La Ricerca

Ponsi M. (2016). Trasformazioni psichiche, plasticità neurobiologica. Se l’analista ha in mente il cervello.

30/11/16

Giornata Nazionale di Studio del Gruppo di Ricerca Psicoanalisi e Neuroscienze. Roma 26 Nov 2016

Tavola Rotonda  –   La clinica psicoanalitica: plasticità neurobiologica, trasformazioni psichiche. Il ruolo delle diverse forme di memoria, con T.Giacolini, A.Iannitelli, G.Mattana, M.Ponsi, R.Spagnolo

 

Ponsi M. (2016). Trasformazioni psichiche, plasticità neurobiologica. Se l’analista ha in mente il cervello.

 

Sono due o tre decenni che dapprima ristretti, e poi via via sempre più estesi, settori della comunità psicoanalitica riflettono sulle implicazioni che le acquisizioni delle neuroscienze possono avere per la psicoanalisi. Le ‘terre di confine‘ della psicoanalisi – per riprendere il titolo del libro di Merciai e Cannella del 2009 (1) – sono sempre più frequentate, anche se spesso l’interesse dichiarato per le neuroscienze non va al di là di un generico apprezzamento per il dialogo interdisciplinare (2).

All’interno di una pratica che è ormai diventata abbastanza diffusa in ambito psicoanalitico, in cui la riflessione psicodinamica si arricchisce dei dati neuro-biologici, continua a serpeggiare una domanda: “Quale è la ricaduta di tutto ciò nella pratica clinica quotidiana? Le conquiste delle neuroscienze cambiano il modo di condurre un trattamento analitico?“.

Non è una domanda di secondaria importanza, dal momento che l’analista passa la maggior parte del proprio tempo non su riflessioni teoriche ma nel suo studio, a vedere pazienti, con quesiti concreti relativi alla dinamica psichica e al processo analitico. Anche il clinico poco interessato alle discussioni sui fondamenti epistemologici della psicoanalisi vuole capire – se non altro perché l’argomento <neuro-> è ormai onnipresente ! – quali possano essere gli effetti delle acquisizioni delle neuroscienze sul suo operare clinico.

Chi si adopra per integrare i dati neuroscientifici nell’apparato concettuale della psicoanalisi spesso ne sottolinea l’utilità clinica.

Vorrei soffermarmi su questo punto.

Sull’utilizzazione clinica dei dati delle neuroscienze sono perplessa; non certo perché io intenda preservare la nostra disciplina da contaminazioni con logiche e procedure che non le appartengono e che potrebbero minare i suoi fondamenti o la sua autonomia (3). Tutt’altro! Sono molto interessata, anzi favorevole, alle contaminazioni; ma vorrei evitare il rischio di accogliere in modo tanto entusiasta quanto affrettato le acquisizioni della ricerca neuroscientifica: queste ci affascinano e in molti casi ci sono utili per spiegare fenomeni clinici, ma, a mio parere, non sono per lo più altrettanto utilizzabili per guidare la pratica clinica, per orientarla in un modo piuttosto che in un altro. Eppure, come clinici – come clinici “che hanno in mente il cervello” – è questo che vorremmo: poter disporre di dati della ricerca neuroscientifica che ci aiutino a orientare il nostro agire clinico. Ed è probabile che questo lo vogliano anche i pazienti, per sentirsi rassicurati da una psicoanalisi meno artigianale e più scientificamente fondata.

Ho utilizzato l’espressione “avere in mente il cervello” perché da quando mi interesso alle  neuroscienze come una risorsa per la psicoanalisi e essendo al contempo particolarmente interessata alle evoluzioni della clinica psicoanalitica (… in particolare, a come evolvono le teorie implicite degli analisti) ho cercato di osservare – a cominciare da me stessa – come queste nuove conoscenze intervengono, o interferiscono, nell’attività clinica: dove e come la dimensione neuro-biologica e neuro-cognitiva (il <cervello> appunto) si posiziona nella mente dell’analista, che tipo di osservazioni cliniche suggerisce, che tipo di interpretazioni ispira.

Una risposta alla domanda sulla rilevanza della ricerca neuroscientifica per la clinica psicoanalitica l’ha data, circa 15 anni fa, S.Pulver, che l’ha riassunta senza mezzi termini nel titolo stesso del suo articolo: “Sulla sorprendente irrilevanza clinica delle neuroscienze” (4). Senza addentrarmi nelle sue argomentazioni, voglio sottolineare un punto:  la sua affermazione, ancorché drastica, è essenzialmente empirica; guarda ai fatti, a come vanno le cose, non a come devono andare, a come vorremmo che andassero. Non è, in altre parole, un’asserzione di principio che parte dall’idea di che cosa sia la psicoanalisi per asserire poi come vada praticata.  E’ in questo senso che mi sono trovata a concordare con la sua affermazione – che era appunto una constatazione, non un’asserzione di principio.

Lo stesso tema è stato discusso nel 2015 da R.Tuch e C.Alberini (5). Quest’ultima, illustrando le sue ricerche, sostiene che le conoscenze sul funzionamento della memoria “possono essere di aiuto per definire dove intervenire, quale tipo di informazione debba venire usata, e quali modalità siano più efficaci” (Alberini 2015, p.318). Tuch è più cauto: sebbene consideri la ricerca neuroscientifica utile per validare i principi e le pratiche della psicoanalisi, “ritiene che sia ancora troppo presto per usare dati di laboratorio per guidare i nostri interventi clinici” (Tuch 2015, p. 333). E poi aggiunge: “Certo, non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca. Ma non aspettiamoci che il bambino cammini prima del tempo!” (ib. p. 333).

Torno dunque a quella domanda e la formulo in un modo più specifico: “Quali sono le ricadute della ricerca neuroscientifica sulla pratica clinica? (… NB per <ricadute> intendo dati capaci di orientare in un modo piuttosto che in un altro l’agire clinico)“.

Mi pare che in linea generale – con qualche sporadica eccezione, come ad esempio il caso clinico illustrato da Yovell et al. (6), sul quale mi sono soffermata in un precedente seminario l’anno scorso a Milano (7) – non ci siano vere e proprie ricadute sulla tecnica di trattamento. Ad esempio, i dati sui tipi di memoria e sul suo funzionamento non mi sembrano al momento utilizzabili per orientare delle scelte cliniche, mentre certamente servono a spiegare meccanismi e condizioni psichiche – come, ad esempio, l’utilità di associare la nozione (neurocognitiva) di memorie implicite alla nozione (psicoanalitica) di aree inconsce non simbolizzabili.

Il lavoro clinico consiste infatti nella comprensione, o costruzione, di significati, non nella spiegazione dei meccanismi neuro-biologici: comprendiamo lo stato affettivo di un paziente borderline, non la sua amigdala o il suo ippocampo. Ciò non significa che i dati sul funzionamento dell’amigdala e dell’ippocampo, e in generale del supporto biologico della mente, non ci riguardino. Non devono essere esclusi dal nostro interesse perché è all’interno dei vincoli posti da quel funzionamento che si realizza l’esperienza soggettiva.

Non orientano la tecnica analitica, ma sono utili, anzi necessari, come integrazione alla spiegazione psicodinamica. La ricaduta è cioè sul tipo di concetti di cui facciamo uso per spiegare un evento clinico. Ma siamo consapevoli che ci vuole del tempo perché i cambiamenti nei modi di concepire la struttura e il funzionamento mentale diano segno di sé a livello clinico. Si tratta di cambiamenti che avvengono in tempi lenti e su livelli inizialmente non esplicitati, e probabilmente neanche del tutto consapevoli – ‘preconsci’ direbbe Sandler; il quale aveva messo in evidenza come le teorie analitiche vivano una fase silente, o ‘implicita’, prima di diventare ufficiali (8). E’ per questo motivo che non è vero che le acquisizioni delle neuroscienze siano irrilevanti per la psicoanalisi clinica.

Più che a singole acquisizioni, dunque, in questa fase, darei importanza a quella sorta di riorganizzazione interna dell’assetto mentale dell’analista al lavoro che ho riassunto nell’espressione <avere in mente il cervello>. C’è un punto importante che vorrei sottolineare a questo proposito. Perché nell’assetto mentale dell’analista abbia luogo una fruttuosa interazione con i dati neurobiologici è necessario liberarsi della prospettiva psicogenetica, o quanto meno allentare i legami con spiegazioni esclusivamente psicodinamiche. Paradigmatica è la vicenda della cura psicoanalitica dell’autismo: vincolata a un pregiudizio psicogenetista, la psicoanalisi ha tardato a prendere in considerazione l’intrinseca, specifica natura, della disabilità autistica, le radici biologiche delle difficoltà comunicative, interattive e linguistiche dei soggetti autistici (9).

Quella vicenda è istruttiva: ci indica che la psicoanalisi deve essere molto cauta nell’avanzare ipotesi eziopatogenetiche, nello spiegare il perché di un disturbo o di un’organizzazione psichica disfunzionale, e deve dedicarsi al suo compito specifico, che consiste nel comprendere dall’interno i processi con cui si organizzano gli stati di sofferenza psichica (… il come piuttosto che il perché) e sviluppare narrative il più possibile coerenti con i correlati neurobiologici delle condizioni psicopatologiche e degli stati mentali di cui ha esperienza clinica.

———  

Dopo aver tracciato le linee che stanno alla base del mio dialogo clinico con le neuroscienze, vorrei provare a cimentarmi con lo stimolo dato dal titolo di questa Tavola Rotonda: “Trasformazioni psichiche, plasticità neurobiologica“. Lo accolgo come un invito a riflettere sul cambiamento leggendolo contemporaneamente dai due vertici della mente e del cervello: da una parte il cambiamento psichico come lo vivono il paziente e l’analista nella stanza d’analisi; e dall’altra il cambiamento nelle strutture neurobiologiche come viene osservato e misurato nel laboratorio.

Propongo una situazione clinica abbastanza ordinaria.

Il paziente dice: “Quello che lei ora ha detto mi fa venire in mente che di quella volta che …”, oppure “Non so cosa c’entri, ma mi è venuto in mente che …”.

Quando un paziente esordisce così dopo un intervento (… un’interpretazione, … un commento, … una chiarificazione, o ri-descrizione, ecc.) è molto probabile che si verifichi un picco nell’attenzione dell’analista: “Vediamo che cosa lo ha colpito, vediamo che cosa gli è venuto in mente“. Quando esordisce così è probabile che il paziente abbia da comunicare qualcosa che non è nell’ordine di una riflessione ragionata (… ‘corticale’ si potrebbe dire) su quanto ha ascoltato, ma nell’ordine di un pensiero associativo (10), e cioè nell’ordine di un evento mentale di cui l’analista conosce il punto di partenza (il suo intervento) e il punto di arrivo (ciò che si presenta alla mente del paziente): un evento mentale intersoggettivo, che coinvolge due menti.

C’è un picco di attenzione, dicevo, nell’accingersi ad ascoltare ciò che il paziente dirà (… forse con una PET si vedrebbe dove si attiva il cervello dell’analista …). Perché un picco di attenzione? Perché quelle parole del paziente segnalano un evento mentale che è specificatamente ‘psicoanalitico’: segnalano l’arrivo alla coscienza riflessiva di un ricordo, che il paziente ritiene significativo comunicare senza sapere attraverso quali passaggi gli è venuto in mente. Stava già, quel ricordo, nella sua mente, ma non nella parte cosciente della sua mente. Quando gli arriva in mente non lo lascia cadere come irrilevante; lo trattiene e lo comunica grazie al fatto di trovarsi in una situazione – la situazione analitica – che dà importanza proprio a questi percorsi mentali.

Per noi analisti l’emersione di un ricordo dal pool della memoria è un momento significativo, è potenzialmente l’inizio di una trasformazione psichica; è una di quelle micro-trasformazioni che si producono nel lavoro analitico che cumulativamente vanno a costituire il cambiamento terapeutico. Anche qui una PET potrebbe (… magari potrà, prima o poi) mostrarci il tracciato neuro-cognitivo che porta al ripescaggio di un ricordo dal grande pool della memoria. Oggi non disponiamo di questo tracciato, ma abbiamo alcuni dati su come essa funziona – in particolare abbiamo dati sempre più accurati sullo stato di continuo ri-aggiustamento (plasticità neurobiologica) a cui sono sottoposte le strutture biologiche che conservano le nostre esperienze.

Come attrezzarci per far dialogare la descrizione in prima persona con una descrizione in terza persona?

Di questa situazione clinica abbastanza ordinaria in un trattamento analitico provo adesso a dare un esempio concreto.  Da un mio caso clinico – illustrato in un articolo pubblicato qualche anno fa (11) – ho ritagliato un passaggio che si riferisce alla comparsa di un ricordo. Tenterò di formularlo in modo da poter interloquire con la lettura neurobiologica della memoria. E’ un’operazione un po’ azzardata: cercherò di cavarmela alla meno peggio ! – come direbbe S.Merciai (che ha ripreso un’espressione resa celebre da W.R.Bion)(12).

Quello che lei ha detto adesso mi fa venire in mente di quando la mamma …”.  La paziente, una giovane donna in analisi da qualche anno, dopo un mio intervento inizia così il suo discorso: “Quello che ha detto mi fa venire in mente di quando la mamma usciva la sera tutta ben vestita e ingioiellata per andare fuori a cena o a teatro …”.

Mentre mi ascolta, mentre sta in un assetto di ascolto interessato e partecipe, la paziente va incontro a un evento psichico psicoanaliticamente significativo: le giunge alla mente un ricordo della sua infanzia, che decide di raccontarmi. Il suo ‘io osservante’ (observing ego) registra, e comunica, ciò che il suo ‘io esperienziale’ (experiencing ego) prova. 

” … mi fa venire in mente di quando la mamma usciva la sera tutta ben vestita e ingioiellata per andare fuori a cena o a teatro e io dovevo rimanere con la nonna. Perché non potevo andare anch’ io con lei?“.

La scena ricordata è banale: vedere la mamma uscire la sera.

Quale è il significato della scena, e del ricordo? Il significato si evince dall’affetto contenuto nella domanda che la paziente si fa (e si faceva, allora): “Perché non potevo andare anch’io con lei?“.  Il significato del ricordo ha a che fare con un senso di esclusione. Il recupero di quel ricordo dal pool della memoria passa dunque attraverso la riattivazione di un vissuto di abbandono. Il procedere del racconto precisa di che tipo di abbandono si tratti: “Perché non potevo andare anch’io con lei? Adesso, pensandoci su, non avrei certo potuto andarci, dal momento che avevo solo sei o sette anni. Ma a quel tempo ero proprio convinta che avrei potuto andarci anch’io. Ma mai, proprio mai, io quel desiderio l’ho espresso! “.

Il racconto di quell’evento si configura come una struttura cognitiva e narrativa complessa. C’è una scena che emerge dalla massa degli eventi infantili; l’aggancio per il ricordo è dato dall’affetto che gli conferisce significato: l’essere esclusa, o abbandonata. Ma al tempo stesso in cui quell’evento sale alla mente, con quello specifico affetto e significato, altri pensieri-ricordi vi si intrecciano, con un’ulteriore affetto e significato: la mancata espressione del desiderio di uscire con la mamma, di condividere con lei la serata (“Ma mai, proprio mai, io quel desiderio l’ho espresso! “). 

Mentre ascolto queste parole della paziente penso varie cose.

1 – penso, ovviamente e empaticamente, agli stati affettivi presenti nella scena ricordata: l’ammirazione per la mamma ingioiellata e l’intensità del desiderio di uscire con lei.

2 – penso anche – anzi, forse soprattutto, per il significato che ha con i passaggi precedenti della seduta – all’esclamazione finale: “Ma mai, proprio mai, io quel desiderio l’ho espresso!

3 – penso che, ricordando e raccontando, la paziente sta nel pieno del lavoro analitico. Con l’attivazione del pensiero associativo, che combina l’ ‘io-che-fa-esperienza’ con l’ ‘io-che-osserva’, la paziente ha abbandonato un atteggiamento di chiusura che aveva caratterizzato il corso della seduta fino a quel momento

4 – penso a che cosa, di quello che io ho detto, l’ha colpita. E mi domando: in quale punto della mia interpretazione ha preso il via la catena associativa che ha avuto come esito il ripescaggio di quel ricordo?

5 – . . . e penso varie altre cose, che potrei continuare a passare in rassegna per dar conto della trasformazione psichica in atto in questo passaggio clinico. A tal fine utilizzerei i concetti psicoanalitici che mi sono più familiari (transfert, controtransfert, acting out, enactment, identificazione proiettiva, ecc.). Fornirei così all’uditorio una migliore comprensione – comprensione psicodinamica! – di quanto avvenuto.

Ma oltre a questo, che fa parte della normale e ordinaria riflessione psicoanalitica, ci sono nella mia mente anche i dati delle ricerche sulla memoria. Mi domando: lì dove, come clinico, ho motivo di ritenere che stia avvenendo un micro-cambiamento significativo, quale tipo di rimaneggiamento neurobiologico della memoria presumibilmente avviene?  E’ in corso un riconsolidamento o si sta formando una nuova traccia?

Lascio aperto l’interrogativo, e cito queste parole di C.Alberini che mi paiono appropriate a queste domande:

Sulla base di questi dati e sul fatto che il riconsolidamento avviene solo per memorie recenti, la mia conclusione è che il riconsolidamento delle memorie non viene utilizzato per aggiornare memorie con nuove informazioni. Quindi, a mio parere, nonostante esistano diverse opinioni e discussioni sull’argomento, il riconsolidamento non sempre sta alla base dei processi terapeutici, ma piuttosto vi contribuisce quando le memorie sono recenti oppure molto deboli (il tempo cambia l’intensità); i processi terapeutici, invece, possono essere spiegati tramite la formazione di nuove associazioni che producono nuove tracce e memorie parallele tramite nuovi processi di consolidamento (Alberini, 2014, p. 13-14 (13)).

 

Note e Bibliografia 

(1)  Merciai S. & Cannella B. (2009). La psicoanalisi nelle terre di confine. R.Cortina, Milano.

(2) Lo si può vedere in molte delle risposte date al quesito sulle neuroscienze (“Come valuta i recenti sviluppi delle neuroscienze  e della neurobiologia rispetto alla psicoanalisi?“) che la redazione delle rivista Psicoterapia & Scienze Umane ha posto  a 63 psicoanalisti (vol L, n. 3, 2016). 

(3) Menziono, perché esemplari per vivacità e ricchezza argomentativa e per l’autorevolezza della rivista che li ospita (l’Int.Journ.Psychoanalysis), gli articoli di Blass & Carmeli. – Blass R., Carmeli Z. (2007). The case against neuropsychoanalysis: On fallacies underlying psychoanalysis’s latest scientific trend and its negative impact on psychoanalytic discourse. Int. J. Psychoanal., 88 (1): 19-40. – Blass R., Carmeli Z. (2013). The case against neuroplastic analysis: A further illustration of the irrelevance of neuroscience to psychoanalysis through a critique of Doidge’s The Brain that Changes Itself, Int. J. Psychoanal., 94 (2): 391-410. – Blass R., Carmeli Z. (2015). Further evidence for the case against neuropsychoanalysis: How Yovell, Solms, and Fotopoulou’s response to our critique confirms the irrelevance and harmfulness to psychoanalysis of the contemporary neuroscientific trend. Int. J. Psychoanal., 96(6): 1555–15573. – Blass R., Carmeli Z. (2016). Response to Kessler, Sandberg, and Busch: The case against Neuropsychoanalysis. Int. J. Psychoanal., 96(6): 1155–1158.

(4) Pulver, S.E. (2003). On the astonishing clinical irrelevance of neuroscience. J.Amer.Psychoanal Assn., 51: 755-772.

(5) Tuch R. (2015). Brief communication: problems applying neuroscientific research to clinical settings. Journ.Amer.Psychoanal.Assn. vol. 63(2): 311-316. Alberini C. (2015). Commentary on Tuch. Journ.Amer.Psychoanal.Assn. vol. 63(2): 316-330. Tuch R. (2015). Response to Alberini. Journ.Amer.Psychoanal.Assn. vol. 63(2): 331-333.

(6) Yovell, Y., Solms, M. and Fotopoulou, A. (2015). The case for neuropsychoanalysis: Why a dialogue with neuroscience is necessary but not sufficient for psychoanalysis. Int.J.Psychoanal. 96:1515-1553. v. su SpiWeb-Neuroscienze la sintesi dell’articolo a cura di R.Spagnolo.

(7) Ponsi M. (2015). Le ricadute sulla clinica delle ricerche sulle neuroscienze. Aver in mente il cervello. Centro Milanese di Psicoanalisi. 25 Nov 2015. Il testo è pubblicato su SpiWeb-Neuroscienze.

(8) Sandler, J. (1983). Reflections on some relations between psychoanalytic concepts and psychoanalytic practice.Int.J.Psychoanal., 64: 35-45.

(9)  Barale F. e Ucelli S. “La debolezza piena. Il disturbo autistico dall’infanzia all’età adulta” (pp. 51-206) in Ballerini A., Barale F., Gallese V., Mistura S. (2006).  Autismo. L’umanità nascosta. Einaudi, Torino. Il pregiudizio psicogenetista ha impedito di prendere in considerazione il fatto che “molte evidenze recenti indicano che alla radice dell’autismo c’è una difficoltà a elaborare modelli anticipatori e non un problema psicodinamico di evitamento di una precoce esperienza catastrofica” (p.166). L’impianto psicogenetista degli approcci psicoanalitici è responsabile non solo dell’isolamento della psicoanalisi nel dibattito scientifico e dell’ostilità da parte della comunità scientifica e delle associazioni che si occupano di autismo, ma anche del ritardo di integrazione della psicodinamica dello sviluppo autistico sia nei modelli esplicativi che nella progettazione di strategie riabilitative e anche di aver per anni inutilmente colpevolizzato genitori già oppressi dalla difficoltà di allevare un bambino svantaggiato. Su questi temi v. anche l’intervista a F.Barale (2014) pubblicata su SpiWeb “Intervista sull’autismo: evidenze empiriche e psicoanalisi“.

(10) Ponsi M. (2012). Libere associazioni, pensiero associativo. Riv.Psicoanalisi, LVIII (2): 291-311.

(11) Ponsi, M. (2012). Evoluzione del pensiero psicoanalitico. Acting out, agire, enactment. Riv.Psicoanalisi, LVIII (3): 653-670.

(12) Merciai S.A. (2014). Cavarsela alla meno peggio. Psicoanalisi e neuroscienze. Cap. 14 (pp. 277-298) in Cena L. e Imbasciati A. (2014). Neuroscienze e teoria psicoanalitica. Verso una teoria integrata del funzionamento mentale. Springer-Verlag Italia, Milano.

(13) Alberini C. (2014). Memoria: traccia fragile e dinamica. Cap. 1 (pp. 3-18) in Cena L. e Imbasciati A. (2014). Neuroscienze e teoria psicoanalitica. Verso una teoria integrata del funzionamento mentale. Springer-Verlag Italia, Milano.

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