La Ricerca

Moccia G.(2016). Discussione della relazione di C.Alberini

8/01/17

Moccia G.(2016). Discussione della relazione di C.Alberini

Testo presentato alla Giornata Nazionale di Studio del Gruppo di Ricerca Psicoanalisi e Neuroscienze – Roma 26 novembre 2016,  Auditorium Rieti 

L’articolazione fra la teoria ed il metodo, utile al funzionamento della coppia analitica in un assetto mentale consapevole  – libere associazioni/attenzione liberamente fluttuante  – molto simile al funzionamento del sogno,  è stata la formidabile scoperta di Freud per operare un allentamento dei processi secondari, per accedere all’indagine sui derivati inconsci  e operare una decostruzione del soggetto. Come è noto  per Freud le procedure di indagine sui processi mentali erano connesse a quello della ricerca teorica, in un legame inseparabile fra terapia e ricerca, inoltre ogni nuova conoscenza era accompagnata “dall’esperienza dei benefici effetti che da esso potevano derivare”. (Freud, 1926). La teoria dunque consentiva la comprensione dei dati clinici, definiva un metodo e una tecnica, era giustificata dal successo terapeutico e a sua volta era influenzata dalle nuove osservazioni. E come ogni scienza dunque la psicoanalisi, nel corso della sua storia, si è confrontata con nuove osservazioni e ha dovuto affrontare il difficile compito di verificarne la compatibilità o la rottura con i concetti preesistenti e quindi la loro possibile integrazione o al contrario la necessità di introdurre nuovi concetti. Ciò è accaduto, come sappiamo, in ragione di modificazioni teoriche e tecniche secondarie all’allargamento della cura psicoanalitica a nuove popolazioni cliniche (bambini, pazienti difficili, disturbi dell’identità), per le nuove conoscenze derivanti dalle nostre stesse ricerche ( si veda l’evoluzione della riflessione sulle nostre teorie dello sviluppo introdotte dalla teoria dell’attaccamento) (Dreher, 2000), ed infine per ragioni extracliniche come nel caso dell’influenza esercitata dai dati provenienti dalla ricerca sperimentale delle neuroscienze (ad esempio, come nel caso odierno, le scoperte relative al funzionamento della memoria).

Come si sa una strategia iniziale (per accomodamento) ha reso possibile l’integrazione delle nuove osservazione attraverso una marcata attenzione alla “elasticità dello spazio di significato dei concetti” (Sandler, 1987), vale a dire attraverso una estensione del significato di un concetto tale da comprendere e le sue formulazioni originarie e le sue evoluzioni successive. Questo approccio integrativo ha favorito il lavoro creativo dei clinici e mantenuto il legame fra elementi invarianti irrinunciabili dei concetti e le loro successive trasformazioni ma, nel tempo, ha esteso a dismisura lo spazio di significato dei singoli concetti rendendoli vaghi e contraddittori, determinando una certa confusione nel dibattito scientifico per la quale ci riferiamo spesso con lo stesso termine ad osservazioni cliniche diverse o viceversa con termini diversi al medesimo dato clinico.

Così nell’attuale panorama di pluralità dei modelli psicoanalitici si verifica il fatto che le differenti teorie patogenetiche, le concezioni della efficacia terapeutica e persino della guarigione psichica dei singoli modelli restano l’una accanto all’altra, senza confrontarsi né modificarsi, in un rapporto di mera commensalità. Se l’attuale pluralismo in psicoanalisi ha rappresentato nel nostro recente passato una testimonianza della fecondità della psicoanalisi e della sua capacità di sottrarsi al dogmatismo, oggi la molteplicità di teorie evolutive, patogenetiche e della azione terapeutica, spesso incompatibili fra loro,  mina l’unità teorica e disciplinare della psicoanalisi e ha richiesto un serio programma di confronto fra le teorie e le osservazioni dei diversi modelli psicoanalitici. Una risposta è stata la ricerca sulle teorie implicite dell’analista, un’altra la ricerca sui concetti (Dreher, 2005), un’altra più recente la rigorosa comparazione assiomatica fra i modelli (Riolo, 2015).

In questo programma può trovare posto secondo me anche la collaborazione fra psicoanalisi e neuroscienze secondo principi di pluralismo metodologico, nel rispetto reciproco delle rispettive differenze di statuto disciplinare e metodologico. E’ possibile cioè che da una parte la psicoanalisi utilizzi il proprio enorme patrimonio di conoscenze sulla soggettività per suggerire alle neuroscienze possibili terreni di ricerca sperimentale e che di ritorno i dati emergenti nel campo neuroscientifico (come nel caso odierno le ricerche sulla memoria) stimolino la nostra ricerca e il confronto, contribuendo a promuovere la valutazione dei concetti teorici, ad esempio interrogando la psicoanalisi sulle proprie teorie evolutive, del trauma o della azione terapeutica in modo da poter risolvere o integrare  le contraddizioni concettuali.

E’ possibile perciò prefigurare una collaborazione fra psicoanalisi e neuroscienze per una ricerca futura e forse anche per questo oggi siamo qui.

Mi sembra che le considerazioni esposte poco fa da Falci sulla evoluzione del concetto di ricostruzione a partire dalle prime formulazioni di Freud  nell’Uomo dei lupi vadano in questo senso.

In effetti l’evoluzione della teoria psicoanalitica verso la prospettiva relazionale, trasversale ai diversi modelli, le modificazioni di tecnica utili alla cura dei nuovi disturbi dell’identità e più in generale l’influenza esercitata dalle teorie post-moderne hanno diminuito di molto l’autorità dell’analista e la sua presunzione di verità come interprete di un soggetto continuamente decentrato dalla propria attività inconscia. Oggi l’analista offre la propria interpretazione con modalità più dubitative e la costruzione del significato è generata dalle due persone presenti nella stanza d’analisi, fatta salva naturalmente la condizione di assimetria della relazione. Dopo i moniti di Winnicott sui rischi della interpretazione siamo più edotti oggi sulla sua possibile violenza e questo si traduce in una maggiore disponibilità dell’analista, pur convinto delle proprie idee, ai cambi di prospettiva, a mettere da parte provvisoriamente le proprie ipotesi interpretative se il paziente non le conferma silenziosamente con la ripresa della attività associativa. Così oggi, soprattutto nelle patologie da trauma pregresso  è più frequente l’uso relazionale della ricostruzione di eventi storici come mezzo per confermare la plausibilità delle esperienze e delle constatazioni del pazientepromuovendo la percezione che egli della realtà.

Ma tornando allo specifico della giornata odierna, ai risultati delle ricerche sulla memoria della Drssa Alberini, trovo le sue scoperte molto interessanti e utili per noi per come sono correlate alla nostra stessa ricerca su temi quali le modalità non simboliche di iscrizione in memoria dell’esperienza e delle sue successive ritrascrizioni, le vicissitudini della formazione della struttura psichica e della patogenesi dei principali disturbi del nostro tempo (attacchi di panico, tossicodipendenze, disturbi di personalità, disturbi post-traumatici del trauma infantile e adulto) e, non meno importante, le vie della azione terapeutica.

Per quanto riguarda la memoria di esperienze non pensate è immediato il nostro riferimento alle intuizioni freudiane sull’inconscio non rimosso dello scritto sull’Inconscio come pure quelle relative alle esperienze non formulate, a quanto, rimasto non capito era per questo destinato a ripetersi, (Freud, 1920). (La coazione a ripetere è l’espressione di un principio di attività, il tentativo del soggetto di padroneggiare attivamente una esperienza di passività traumatica che può essere immagazzinata nella memoria in un formato verbale o non verbale)

 Concordo poi con l’affermazione che la memoria sia strettamente collegata con l’identità.

In passato ho usato in lavori, il termine di memoria identificatoria, che fa riferimento alla memoria delle identificazioni primarie, antecedenti e indistinguibli dall’investimento oggettuale e a come queste memorie riguardino  processi di regolazioni affettive condivise nell’ambiente primario: e così, in accordo con la Drssa Alberini, possiamo dire che certamente noi siamo il prodotto della nostra storia nel senso che la memoria del passato e la coscienza del nostro stato psichico presente orienta le nostre scelte e ci guida verso futuro, ma siamo anche riconosciuti dagli altri per come la memoria di una miriade di interazioni affettive vissute negli anni della nostra infanzia, depositate dentro di noi come schemi di relazione  inconsci, influenza il nostro carattere, le nostre aspettative inconsce e il nostro comportamento, i sogni e la coazione a ripetere il nostro passato.

Viene in mente il mito di Odisseo, il suo ritorno ad Itaca, in incognito, travestito da mendicante, così che nessuno lo riconosca e possa guadagnare tempo e modi di organizzare la riconquista del proprio trono dalla usurpazione dei Proci. Solo Euriclea, la sua nutrice dell’infanzia, lo riconosce, commossa, al momento del lavacro che si deve all’ospite, da una vecchia ferita alla gamba, esito di una sua caccia giovanile al cinghiale. La ferita dunque, vale a dire la storia di Odisseo, lo connota e lo rende riconoscibile agli altri.

Riconsolidamento delle memorie ed azione terapeutica.

Il fatto che le memorie di una esperienza emotiva, dopo un primo periodo di labilità, vadano incontro nel tempo a processi di consolidamento che stabilizza e rende duraturo il ricordo e che tali memorie tuttavia ritornino ad essere  temporaneamente sensibili e fragili quando sono recuperate attraverso una successiva esperienza, per un tempo determinato prima del successivo riconsolidamento (cui corrispondono a livello molecolare una nuova sintesi proteica)  che le trasforma in una memoria a lungo termine, ci dimostra che è possibile modificare memorie già stabilizzate e diminuirne la portata emotiva se si interviene sul loro riconsolidamento e per quanto riguarda il nostro campo, ci dà una immediata conferma sperimentale delle osservazioni cliniche sulle potenzialità trasformative del transfert e sul rimodellamento della memoria in conformità con l’esperienza immediata e attuale. Tutto ciò ci è familiare per come è coerente con la nozione freudiana di molteplicità e dinamicità della memoria per la quale essa non consiste in una registrazione permanente nel cervello, isomorfa all’esperienza passata ma è piuttosto una ricostruzione dinamica attivata da isomorfismi parcellari fra l’esperienza presente e quella passata – Nachtraglichkeit. (Lett a Fliess 1986: Il materiale di tracce mnestiche esistente è di tanto in tanto sottoposto a una risistemazione in base a nuove relazioni, a una sorta di riscrittura). 

Qui pongo alla Drssa Alberini una domanda relativa a quale funzione assegnare alla fantasia nella ritrascrizione della memoria: è un tentativo della mente di rappresentare quanto è rimasto non formulato, memorie traumatiche iscritte in memoria in formati non simbolici? o è l’espressione di una creazione che non ha necessariamente a che fare con l’esperienza passata (ad esempio fantasie derivate dal complesso edipico) ed è responsabile del fenomeno dei falsi ricordi?

Tuttavia i risultati della ricerca suggeriscono ulteriori indicazioni utili per la clinica dimostrando che le trasformazioni della memoria sono dipendenti da diversi fattori: il primo è l’intensità della attivazione emotiva durante l’esperienza, il secondo è rappresentato dalle finestre temporali utili per intervenire e bloccare il riconsolidamento. Se prendiamo ad esempio il modello del trauma abbiamo evidenze che la condizione di impotenza del soggetto, in una situazione sopraffacente, determina la liberazione di ormoni dello stress (glucocorticoidi) che scatena una reazione di stress prolungata che riporta di continuo la mente alla esperienza traumatica riconsolidandone la memoria. In questa fase interventi di tipo ricostruttivo allo scopo di integrare e trasformare l’esperienza potrebbero risultare iatrogeni in quanto il soggetto non riuscirebbe a ricordare l’esperienza senza ripeterla. Durante “la fase iniziale del trauma – propone la Alberini – il ricordo riattiva la traccia mnemonica per rafforzarla e facilitare il consolidamento a livello di sistema di memoria”. Bisognerà dunque aspettare che il consolidamento della memoria diminuisca nel tempo perché sia possibile far conto sugli aspetti plastici della memoria, sarà allora possibile rievocarla e renderla di nuovo labile e quindi trasformabile sotto l’influenza nella nuova esperienza prima che essa sia definitivamente riconsolidata come memoria a lungo termine. In termini clinici l‘influenza della nuova esperienza è determinata dalla comprensione empatica e dal coinvolgimento dell’analista durante la rievocazione dell’esperienza passata o durante la sua ripetizione nel transfert. Nel nostro linguaggio la ripetizione della vecchia relazione con l’oggetto è necessaria a fornire gli elementi affettivi e cognitivi per una nuova relazione con l’oggetto.

In sintesi l’esperienza traumatica impedisce l’appropriazione soggettiva, l’assimilazione psicologica dell’esperienza scollegando la percezione dall’associazione ad altri e nuovi ricordi. L’alterazione della coscienza che taglia fuori i legami associativi con l’esperienza cosciente, e nei casi di trauma infantile precoce, di articolazione simbolica dell’esperienza, separa l’esperienza dal sentimento di essere il soggetto dell’esperienza. I ricordi dunque, sono rapidamente perduti a causa della reazione di stress e rimangono accessibili alla coscienza  solo in due modalità: o le qualità sensoriali, fisiologiche ed emotive delle esperienze traumatiche intrudono nel soggetto in uno stato alterato di coscienza e sono ripetute senza che il soggetto abbia alcuna  possibilità di accedere ad una narrazione trasformativa oppure (e questo ha una importanza non secondaria per quanto la tecnica della cura) sono “recuperati”, per quanto incompleti e frammentari, all’interno del legame affettivo con un’altra persona attraverso i significati che questa conferisce alle esperienze e alla storia del paziente. Questa modalità di conoscenza di sé stessi attraverso l’esperienza che un’altra persona fa del soggetto è tipica della situazione analitica in ragione del fatto che il dispositivo analitico è particolarmente adatto a favorire le comunicazioni affettive attraverso vie non verbali quali le identificazioni proiettive, gli enactment, gli agiti, i sogni ricorrenti, che sono le vie maestre di comunicazione delle memorie traumatiche.

Dal lavoro della Alberini mi pare anche di poter desumere anche l’importanza che ancora si deve assegnare alla ricostruzione delle esperienze traumatiche.

All’importanza cioè di collegare in un secondo tempo l’indagine sulla dinamica transfert-controtransfert nel qui ed ora con le esperienze del passato nel tentativo di ricostruire  l’esperienza traumatica, sebbene in modo ancora frammentario e dare avvio ad un processo trasformativo.

Naturalmente non ci illudiamo di poter cogliere la verità storica dell’evento traumatico in sè ma quello che è essenziale è riconoscere l’esperienza dissociata che il paziente ha del trauma in modo da aiutarlo a legittimarla e a recuperare il contatto con la propria storia. Si tratta di una funzione di testimonianza dell’analista che per lo più è racchiusa in momenti ad alta intensità affettiva fra analista e paziente che conferma l’esperienza vissuta dal paziente nel riconoscimento che qualcosa è davvero accaduta nonostante la difficoltà di ricostruirlo completamente. Ed è per lo più per questa via che è insieme narrativa ed affettiva che gli affetti, le sensazioni, le impressioni e agli stati interni indotti dalle memorie traumatiche che non sono mai stati convalidati arrivano ad essere reali e pensabili per il paziente nella nuova esperienza condivisa con  l’analista.

La  Dr. Alberini in realtà  sostiene che la traccia della nuova esperienza non trasforma la vecchia memoria che col passare del tempo è divenuta una memoria a lungo termine e quindi intrasformabile ma semplicemente affianca a questa una memoria nuova. La sottolineatura è appropriata per noi analisti che per lo più lavoriamo con il trauma cumulativo piuttosto che con il disturbo da stress post-traumatico e non ci illudiamo che le memorie traumatiche possano essere cancellate. Tuttavia  questa proposta sembra consonante con l’osservazione clinica  di fasi intermedie dell’analisi nei quali si manifestano nel comportamento e nelle associazioni del paziente angosce di integrazione dovute alla coesistenza delle nuove organizzazioni dell’esperienza scaturite dalla relazione con l’analista con le organizzazioni patologiche invarianti dell’esperienza di sé e dell’altro funzionali all’adattamento perché modellate sui principi di regolazione affettiva condivisi con l’altro (ad esempio il diniego delle proprie percezioni e  la perdita  delle connessioni fra esperienza e rappresentazione).

Il risultato comunque sembra essere quello di un depotenziamento delle identificazioni alienanti derivate dal trauma adulto o infantile accompagnato da nuove strutture, definibili come nuove memorie identificatorie, derivate dalla assimilazione della relazione con l’analista.

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