La Ricerca

Psicoanalisi e ricerca empirica: un rapporto ineludibile F. Gazzillo

16/06/23
Psicoanalisi e ricerca empirica: un rapporto ineludibile F. Gazzillo

G. PENONE

Parole chiave: Psicoanalisi, Freud, Ricerca, Inconscio

Psicoanalisi e ricerca empirica: un rapporto ineludibile

Francesco Gazzillo

Quello del rapporto tra psicoanalisi e ricerca empirica è un tema complesso, e rispetto a esso la mia posizione, probabilmente minoritaria, è univoca: la psicoanalisi deve dialogare con la ricerca empirica a più livelli. E deve farlo per ragioni politiche, sociali e scientifiche. Quando parlo di ricerca empirica, peraltro, faccio riferimento a più ambiti: quello della verifica empirica delle ipotesi psicoanalitiche, quello della verifica empirica dell’efficacia dei trattamenti psicoanalitici, e quello dei risultati di discipline limitrofe alla psicoanalisi, come le neuroscienze, la ricerca in psicoterapia, la psicologia dello sviluppo, la psicologia generale, la social cognition, la psicologia morale ecc.

Dal punto di vista politico, la psicoanalisi a mio parare deve, come in parte già ha fatto, dimostrare in modo empirico che i trattamenti da essa ispirati o derivati sono almeno efficaci quanto altri trattamenti la cui efficacia è stata empiricamente validata, e che il rapporto tra i loro costi e i loro benefici li rende percorribili. Questa necessità è tanto più imprescindibile in quanto la gestione dei sistemi sanitari nazionali, almeno nei paesi occidentali, segue sempre più un modello di tipo aziendale, e le risorse a disposizione tendono a ridursi. Quindi, se non vogliamo che i trattamenti psicoanalitici scompaiano dai servizi pubblici, dobbiamo dimostrare che sono efficaci e praticabili. Ad oggi peraltro esistono vari trattamenti di matrice psicoanalitica che rispettano questi requisiti, primi tra tutti la psicoterapia supportiva-espressiva di Luborsky (Luborsky, Luborsky, 2008), la terapia focalizzata sul transfert di Clarkin, Yeomans e Kernberg (Yeomans, Clarkin, Kernberg, 2017), la psicoterapia dinamica interpersonale breve di Lemma e Fonagy (Lemma, Target, Fonagy, 2012) e la terapia basata sulla mentalizzazione di Bateman e Fonagy (Bateman, Fonagy, 2006). E qualche studio fornisce dati promettenti anche rispetto alla psicoanalisi vera e propria (Leuzinger-Bohleber et al., 2019).

In secondo luogo, dal punto di vista sociale, se la psicoanalisi vuole continuare a presentarsi come una terapia, e non una mera esperienza relazionale accessibile a pochi, è necessario che abbia e presenti al pubblico prove solide di ricerca sulla sua efficacia nella cura di condizioni codificate come disturbi mentali da manuali diagnostici riconosciuti dalla comunità internazionale. Questo non esclude che si possano proporre manuali o prospettive valutative e diagnostiche alternative a quelle esistenti [cioè al Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DMS) e alla Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD)] – cosa che personalmente auspico – ma credo sia necessario portare prove scientifiche a sostegno del fatto che un trattamento psicoanalitico sia efficace nella risoluzione dei sintomi, nell’aumento del livello di benessere soggettivo o nel migliorare qualsiasi dimensione dell’esperienza o qualsiasi capacità la psicoanalisi intenda migliorare. Da questo punto di vista, non credo sia molto sensato svalutare i risultati delle ricerche sugli esiti delle psicoterapie dicendo che la psicoanalisi non si limita a voler trattare i sintomi o non mira primariamente a quello; molte ricerche contemporanee valutano molte altre dimensioni oltre quelle puramente sintomatiche, e in ogni caso chi sostiene ipotesi del genere, oltre a comunicarle a chi si rivolga a lui in cerca di aiuto, ha anche il dovere di chiarire quali siano, a suo modo di vedere, gli obiettivi di una terapia psicoanalitica, e come si possa dimostrare, con metodo scientifico, che quegli obiettivi vengono raggiunti grazie a un trattamento analitico. Sempre che non si voglia favorire l’assimilazione della psicoanalisi a discipline prescientifiche come l’omeopatia o a esperienze artistico-letterarie.

Ma io credo che la rilevanza maggiore della ricerca empirica per la psicoanalisi abbia a che fare soprattutto con la “ricerca della verità”. Fin dall’inizio, la psicoanalisi, oltre a una terapia, ha proposto una serie di ipotesi interconnesse relative al funzionamento mentale, allo sviluppo psichico e al processo terapeutico, e rispetto a ognuno di questi ambiti le nostre conoscenze scientifiche, dalla fine dell’Ottocento, si sono decisamente ampliate. Le scienze della mente ci hanno insegnato molto rispetto alle motivazioni di base, alle emozioni, ai processi mentali coscienti e inconsci, al problem solving, alla presa di decisioni, alla memoria, all’attenzione e al nostro funzionamento morale, solo per fare qualche esempio (vedi, ad esempio, Bargh, 2017; Kahneman, 2011; Panksepp, Biven, 2012). Così come la psicologia dello sviluppo, e in modo particolare la teoria dell’attaccamento e l’infant research, hanno ampliato le nostre conoscenze sul funzionamento mentale e relazionale di infanti e bambini (Cassidy, Shaver, 2018; Stern, 1985). E le ricerche sui fattori terapeutici ci hanno dato qualche dato, piuttosto solido, su alcune delle cose che funzionano in psicoterapia (Norcross, 2011; Wampold, Imel, 2015): l’alleanza terapeutica, la capacità di sostenere la speranza nei pazienti, l’essere sentiti come empatici, una buona relazione reale, il matching clinico-paziente, la capacità di identificare e chiarire i conflitti relazionali nucleari dei pazienti e le loro espressioni, di adattare la terapia alle peculiarità caratteriali e difensive del paziente ecc. Oltre a caratteristiche più personali del clinico, come il suo livello di fluenza verbale, la sua capacità di mettere in discussione ciò che sta facendo se un paziente non migliora e di costruire una buona alleanza con pazienti diversi. Degno di nota il fatto che esistano modelli dinamici che riflettono o sono coerenti con questi dati, come la Control-Mastery Theory (Weiss, 1993; Gazzillo, 2021) o i modelli di intervento, soprattutto per l’età evolutiva, basati su attaccamento e infant research (vedi, ad esempio, Beebe, Lachmann, 2002; Obegi, Berant, 2010).

Una psicoanalisi che sviluppasse modelli del funzionamento della mente, dello sviluppo psichico e del processo terapeutico senza dialogare con le discipline che si occupano degli stessi ambiti smetterebbe di essere un sapere scientifico, trasformandosi in un culto esoterico dall’impatto assai limitato sulla realtà e sugli altri saperi. Solo per fare qualche esempio, oggi ipotesi come quelle relative all’esistenza di energie psichiche, di un substrato psichico animale omicida o perverso, del narcisismo primario, di una fase autistica o allucinatoria normale, della simbiosi madre-bambino, o del carattere secondario del legame di attaccamento bambino-caregiver sono sostanzialmente insostenibili. Così come è insostenibile l’idea che i trattamenti psicoanalitici garantiscano cambiamenti molto più grandi rispetto alle altre psicoterapie e particolarmente stabili nel tempo.

Ma come può articolarsi il dialogo tra psicoanalisi e ricerca?

Non credo che tutti i clinici debbano fare ricerca, per quanto la cosa sarebbe auspicabile, mentre credo che per fare buona ricerca psicoanalitica sia necessario essere anche dei clinici, così da non lanciarsi in progetti su ipotesi improbabili o variabili di scarsa rilevanza nel mondo reale. Credo però che un clinico debba conoscere, e saper leggere in modo critico, i contributi di ricerca, sviluppando qualche competenza nella comprensione dei loro dettagli metodologici e statistici. In ambito scientifico, infatti, non si chiede fiducia cieca, ma analisi critica dei dati.

Dal mio punto di vista, la clinica è l’ambito di elezione per la generazione delle ipotesi e il vaglio della rilevanza nella realtà dei risultati delle ricerche empiriche. Ma non può essere la clinica il dominio in cui le ipotesi vengono validate o disconfermate perché essa non garantisce quelle condizioni di generalizzabilità, riproducibilità, controllo di variabili interferenti e misurazione statistica necessarie a definire scientificamente solido un dato.

Personalmente, credo anche che la necessità di progettare e condurre ricerche possa essere di grande aiuto al clinico nel formulare e articolare le proprie ipotesi in modo chiaro e metterle in relazione con elementi osservabili o inferibili per mezzo di regole precise. Dichiarare aprioristicamente che ci sono elementi di una psicoanalisi, o dei suoi esiti, che non possono essere valutati scientificamente è a mio parere un errore grave perché, di fatto, vuole dire che la psicoanalisi agisce a e su livelli che non sono osservabili, riferibili o inferibili in modo preciso – una posizione che ricorda una vecchia pubblicità che diceva qualcosa del tipo “non si vede, non si sente, non c’è”. Di certo la valutazione di alcuni costrutti psicoanalitici può essere più difficile di quella di altri, ma ciò, dal mio punto di vista, dovrebbe implicare uno sforzo maggiore da parte degli analisti per chiarire questi costrutti, i loro correlati osservabili e i nessi tra i primi e i secondi, così da renderne possibile una valutazione precisa e affidabile. Ed è a questo livello, insieme a quello della generazione di ipotesi e dell’integrazione dei risultati della ricerca in un quadro di riferimento teorico complessivo, che i clinici devono avere un ruolo di assoluto rilievo. Ma, in tutta onestà, i tentativi fatti in tal senso fino a ora da autori come Schore (2022) o Solms (Kaplan-Solms, Solms, 2012) mi sembrano, tutto sommato, piuttosto forzati e prematuri.

 Bibliografia

Bargh, J. (2017), A tua insaputa. Boringhieri, Torino.

Bateman, A., Fonagy, P. (2006), Il trattamento basato sulla mentalizzazione. Cortina, Milano.

Beebe, B., Lachmann, F. (2002), Infant research e trattamento adulto. Cortina, Milano.

Cassidy, J., Shaver, P.R. (a cura di) (2018). Manale dell’attaccamento. Teoria, ricerca e applicazioni. Fioriti, Roma.

Gazzillo, F. (2011), Fidarsi dei pazienti. Introduzione alla Control-Mastery Theory. Cortina, Milano.

Yeomans, F., Clarkin, J., Kernberg, O.F. (2017), La psicoterapia focalizzata sul transfert. Fioriti, Roma.

Kahneman, D. (2011), Pensieri lenti e veloci. Mondadori, Milano.

Kaplan-Solms, K., Solms, M. (2012), Neuropsicoanalisi. Cortina, Milano

Lemma, A., Target, M., Fonagy, P. (2017), La terapia dinamica interpersonale breve. Una guida clinica. Cortina, Milano.

Leuzinger-Bohleber, M., Hautzinger, M., Fiedler, G., et al. (2019). Outcome of Psychoanalytic and Cognitive-Behavioural Long-Term Therapy with Chronically Depressed Patients: A Controlled Trial with Preferential and Randomized Allocation. The Canadian Journal of Psychiatry. 64, 1, pp.47-58. doi:10.1177/0706743718780340

Luborsky, L., Luborsky, E. (2008), La psicoterapia psicoanalitica. Il Mulino, Bologna.

Norcross, J. (2011), Psychotherapy relationships that work. Oxford University Press.

Obegi, J. H., & Berant, E. (a cura di) (2009). Attachment theory and research in clinical work with adults. The Guilford Press.

Panksepp, J., Biven, M. (2012), Archeologia della mente. Cortina, Milano.

Schore, A. (2022), Psicoterapia con l’emisfero destro. Cortina, Milano.

Stern, D. (1985), Il mondo interpersonale del bambino. Boringhieri, Torino.

Wampold, B., Imel, Z. (2015), Il grande dibattito in psicoterapia. Armando, Roma.

Weiss, J. (1993), Come funziona la psicoterapia. Boringhieri, Torino.

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