La Ricerca

Nevrosi ossessiva

16/09/16
experience and the brain

experience and the brain

A cura di Carlo Brosio

All’inizio del secolo con “Il caso dell’Uomo dei topi”, Freud (1909) si trova davanti ad una delle più affascinanti e misteriose patologie mentali che contribuirà a far uscire dalle nebbie del misticismo ottocentesco permettendone una comprensione clinica. Le sue costruzioni esplicative resero praticabile un avvicinamento ai tormenti dell’ossessivo, ai suoi dubbi, ai suoi rituali e ruminazioni. La descrizione psicoanalitica della nevrosi ossessiva compiuta da Freud ha reso atto della lotta senza quartiere affrontata da questo giovane paziente contro la sofferenza psichica: la sua ambivalenza, il bisogno disperato di controllo delle emozioni, la lotta contro i desideri proibiti, la qualità rigida e implacabile delle sue proibizioni interne, la necessità per sopravvivere psichicamente, di fare ricorso al pensiero magico.

Già nel 1907 in “Azioni ossessive e pratiche religiose” Freud focalizza il tema del rapporto fra ossessività e rituali cerimoniali indicando nella nevrosi ossessiva la religione privata dell’individuo. E ancora in “Totem e Tabù” (1912-13) torna sulla concordanza fra fenomeni ossessivi e rituali magici delle società arcaiche. Nel 1925 con “Inibizione, sintomo e angoscia” egli riprende più distesamente il concetto di “rendere non accaduto” già incontrato nell’analisi dell’Uomo dei topi, che qui diventa una delle radici del cerimoniale ossessivo e consente la comprensione della coazione a ripetere. Il genio di Freud permise di assegnare alla nevrosi ossessiva un posto stabile fra i grandi quadri nosografici inaugurati dalla psicoanalisi: egli infatti definì la specificità eziopatologica di questa nevrosi dal punto di vista dei meccanismi di difesa (spostamento dell’affetto, isolamento, annullamento retroattivo), dal punto di vista pulsionale (ambivalenza, fissazione anale, regressione), topico (interiorizzazione di un super-io crudele) e relazionale (sado-masochismo, carattere anale).

I contributi successivi a Freud sono ben sintetizzati dalle osservazioni di Anna Freud presentate al termine del Congresso dell’International Psychoanalytic Association del 1965 sulla Nevrosi Ossessiva che sostanzialmente ribadiscono le posizioni classiche: centralità dei fattori costituzionali responsabili dell’intensità anomala delle tendenze sadico-anali e della scelta da parte del nevrotico ossessivo degli specifici meccanismi di difesa che determinano il quadro sintomatologico. Aspecificità, dal punto di vista eziologico, della ricerca di cause determinanti il disturbo ossessivo nello sviluppo precoce del bambino; importanza delle relazioni famigliari e delle modalità di educazione nell’attivare invece la regressione e la conseguente fissazione alla fase anale determinata dalle tendenze libidiche costituzionali; difetto della funzione sintetica e conseguente difficoltà nella fusione di amore/odio, passività/attività, mascolinità/femminilità.

L’approccio alla nevrosi ossessiva è quindi rimasto saldamente ancorato ai concetti metapsicologici della tradizione classica, mentre si è assistito a sempre più sottili quanto utili distinzioni in ambito clinico-diagnostico fra nevrosi ossessiva propriamente detta, manifestazioni ossessive, carattere ossessivo, tratto e stile ossessivo.  Grande lavoro è stato fatto, attraverso l’osservazione e il trattamento dei pazienti ossessivi, per individuare le peculiari difese che distinguono questa patologia: isolamento, spostamento, annullamento, depersonalizzazione sono i meccanismi difensivi specifici attraverso i quali l’ossessivo si protegge da angosce insopportabili.

Il successivo apporto della scuola kleiniana, sviluppa il tema dell’ossessività individuando l’evolversi della qualità dei fenomeni ossessivi che procedono da un’ossessività primitiva caratterizzata da angosce psicotiche legate al controllo e al dominio, fino ai meccanismi ossessivi connessi alla riparazione dell’oggetto e accompagnati quindi dalla cura, dall’amore e dalla considerazione per esso.

Tra i più importanti successori della Klein, Meltzer (1975) considera l’utilizzo difensivo dei meccanismi ossessivi in bambini autistici come tentativo di ipersemplificazione massiva dell’esperienza attraverso la separazione e il controllo onnipotente sugli oggetti interni o esterni. Ma lo stesso meccanismo di funzionamento ossessivo è strumento fondamentale alla modulazione e integrazione fra sviluppo emotivo e intellettuale e contribuisce all’equipaggiamento dello spirito scientifico che, attraverso i modelli sperimentali della scienza, modula l’onnipotenza a scopo conoscitivo.

La psicoanalisi non ha elaborato una tecnica specifica per il trattamento della nevrosi ossessiva: analisti diversi, in momenti differenti della storia della nostra disciplina, hanno elaborato aspetti e peculiarità specifiche della sintomatologia, della struttura psichica e della cura.  Complessivamente nella letteratura internazionale viene evidenziata la necessità di costruire condizioni di fiducia nella relazione analitica mantenendo viva l’attenzione a evitare che il sintomo ossessivo aderisca, rinvigorendosi, alle ritualizzazioni del setting o dell’analista. Il peculiare metodo delle libere associazioni è infatti particolarmente ostico all’ossessivo che tende a vivere come una grave minaccia il libero flusso dei contenuti che si presentano alla coscienza come portatori di quote di emozioni avvertite come incontrollabili. La stessa interpretazione è spesso percepita dal paziente come contropartita quantitativa dell’onorario elargito all’analista quando non direttamente intrusiva e sadica. La relazione analitica è quindi costantemente polarizzata dal conflitto fra il bisogno dell’ossessivo di porre fine al proprio soffocante isolamento affettivo e la grande angoscia che promuove una condizione di intimità nel rapporto.

L’evidenza clinico-teorica dell’impossibilità di permanere oggi nel quadro concettuale di una psicologia unipersonale, ancorata al modello pulsionale freudiano, di cui è paradigma la cura del paziente ossessivo, rende necessario costruire nuovi modelli teorici e clinici che tengano conto dell’importanza non solo dell’equazione personale dell’analista, ma della complessa interazione della coppia analitica e degli apporti legati all’ipotesi traumatica dell’eziologia della sofferenza mentale.

Un’ipotesi che, in questa prospettiva, supera l’eziopatogenesi del conflitto intrapsichico nella nevrosi ossessiva, considera l’ambiente primario deficitario in relazione al predominio dei criteri quantitativi nelle prime relazioni oggettuali che non consentirebbe al bambino di sostare sufficientemente nell’area fusionale: una madre inadeguata a vivere l’esperienza che sta attraversando non riuscirebbe a farsi usare come oggetto trasformativo accettando naturalmente la rinuncia temporanea a una chiara demarcazione del confine del proprio sé. L’indisponibilità materna nel donarsi generosamente, senza calcolo, ma con calore e pienezza al contatto mentale e fisico non fornirebbe quell’ambiente necessario alle esperienze appropriate alle prime fasi dello sviluppo del bambino.

Il deficit evolutivo connesso alla mancanza di specificità nei modi di accudimento primari sarebbe responsabile, almeno in parte, degli adattamenti patologici che esitano nei fenomeni ossessivi: si può tentare l’ipotesi che questi rappresentino il tentativo di porre rimedio a una inadeguatezza traumatica della capacità di reverie materna consistente nel privilegiare aspetti quantitativi su quelli qualitativi: un tipo di accudimento centrato su spazio, tempo, contiguità, opposizione, regole e doveri che irrigidirebbero lo spazio mentale in una prospettiva bidimensionale. Il difettoso funzionamento della reverie materna condurrebbe alla formazione di un’istanza superegoica rigida e controllante che non consentirebbe la metabolizzazione delle proto emozioni.  (Brosio, 2005)

Ciò che appare di particolare evidenza nella tecnica di lavoro con un paziente ossessivo è che l’interpretazione classica, la decodificazione simbolica e l’insight come suo momento ostensivo, non offrono sollievo e non producono efficace trasformazione, attivando semmai compiacenza, fraintendimento e pensiero conformista. Il controllo anale ritentivo dell’ossessivo permette di mantenere la sequenza del discorso attraverso una logica controllante e asfissiante al fine di neutralizzare la mente dell’analista. Lo stile narrativo ossessivo costituisce l’espressione empirica dei tipici meccanismi di difesa della nevrosi ossessiva: formazione reattiva, annullamento e isolamento (Libermann, 1974).

I pazienti ossessivi appaiono dunque abitati da un mondo di relazioni oggettuali antivitali e mortifere codificate da un rigido controllo che soffoca ogni emozione perché esplosiva e caotica. L’isolamento affettivo a cui essi si condannano può essere superato attraverso una paziente e ripetuta offerta di un ambiente – l’analisi – che faciliti la regressione e l’emergenza dei sentimenti traumatici e confondenti che appaiono al limitare di questa fase.

Nella terapia del paziente ossessivo la funzione interpretativa deve essere dunque veicolata da interventi più interlocutori e narrativi destinati, non solamente alla descrizione del mondo interno del paziente, ma anche alla costruzione di una reciproca sintonizzazione (Stern, 1998) che possa facilitare i processi evolutivi della coppia analitica. Il paziente ossessivo ha bisogno di un analista intatto e solido, capace di riconoscere le proprie manchevolezze senza colpa o mortificazione, che lo incoraggi a pensare liberamente e a giudicare la propria realtà interna ed esterna. L’analista che offrirà qualità affettive (pazienza, coraggio e simpatia) e disponibilità emotiva, pur nelle inevitabili ripetizioni dei fallimenti empatici primari, potrà permettere al paziente di emozionarsi e tornare a vivere con pienezza. Incontrando questi individui mortificati nel loro diritto a esistere, l’analista potrà affrontare il loro isolamento e le loro ritualizzazioni ponendosi in ascolto di quegli elementi non ancora sufficientemente strutturati per essere riconoscibili: sensazioni, disagi somatici, immagini mentali e quant’altro percorra il campo emotivo in cerca di consistenza e parola. L’insorgere di riverberi controtransferali costituisce l’unica traccia da poter seguire per raggiungere isole di affetti spesso sorprendenti.

Bibliografia

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