La Ricerca

Narracci A.. (2017). La psicosi riguarda una persona o due. Giornata Nazionale di Ricerca “They are people”, Roma, 28 genn 2017.

19/02/17

Relazione presentata nella Giornata Nazionale di Ricerca “They are people”. Il contributo della Psicoanalisi alla psicopatologia e alla diagnosi nell’infanzia, nell’adolescenza e nella vita adulta. (Roma, 28 genn 2017).

 

La situazione nella quale ci troviamo, come operatori privati o dei Servizi di Salute Mentale, è contraddistinta dalla necessità di curare i pazienti psichiatrici gravi e di dovere in qualche modo entrare in contatto e gestire, nel tempo, i rapporti con i familiari dei pazienti.

Io penso che il modo in cui ci si rapporta con i pazienti e con i familiari sia legato al tipo di concezione del disturbo a cui gli operatori fanno riferimento o prevalentemente riferimento.

I modi in cui possiamo pensare alla malattia mentale grave, la schizofrenia in primis, sono vari ma, sostanzialmente differenziabili in due: quello classico, secondo cui il processo patologico riguarda unicamente il paziente e quello secondo cui, viceversa, il processo patologico è molto più complesso e riguarda almeno due generazioni, in realtà tre, come aveva anticipato Don Jackson a cavallo degli anni ’50.

Dalla adozione di uno dei due modelli esplicativi di riferimento discende poi il modo in cui viene impostato il rapporto con i genitori e, più in generale, con i familiari dei pazienti.

Se si rimane all’interno del primo modello in cui il paziente è l’unico considerato patologico e, quindi, su cui si interviene, verrà perseguita la costruzione di rapporti di collaborazione con genitori, in primis e con i familiari in genere. Lo scopo è di costruire una rete di osservatori sull’andamento della evoluzione clinica del paziente, in modo che i Curanti possano adeguare, più tempestivamente possibile, il trattamento, sia farmacologico che psicoterapico, alla fase della malattia in cui il paziente si trova progressivamente nel tempo. Il modello di riferimento, come appare chiaro, è quello che considera il paziente l’unico malato. Se poi prevarrà il modello neo-psichiatrico, si ricorrerà, per quanto riguarda i rapporti con i parenti, alla psicoeducazione, se, viceversa, a prevalere sarà una conduzione psicoterapica, il paziente rimarrà l’unico che sta veramente male, mentre i parenti, i genitori in primis, saranno sostenuti attraverso una psicoterapia, per tollerare meglio la situazione. Naturalmente questi due ultimi provvedimenti possono organizzarsi l’uno con l’altro in vario modo, secondo varie gradazioni di influenzamento reciproco.

Se si abbraccia il secondo modello, l’ipotesi che il problema riguardi non soltanto il paziente ufficialmente riconosciuto come tale ma anche almeno un genitore o entrambi, allora il campo su cui intervenire si modifica. Il problema non riguarda più solo quello che accade nel paziente, prima di tutto dal punto di vista fenomenologico e, conseguentemente, psicofarmacologico ed eventualmente psico-riabilitativo e psicoterapeutico.

Il problema viene identificato nella presenza di legami di “interdipendenza patologica e patogena” reciproca tra uno o entrambi i genitori e il paziente.

La presa in considerazione dei fenomeni della malattia mentale da questo punto di vista costituisce una rivoluzione copernicana: il problema non riguarda più una persona ma due o tre direttamente, il paziente e uno o entrambi i genitori più altre due o quattro indirettamente, i genitori di uno o di entrambi i genitori, cioè i nonni del paziente.

Questo per dire che il legame patologico principale si sviluppa nella relazione tra un figlio e uno o entrambi i genitori, dando luogo alla difficoltà del figlio paziente di vivere un processo di separazione-individuazione personale. Ma anche che il legame o i legami che quel o quei genitori, aveva o avevano costruito con i propri genitori, i nonni del paziente, non li aveva o non li avevano messi nelle condizioni di vivere un processo di separazione dal proprio figlio paziente.

L’identificazione di un campo d’intervento così complesso implica, come accennato, la riformulazione del concetto stesso di malattia mentale.

Di conseguenza oggetto dell’intervento non sarà più soltanto il paziente ma i rapporti tra il paziente e i suoi genitori, nonché gli altri appartenenti a quel nucleo familiare e i rapporti tra ognuno dei due genitori con i propri genitori (i nonni) che, la maggior parte delle volte, può essere unicamente evocato e, auspicabilmente, ripensato dai genitori.

Questo implica la costruzione di un “campo d’intervento” che renda possibile ai figli pazienti di ripensare al rapporto con i propri genitori, ai genitori di prendere in considerazione il rapporto con il proprio figlio paziente e, direi soprattutto, ai genitori di riesumare, dai propri ricordi, i rapporti tra sé stessi e i propri genitori (i nonni).

Ma, secondo questa concezione del disturbo, che cosa era successo di così importante da rendere necessaria la costruzione di un’area di riflessione così articolata e complessa?

L’ipotesi è che qualcosa non abbia funzionato a dovere già nella relazione tra i nonni di uno dei due genitori o i nonni di entrambi i genitori e i rispettivi figli, cioè i genitori del figlio paziente, dando luogo ad una incapacità, in uno o entrambi i genitori del figlio paziente, di elaborare lutti vissuti o traumi subiti che, conseguentemente, sono stati scissi e resi dissociati e, quindi resi irraggiungibili nelle rispettive menti.

Seguendo questa ipotesi, questi accadimenti avrebbero reso questi genitori meno in grado di tollerare la separazione dal proprio figlio che, nella loro mente e, purtroppo, nella vita reale, avrebbe dovuto seguitare a sussistere come loro si erano immaginati che avrebbe dovuto essere e non come avrebbe potuto diventare se avesse seguito un proprio regolare processo di sviluppo.

Cioè, dando luogo a quel particolare tipo di legame che, con Garcia Badaracco, definiamo di “interdipendenza patologica e patogena”, che rende impossibile, ad ognuno, figlio e genitore o genitori, di scoprire o riscoprire la propria “virtualità sana”; fatto che, viceversa, si può verificare soltanto e unicamente se prima si riesce ad “allentare” il legame di interdipendenza patologica e patogena.  

Si tratta allora, per aggiungere questo scopo, di costruire una situazione nella quale il figlio paziente, da un lato e il o i genitori, dall’altro, inizino ad interrogarsi su quale sia stato il legame che unisce gli uni agli altri, magari prendendo spunto da quello che vedono accadere negli altri nuclei familiari con i quali si trovano a confrontarsi, ma anche che i genitori provino ad interrogarsi, come figli, sui loro rapporti con i loro genitori e, quindi, su che cosa li abbia resi vulnerabili tanto da non riuscire a sopportare l’allontanamento del proprio figlio da sé stessi, attraverso un processo di separazione-individuazione, a cui, evidentemente, erano chiamati a collaborare e che, viceversa, pur non volendolo razionalmente, hanno finito per ostacolare, come risulta inequivocabilmente dal legame che mostrano di avere con i figli pazienti nel corso del gruppo.

I genitori sono le cosiddette “cerniere fondamentali” del processo patologico e di quello terapeutico e, secondo questa visione, sono oggetto d’intervento tanto quanto i figli, per lo meno per quanto riguarda la necessità di costruire una situazione nella quale risulti possibile prendere in considerazione la modalità attraverso cui il loro involontario contributo abbia potuto, del tutto in antitesi con la loro volontà, che desidera e persegue il benessere delle persone a cui vogliono più bene, interferire negativamente con il processo di individuazione e di sviluppo dei figli. 

Sono chiamati, quindi, a trasformarsi da oggetto d’intervento in soggetto di riflessione e, auspicabilmente, di modificazione se non di trasformazione.

Ma come può essere messo in moto un processo così complesso che renda cioè possibile l’avvio di una riflessione che coinvolga non esclusivamente la parte cosciente dei personaggi presenti, figli e genitori, ma anche quella inconscia, che è l’unica che può permetterci di raggiungere le parti dissociate, quelle relative ai traumi e ai lutti non elaborati, di cui ognuno è depositario inconsapevole?

E questa operazione è possibile senza che gli stessi operatori vengano esposti allo stesso tipo di sollecitazione, da parte del gruppo, che è in grado di mettere in contato le loro menti con aspetti scissi della loro personalità?

E quest’ultimo aspetto è un problema o è l’unico vero modo per seguitare a vivere un processo formativo permanente in cui l’operatore seguiti a riflettere sulla sua condizione di terapeuta ma anche di essere umano attraverso un transfert, in questo caso con il gruppo, piuttosto che esclusivamente con il controtransfert, come avviene abitualmente con la supervisione?

Il metodo è semplice e complesso ad un tempo.

Si costituisce un grande gruppo costituito da tanti nuclei familiari, a cui, comunque, si può partecipare anche individualmente e a cui si chiede di attenersi a poche regole di base:

si parla uno per volta, si ascolta l’altro, non si pretende di avere ragione e si prenota l’intervento;

ben presto si mettono in moto due meccanismi fondamentali:

il rispecchiamento tra un nucleo e l’altro e lo sviluppo di transfert multipli che permettono la riattivazione della capacità di rappresentare la situazione nella quale ci si trova e che era andata in stand-by nei nuclei a transazione psicotica;

l’attesa tra l’alzata di mano per prenotare l’intervento, durante la quale si dipanano gli interventi di chi si è prenotato in precedenza, infine, introduce la possibilità, per tutti i presenti, di raggiungere il funzionamento della propria mente per associazioni, quindi secondo il processo primario e di aggiungerlo, a quello abituale, che si svolge secondo il processo secondario.

Questa commistione introduce la possibilità di recuperare gli aspetti scissi e resi dissociati della propria personalità da parte di ognuno dei presenti aspetti che permetteranno una rilettura a posteriori degli avvenimenti più significativi della propria vita e di dare luogo al fenomeno della “mente ampliada”, in cui il pensiero di ognuno si somma a quello dell’altro per produrne uno unico complessivo, che li racchiude tutti.

 

Bibliografia

Jorge Garcia Badaracco:”La Comunità Terapeutica psicoanalitica a struttura multifamiliare”, edit. Franco Angeli, Milano, 1997.

Jorge Garcia Badaracco:”Psicoanalisi Multifamiliare”, edit. Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

Jorge Garcia Badaracco e Andrea Narracci:”La Psicoanalisi Multifamiliare in Italia”; edit. Antigone, Torino, 2011.

Andrea Narracci, a cura di:”Psicoanalisi Multifamiliare come esperanto”, edit. Antigone, Torino, 2015. 

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