario tuttavia qui ricordare che il bambino risponde con un’attività motoria generalizzata al linguaggio dell’adulto (eterosincronico) e alla sua stessa lallazione (autosincronico). Questo significa che tutte le aree sensomotorie partecipano all’inizio allo sviluppo del linguaggio e che solo successivamente si organizzano i vari centri grammaticali, sintattici e semantici del linguaggio. E’ questo il momento in cui le funzioni linguistiche si concentrano nei diversi centri dell’emisfero sinistro.

Oltre alla voce e al linguaggio, il contatto visivo è estremamente importante nell’ambito della relazione primaria del bambino con la madre. Già durante il primo anno di vita, il neonato impara rapidamente che lo sguardo degli altri veicola informazioni significative. Tali informazioni sono di natura essenzialmente affettiva e procurano intense emozioni nel neonato. Anche il corpo costituisce un elemento della relazione del bambino con la madre. Il modo con cui la madre lo contiene, lo tocca, lo guarda, gli parla, il livello della sua rêverie costituiscono aspetti importanti della relazione in quanto veicolano affetti ed emozioni che il neonato depositerà e conserverà nella sua memoria implicita. Potremmo definire tale deposito, con una metafora presa dalla genetica, il suo DNA psicologico che caratterizzerà la sua personalità per il resto della sua vita.

A queste prime esperienze della vita neonatale ha portato un contributo significativo il gruppo di Lehtonen che ha approfondito la conoscenza psicofisiologia e neurofisiologica degli eventi che accompagnano l’allattamento e la primaria organizzazione della mente coscia e inconscia del neonato. Nei primi periodi della vita, la interazione del neonato con la madre è basata sul gioco comunicativo che riguarda il corpo. La interazione corporale tra il neonato e la madre raggiunge il suo apice nell’allattamento che produce un intenso scambio nel momento di succhiare al seno e altri contatti pelle-a-pelle che soddisfano i bisogni istintuali vitali del bambino. Su questa interazione si organizza un “Io-corpo” (Body-Ego) che può essere considerato come una primordiale matrix-like structure.

Nel neonato, durante l’allattamento, si osserva una variazione nell’ampiezza dell’attività EEG nelle aree corticali posteriori dell’emisfero destro. Questo evento è particolarmente accentuato nel neonato affamato, mentre è assente durante un succhiare pacifico. L’intenso bisogno di cibo insieme allo stimolo sensoriale dell’allattamento può così modificare l’attività corticale del neonato. Tale cambiamento non è più presente a 3 mesi di vita. Ma a 6 mesi compare un’attività Theta nell’EEG durante l’allattamento. Tale effetto di rinforzo delle onde Theta dimostra che le connessioni tra le strutture sottocorticali e le aree corticali si sono maturate così da creare la base per una “rete neurale organizzata” che permetta la registrazione in corteccia di eventi sensoriali collegati all’allattamento insieme all’attivazione di centri sottocorticali che regolano il comportamento nutritivo del bambino.

E’ stata vista a 9 mesi un’attività Theta non solo quando il neonato è al seno, ma anche quando osserva delle immagini piacevoli: per questo tale attività è stata definita “Theta edonico”. E’ così possibile l’ipotesi che il ritmo Theta possa funzionare come l’equivalente elettrico di esperienze affettive precoci (piacevoli e spiacevoli). E’ interessante ricordare che attività Theta è presente anche durante il sogno in fase REM dell’adulto. L’interesse di queste osservazioni sta nel fatto che l’interazione madre-bambino con le sue componenti neurofisiologiche può essere collegata a quei processi che conducono nei primi anni di vita alla formazione della memoria implicita.

La relazione del neonato con il suo corpo, quale derivato della interazione con la madre, è essenziale alla formazione nello spazio mentale dell’immagine del corpo e delle sue funzioni. L’”Io corporeo” (Body-Ego) è così da considerare come una organizzazione della prima immagine protomentale del Sé. Il succhiare al seno è un elemento importante nella organizzazione mentale precoce dell’Io-corpo.

L’interesse psicoanalitico di queste varie e complesse vicende sulla vita prenatale e perinatale scaturisce dal fatto che la mente umana si organizza molto precocemente e che traumi di vario genere che colpiscono il feto possono influenzare lo sviluppo del suo cervello e delle sue funzioni mentali consce e inconsce precoci, condizionando quindi il modo con cui alla nascita il neonato può relazionarsi con la madre e l’ambiente in cui cresce. Tutto ciò ha un’importanza enorme per la teoria e pratica psicoanalitica. Gli affetti e le emozioni che la voce materna ha veicolato al feto e al neonato, così come le attenzioni e le cure date al suo corpo possono ricomparire nel transfert e simbolicamente essere rappresentate nei sogni dei nostri pazienti. Questo valorizza la ricerca sulla vita fetale e neonatale, a cominciare con l’infant observation fino agli studi sull’attaccamento, funzioni riflessive e studi relativi alla formazione del Sé più precoce e alla organizzazione delle funzioni coscienti e inconsce della mente umana.

 

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