La Ricerca

L’altra depressione C. Conforto

18/10/22
ALBERTO BURRI 1947

ALBERTO BURRI 1947

Parole chiave: Setting; Depressione; Giberti

L’ALTRA DEPRESSIONE

Carmelo Conforto

Quello che ho da poco letto.

In un recente articolo[1] Paolo Migone invita ad interrogarci intorno ad alcuni modi del soffrire, ad alcuni modi per essere sottratti all’ansia, alla depressione, il semplice contatto con chi ”sa e deve”, definito, quando funziona, effetto placebo, poi il discutibile psicofarmaco, la psicoterapia, infine. Migone ricorda il contributo presentato dall’inglese David Clark (2016): prove scientifiche dimostrano che nel trattamento dei disturbi mentali comuni (ansia e depressione) la psicoterapia è più efficace della terapia farmacologica. Migone suggerisce allora di assumere psicoterapeuti nei Servizi, non costringendo i pazienti a ricorrere unicamente al ‘mercato privato’, discriminazione inaccettabile.  

Quello che tempo fa è stato scritto.

Ho ripreso a leggere, sollecitato dal sopracitato articolo, un vecchio libro a cura di Franco Giberti, appunto “L’altra depressione”, 1985[2]. L’autore, psichiatra e psicoanalista[3], anticipa nel capitolo “La depressione tra psichiatria e psicoanalisi” il problema di fondo, quello che Migone risollecita oggi, come avvicinarsi, come allontanarsi (!) da chi chiede soccorso. Nel libro vengono posti interrogativi intorno alle diverse accezioni del termine stesso: depressione come parola che suggerisce la riduzione, la penosa caduta di una condizione di umano benessere, o, nella prospettiva medica delle <<categorie cliniche>>, entità nosografica, allora, che richiede tesi etiologiche (biochimiche, in specie) e terapie che hanno a che fare con le conoscenze farmacologiche, l’ampia gamma di farmaci timoanalettici.  Ancora, la traduzione freudiana della condizione melanconica, ove al lutto per la consapevole perdita dell’amato viene sostituito nel paziente la introvabilità di un oggetto inconscio smarrito, demolito, inesistente, sulla cui definizione e sulle modalità restitutive, come sappiamo, è impegnata l’attività clinica e teorica dello psicoanalista.

Avvicinarsi e allontanarsi, un’esperienza nell’Istituzione.

In un capitolo del libro citato [4] raccontai (qui sintetizzo) di una paziente gravemente melanconica che nel reparto da me diretto aveva instaurato un legame tenace con il proprio medico, a cui riconosceva l’aver messo a sua disposizione uno spazio fisico e mentale. Dopo qualche giorno la dottoressa prese in carico una seconda paziente, con la medesima dedizione. La prima paziente mi venne a cercare e mi raccontò: << Quando ero bambina avevo una mia bambola, tutta ben vestita. Venne una mia compagna di giochi e mi chiese in prestito la bambola, insistendo, fino a quando io, pur non volendo, ho ceduto ed ero molto arrabbiata. Dopo qualche giorno andai a riprendere la mia bambola, vi erano le mie sorelle, ne indicarono una fra tre o quattro ma io non la riconobbi e non la presi. Avevo molto rancore dentro>>. La riaccompagnai dalla bambola-dottoressa. Pochi giorni dopo ritornò da me con la dottoressa, era molto agitata e mi disse:<<Mi faccia uscire, vede che sono matta>>. La dottoressa restò in silenzio, accanto a lei. La paziente allora disse:<< Voglio restare sempre qui>>. Naturalmente non accadde, cercammo di lavorare sull’angoscia di separazione e perdita della paziente con qualche successo.

Psicoterapia e Istituzione: stare insieme in quali modi?

Ritorno alle conclusioni dello scritto di Migone chiedendomi le modalità di convivenza (tema che compare e scompare nella nostra letteratura[5]) tra l’organizzazione mentale che consente diagnosi di malattia (DSM?) con conseguente (e necessaria, nella mia esperienza) terapia farmacologica e quell’ attitudine, intuitiva in grossa parte, che consente di avviarsi alla ricerca di significati. Si sono occupati in modi preziosi di questo tema Ferro e Vender [6] , parlando delle diversità della scienza sanitaria, quando (p.165) si occupa del Körper e quando si incontra con il Leib, il problema dell’<< empatia>>, l’ Einfühlung , la dimensione relazionale scelta da Edith Stein[7].

Ho pensato al lavoro che caratterizza il muoverci con il paziente, nello spazio-tempo che il ‘Ricovero’[8]  o altri luoghi istituzionali consentono: la convivenza dell’operazione dello stare accanto al paziente per assisterlo (ad, ‘presso’ e sistere, ‘stare’) necessariamente associata alla ragionata (psicologicamente più asettica) terapia psicofarmacologica.

Aggiungerei, in questa direzione,  alle conclusioni dello scritto di Migone la valorizzazione di quella dimensione psicoterapica che possa consentire al gruppo curante di ‘sospettare’ che, nelle profondità della diagnosi psichiatrica sia presente, sia pure oscurata, un drammatica, a volte tragica, fiaba (come peraltro tutte le fiabe, da Hans e Gretel, al Pifferaio Magico, alla Piccola Fiammiferaia, alla Bambina delle Bambole..) che verrà rappresentata nel corso del percorso terapeutico e riedita o trasformata (termine che inserisco non dimenticando Bion) dal lavoro degli operatori.


[1] Migone, P. Ansia, depressione, psicofarmaci, Doppiozero, 2022.

[2] Giberti, F. (a cura di), L’altra depressione, Padova, Piccin, 1985.

[3] Franco Giberti, Direttore della Clinica Psichiatrica dell’Università di Genova.

[4] Conforto, C. Setting istituzionale e pensiero depressivo. In Giberti, F. (a cura di), L’altra depressione, Padova, Piccin, 1985.

[5] Psiche, Incontrarsi e dirsi addio. Il misterioso salto tra Psicoanalisi e Psichiatria., Roma, Alpes, 2018.

[6] Ferro, A., Vender, S., La terra di nessuno fra Psichiatria e Psicoterapia, Torino, Boringhieri, 2010.

[7] Stein, E., 1917,  L’empatia, Milano, Franco Angeli, 1985.

[8] Conforto, C., 1999, Il Ricovero. In Berti-Cerone, G., Correale, A. (a cura di), Psicoanalisi e Psichiatria, Milano, Cortina.

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