La Ricerca

Seganti A. (2013). Intervista sulla ricerca sul rapporto fra emozioni, pensiero e linguaggio

22/10/13

Andrea Seganti, psichiatra e psicoanalista, didatta della Società Psicoanalitica Italiana, lavora a Roma. Ha insegnato Psicologia Clinica, Psicopatologia e Psicoterapia presso le università di Roma, Chieti e Torino ed è docente in varie scuole di specializzazione. Si occupa del rapporto tra emozioni e linguaggio.

E’ stato socio fondatore e vice presidente della sezione italiana della Society for Psychotherapy Research. Ha pubblicato “La memoria sensoriale delle relazioni. Ipotesi verificabili di psicoterapia psicoanalitica.” (Bollati Boringhieri, Torino 1995), “Teoria delle mine vaganti. Come maneggiare il lato oscuro della forza“. (A.Armando Ed., Roma 2009) e numerosi articoli e saggi su libri e riviste nazionali e internazionali.  

–> vai al sito web Mine vaganti.

–> vai al sito web della Fondazione Pensiero e Linguaggio.

–> vai alla relazione introduttiva (di A.Seganti) e al dibattito Teorico-Clinico sulle “Strutture Adattive Patogene” svoltosi online su SpiWeb dal Marzo al Maggio 2011.

 

Intervista a cura di M.Ponsi

 

1 – “Il successo nei nostri rapporti interpersonali dipende dal lavoro che facciamo per farli funzionare“. Cito questa tua frase dall’editoriale della Fondazione Pensiero e Linguaggio. Puoi spiegarci come questo assunto organizzi il tuo modello di cura?

Per parlare di cura bisogna prima portare in chiaro l’urgenza di un radicale rinnovamento della teoria. Io ho sempre sostenuto che la portata delle scoperte sulla relazione madre bambino che vennero riorganizzate da Daniel Stern nel suo libro dell’85 sia stata gravemente sottovalutata in ambito psicoanalitico. Quel libro era espressione di uno sforzo di sintesi straordinario, operato da una mente eccezionalmente libera che si permise di mettere in evidenza l’esistenza di vissuti soggettivi estremamente raffinati, collegati alla regolazione bilaterale delle interazioni e attivi fin dal primo giorno di vita, e infine di ipotizzare in modo esplicito che l’esperienza soggettiva delle interazioni potesse costituire la base esperienziale che sostanzia la produzione del linguaggio dell’adulto. In questo modo si apriva un campo di ricerca sterminato nel quale la psicoanalisi avrebbe potuto giocare un ruolo molto importante ma non fu’ così, e noi italiani ne portiamo una parte di responsabilità. A cominciare dalla traduzione del libro che venne infarcita di termini di gergo psi che Stern non usava nell’originale. Ma furono soprattutto i nostri universitari che corsero a ingaggiarlo come comparsa secondaria nella ricerca sull’attaccamento, dominata a quei tempi da Mary Main, la quale aveva l’ambizione di stabilire i nuovi parametri per la ricerca “scientifica” sul linguaggio attraverso la AAI (Adult Attachment Interview). Con Main la ricerca sulle funzioni interpersonali del linguaggio venne tolta dalle mani degli psicoanalisti che ne sarebbero stati gli eredi naturali, spingendoli invece sul binario morto della lettura “empatica” di eventi “mentali” non verificabili attraverso l’osservazione. Per essere più preciso voglio dire che la ricerca sull’attaccamento trattò il linguaggio come fonte di informazione per una valutazione fortemente normativa del funzionamento della mente, ipotizzando che il linguaggio dovesse rispondere alle “massime” di Grice circa la corretta comunicazione (Sii sincero, Non essere reticente, Sii pertinente, Evita l’ambiguità) e non trattandolo come una fonte di informazione circa le complesse ed individualissime operazioni di regolazione interpersonale che rimangono sepolte nel nostro inconscio e che portano a risultati che possono essere opposti ai parametri pedagogici desiderati dalla cultura anglosassone di cui Grice e la Main erano esponenti di spicco (Seganti, 1999). Il risultato fu negativo per la psicoanalisi perché Stern smise di interessarsi alla ricerca, ne abbandonò gli aspetti innovativi e si accontentò del modesto sviluppo clinico dei now moments operato con il Boston Group, now moments che a mio modo di vedere sono un tentativo di integrare la precedente fase di ricerca in una chiave relazionale buonista e maternocentrica tipica di una clinica psicoanalitica datata. D’altra parte si può capire che Stern fosse stanco di sentirsi trattare come un interattivista privo di presa sull’inconscio e che cercasse di farsi omologare dal mondo psicoanalitico. Se fosse stato meglio valorizzato per il suo contributo scientifico, Stern avrebbe meritato il Nobel, molto più di Edelman tanto per capirci.

2 – E’ evidente quanto sia importante nel tuo modello teorico-clinico l’utilizzo delle acquisizioni della ricerca sullo sviluppo. Puoi spiegarci quali sono le novità teoriche che ritieni tradite da D.Stern e che tu hai cercato di riprendere e sviluppare?

Da quando assieme a Bordi cominciammo a studiare lo Stern dell’85 e i Ghosts from the nursery della Fraiberg, (1987) ci rendemmo subito conto che i tempi era già maturi per una riformulazione della clinica. Il fatto che i bambini facciano molte cose per adattarsi alle loro madri non è un fatto secondario specie in una cultura come la nostra in cui si esaltano le infinite cose che si suppone che le madri e gli adulti in genere facciano per l’esclusivo bene del loro bambino. Negli anni io sono arrivato alla formulazione di un concetto clinico che ritengo fondamentale, quello di iperadattamento, secondo il quale il bambino e tutti noi adulti svolgiamo sempre e dovunque importanti funzioni misconosciute di presa in carico degli altri. Il fatto che siano misconosciute è dovuto al fatto che l’adattamento del bambino diventa un riferimento per la madre fino al punto da riscuotere grande successo e da essere tanto più gettonato quanto più la madre, o chi per lei negli anni, ha dei “difetti” da compensare, siano anche difetti fisiologici inevitabili (Seganti, 2009). Pertanto l’adattamento del bambino ha degli effetti forti sulla realtà che viene fluidificata fino al punto in cui i disagi che il bambino prova e le rinunce alle quali egli si sottopone non vengono percepite soggettivamente dal bambino stesso ma vengono coperte dalla sensazione positiva di diventare il centro di gravità attorno al quale ruota la vita dei suoi genitori. Questo avviene sistematicamente specie quando i difetti da coprire non sono così enormi, per cui l’apporto che il bambino fornisce riesce ad avere pieno successo. Pertanto l’adattamento ha dei potenti effetti sulla realtà e dal punto di vista soggettivo il disagio proviene il più delle volte dalla sensazione paradossale che si dovrebbe cercare di adattarsi ancor più di quanto già non lo si faccia e che, se non ci si riesce, si potrebbero danneggiare gli oggetti che parzialmente, ma in parte anche realmente, sopravvivono grazie alla reciproca idealizzazione. In grande sintesi è possibile ipotizzare il fatto che tale iperadattamento, quando funziona al suo massimo in modo bilaterale, protegge e stabilizza fortemente le relazioni ma, nella misura in cui mette in sordina gli stati di disagio e le loro fonti relazionali, può essere la causa di malattie organiche. Quando invece l’iperadattamento funziona in modo imperfetto – potremmo dire grazie al cielo! anche se questo avviene quando i “limiti” materni sono più macroscopici – troviamo disadattamento e malattie psichiche. Possiamo tuttavia vedere che, anche dove compare rifiuto delle relazioni e sintomi evidenti di aggressività, il disadattamento è solo apparente in quanto l’iperadattamento continua a funzionare in modo esasperato in alcuni settori che rimangono i santuari di una o più relazioni. Possiamo quindi ipotizzare che anche nel caso di relativo insuccesso, l’iperadattamento determini sensazioni claustrofobiche palesi e svariati sintomi di disagio senza tuttavia intaccare i santuari in cui la relazione viene assecondata. Per converso, in caso di successo ci troviamo di fronte alla cosiddetta (iper)normalità dove l’iperadattamento riesce a rilanciare con successo un benessere relazionale di copertura che maschera il disagio claustrofobico (maggiore o minore) trasformandolo nel contrario. Ora lascio a voi immaginare le conseguenze di questa impostazione quando andiamo a guardare la relazione psicoanalitica la quale chiaramente è esposta al rischio di sottovalutare questo fenomeno se esso non viene ipotizzato dalla teoria.

3 – Come si articola nel tuo approccio clinico e nelle tue ricerche il rapporto fra linguaggio e emozioni?

Se si considera l’ipotesi dell’iperadattamento meritevole di indagine scientifica, questo porta alla necessità di riformulare le teorie correnti delle emozioni che si basano esclusivamente sulle emozioni più visibili che sono appunto quelle che hanno manifestazioni mimiche che le rendono facilmente riconoscibili. Ci sono tuttavia emozioni molto più interessanti per la ricerca che hanno scarso riscontro nella mimica ma che hanno una grossa parte nella costruzione del linguaggio. Gran parte delle emozioni più deboli riguardano la percezione soggettiva delle informazioni sullo stato del nostro metabolismo e sullo stato dei suoi rapporti con altri metabolismi – essere stanchi o vispi o tesi o attenti o incuriositi, o, ricordando Stern, esistere, essere, avere, sentirsi vivi, molto vivi o mezzi morti – emozioni che molto spesso non sono considerate interessanti dall’individuo in quanto non intaccano direttamente la stabilità degli adattamenti relazionali. In questo caso il linguaggio rivela un aspetto temibile che Stern aveva indicato con molta precisione e che consiste nella possibilità di una “asfaltatura” delle emozioni deboli attraverso un apparente allineamento interpersonale con la sola emergenza delle emozioni molto forti. Tuttavia le emozioni deboli contengono molta informazione potenzialmente utile, sono onnipresenti e sono raggiungibili con l’introspezione, se c’è tempo e cultura che lo permetta. La valorizzazione delle sfumature emotive deboli attraverso il linguaggio permette di avere accesso alle informazioni circa che cosa non va nelle relazioni al di là delle apparenze e come trovare delle modalità di regolazione – attraverso il linguaggio – per portare alla luce i vissuti claustrofobici coperti da grossolane emozioni positive (e negative ma mal poste) e per migliorare la qualità delle relazioni. Tanto per fare un esempio possiamo trovare che molte relazioni funzionano in quanto entrambi pagano un prezzo molto alto in termini di iperadattamento e fanno molte rinunce ad esso collegate mentre basterebbero piccole modifiche per migliorare la qualità della collaborazione e renderla meno “stupida” o “cieca”, e per incentivare intelligenza e creatività in entrambe le parti coinvolte in una relazione. Questo è un discorso che ha naturalmente qualcosa da dire anche sui meccanismi della comunicazione di massa e dello sfruttamento dei luoghi comuni oltre ad essere un discorso che ha molto a che fare con quella che tu chiami la “cura” e con quello che io chiamo militanza per la libertà di pensiero.

4 – Sembra dunque che tu sia insoddisfatto del modo in cui le teorie correnti delle emozioni trattano la questione del rapporto mente-corpo.

Si questo è davvero un punto centrale. Il fatto che si sia data importanza soltanto alle emozioni forti, quelle che si impongono come prioritarie sull’arena della coscienza, ha portato a sottovalutare che la nostra evoluzione ci ha portato alla possibilità di percepire soggettivamente le emozioni deboli quelle che riguardano la percezione dello stato di funzionamento del nostro metabolismo, che poi sono anche quelle di cui si occupano da millenni le religioni. Qui c’è da riaprire il discorso sull’evoluzione per dire che la nostra coscienza prende informazioni sia dal sistema parasimpatico che da quello simpatico e che è il loro stato di relativa integrazione che viene recepito soggettivamente come emozione positiva mentre è la loro conflittualità che viene percepita come emozione negativa. Il sistema parasimpatico nasce evolutivamente dall’adattamento “sicuro” agli eventi regolari in analogia con il mondo vegetale, prende ordini dai ritmi circadiani attraverso il nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo e regola molte funzioni metaboliche attraverso la muscolatura liscia, mentre il simpatico segnala quanto e quando le energie metaboliche gestite dal parasimpatico possano essere messe a disposizione dei piani di azione che sono governati dalla elaborazione corticale attraverso il controllo della muscolatura, che è invece operato dalla percezione e dal pensiero. I piani di azione metabolica a spinta simpatica servono quindi ad affrontare le irregolarità ambientali, le emergenze o più in generale quelle azioni che necessitano di un maggior dispendio energetico in vista di un ulteriore, ma “insicuro”, accumulo di energie. Pertanto l’influenza del parasimpatico sul metabolismo, in quanto è un sistema legato alla regolarità ambientale, mantiene una sua autonoma funzione frenante sui comandi centrali ed è solo parzialmente sotto il controllo del sistema simpatico e della coscienza ad esso collegata, per cui favorisce la stabilità e influenza le relazioni trattandole come fonte di energia metabolica regolare. Il simpatico regola invece il prompt muscolare nelle 24 ore – anche quello cardiaco – e segnala alla coscienza quanta energia è disponibile per i piani di azioni relativamente indipendenti dal contesto per cui “guarda” alle relazioni e al mondo come qualcosa che può e deve essere modificato attraverso il contributo corticale. I due sistemi sono profondamente integrati tra di loro attraverso il sistema delle emozioni che legge lo stato di integrazione tra i due sistemi neurovegetativi per cui alla spinta direzionale simpatica viene fatta continuamente la tara per rispettare le esigenze del metabolismo di base segnalate dal parasimpatico. Le emozioni sono quindi sempre miste, mai puramente simp. o parasimp. e possono essere descritte come delle segnalazioni che vengono recepite dalla coscienza come un parere di fattibilità espresso dal sistema neurovegetativo circa i piani di azione – la collocazione attuale e i suoi progetti di movimento – che l’individuo continuamente elabora. Se quindi ho paura, in questa paura c’è prevalenza parasimpatica che spinge a un risparmio energetico (immobilizzazione, freeze, flight, ritiro) ma questa prevalenza può essere condita sullo sfondo con la sensazione di potermela cavare grazie alla spinta simpatica, oppure può essere condita con il panico di rimanere in balia degli eventi. Un panico che sopravviene come sensazione di disattivazione della spinta simpatica per causa di impellenti esigenze di stabilità espresse dal freno parasimpatico. Allo stesso modo possiamo avere una rabbia adrenalica tranquilla perché condita sullo sfondo dalla sensazione di riuscire ad aver ragione degli eventi rispettando nel contempo gli equilibri metabolici espressi dal parasimpatico, oppure la rabbia cieca che porta l’accensione simpatica al di là delle esigenze di stabilità e regolarità che provengono dalla regolazione parasimpatica. Va detto infine che la maggior parte delle emozioni rimangono inconsce in quanto simpatico e parasimpatico non confliggono ma convivono in relativa armonia. Nel caso dell’iperadattamento che facevo prima simpatico e parasimpatico confliggono ma la loro conflittualità viene minimizzata dalle interazioni che possono mascherare le incompatibilità tra i due sistemi con danni per la salute fisica e alla fine anche su quella psichica.

5 – Puoi illustrare queste idee con qualche esempio clinico? 

Gli esempi clinici in cui questi fenomeni che sono più lampanti sono quelli in cui l’aspetto persecutorio delle relazioni non viene recepito anche se è presente sullo sfondo o compare nei sogni. Il vissuto persecutorio più o meno nascosto indica la presenza di una pressione relazionale per indirizzare i piani di azione a guida simpatica contro le proprie stesse esigenze per esempio di riposo, stabilità o di libertà di riflessione etc. Sul piano clinico quindi va visto che molte cose che le persone fanno sono volte a risolvere problemi relazionali, non far arrabbiare qualcuno, farlo stare contento, gestirgli un lutto, non metterlo in crisi e moltissime altre cose ancora più complesse a seconda dei singoli casi della vita. Siccome questi piani hanno successo, l’aspetto persecutorio delle relazioni compare solo come vaga sensazione di stress tipo dover fare sempre di più, o quello che tu fai non basta mai. Sono questi i vissuti che nel mio libro ho chiamato le Mine Vaganti (Seganti, 1999). In realtà queste mine qui e là esplodono sul piano psicologico ad evitare che implodano sul piano fisico ma la loro esplosione viene spesso orchestrata in modo tale da lasciare intatto l’iperadattamento relazionale. Pertanto possiamo avere comportamenti apparentemente distruttivi che in realtà hanno il senso di valvole di sfogo per non intaccare i santuari idealizzati (parasimpatici) che si annidano all’interno delle relazioni e si rafforzano inconsciamente. Questo tipo di approccio ha un riscontro clinico immediato che si può avere fin dal primo incontro e che trova conferma nel fatto che la nostra argomentazione porta il paziente a dire “non ci avevo mai pensato” ed a farlo uscire dall’incontro con spirito collaborativo in quanto si sente capace di capire le sue strategie di iperadattamento invece di uscire con i dubbi persecutori di non fare abbastanza per gli altri. Sono molti gli psicoanalisti (e molti psicoterapeuti) che sono in grado di fare questo tipo di interventi già ad un primo incontro, però, siccome le teorie vigenti non le prevedono, questo tipo di interpretazioni non vengono rafforzate e sviluppate ma vengono molto frequentemente smentite da successive interpretazioni che vanno in parte o in tutto in senso opposto.

6 – Puoi spiegare nel dettaglio come si realizza la traduzione delle memorie sensoriali nel linguaggio?

Volentieri. Lavoro sul linguaggio da molti anni e credo di essere molto vicino a risultati significativi che verranno presto pubblicati. Per capire il mio approccio di ricerca va fatta la premessa circa il fatto che essendo le due componenti simp/parasim profondamente integrate esistono le premesse nella nostra organizzazione metabolica per percepire noi stessi come soggetti, cioè prevalentemente dotati di spinta simpatica, in rapporto con oggetti – cioè soggetti frenati dal parasimpatico. O, se vogliamo dirlo in altro modo, siamo attrezzati geneticamente per percepire contemporaneamente noi stessi sia come soggetti/centri di azione indipendente sia come oggetti – cioè soggetti che sono centri di azione dipendenti dal contesto. Per cui la grammatica e la sintassi (le divisioni nome/verbo/complemento e soggetto/oggetto, prima versus seconda/terza persona) affondano le loro radici nella percezione soggettiva delle due spinte complementari che animano il nostro metabolismo. Pertanto a livello di elaborazione emotiva il soggetto è rappresentato da quella parte del nostro metabolismo che è caratterizzata da spinte più rapide e indipendenti mentre l’oggetto appare come la spinta metabolica più lenta e più statica apparentemente a rimorchio del soggetto. Il linguaggio quindi parte dall’esperienza soggettiva dei nostri movimenti metabolici e li traduce in modo tale da integrarli con i movimenti metabolici di altre persone. Questo può produrre la sensazione della comunicazione – in realtà pressioni metaboliche reciprocamente esercitate e regolate attraverso le parole – che può provenire da allineamenti e disallineamenti (e iperallineamenti) rapidi ed efficaci, ma grossolani, di due o più metabolismi oppure da allineamenti e disallineamenti raffinati come nel caso della poesia o altre forme di comunicazione approfondita. L’allineamento più rapido è simile a quello che avviene con la mimica attraverso la vista anche se esistono usi raffinati della mimica che qui non posso approfondire. Segnalo solo che a proposito della poesia e della sua struttura fonetica abbiamo in Italia un’assoluta autorità del settore che è Giampaolo Sasso, nostro collega SIPP, il quale oltre a darmi il suo aiuto prezioso ha scritto il notevole libro: La nasciata della coscienza (2011, Astrolabio).

Partendo dall’idea del linguaggio come lettura soggettiva del metabolismo ho costruito un dizionario italiano completo dei verbi e dei sostantivi derivati da verbi e li ho divisi in verbi con piani di azione a prevalenza parasimpatica, in cui il soggetto – pur rimanendo tale – è vincolato dal contesto o object centered come essere dare dovere subire aiutare premiare amare sacrificare etc e verbi a prevalenza simpatica come avere volere potere dirigere vincere accusare colpire violare etc. che stanno ad indicare una posizione di maggiore indipendenza dal contesto (subject centered). Il fatto che poi posso usare un verbo di marca simpatica come dirigere al passivo (sono diretto) non toglie nulla al fatto che nella radice del verbo rimane del tutto intatta l’esperienza di autonomia metabolica di marca simpatica legata foneticamente alla radice dirig. Si tratta probabilmente di memorie sensoriali che riguardano il rapporto tra gli stati di attivazione metabolica più lenta a regolazione circadiana registrati fin dalla nascita e il ricordo degli inserimenti dei più rapidi piani di azione simpatica introdotti sul sistema muscolare dalla regolazione operata dalle relazioni. Per chi ha buona memoria i contours of activation di cui diceva Stern nell’85 quando parlava della formazione dei RIGs nella memoria (Regular Interactions Generalized).

Questi verbi sono ordinati nel dizionario dal più debole al più forte in modo tale che l’entry level simpatico (avere) esprime un’iniziale indipendenza dal contesto mentre l’entry level parasimpatico (essere) esprime una iniziale dipendenza dal contesto. Debole significa emozione debole o lieve asimmetria tra i due sistemi neurovegetativi, forte significa emozione forte e forte asimmetria tra i due sistemi.

Pertanto a salire nella parte simpatica aumenta la indipendenza del contesto con volere e potere e poi con pensare sapere sfidare lavorare ottenere valutare giudicare fino a punire forzare offendere e violare con un totale di 24 posizioni progressivamente assertive anche se qui non le metto nell’ordine e non le cito tutte. Dalla parte parasimpatica abbiamo 24 posizioni progressivamente oblative o dipendenti dal contesto con la serie abituare negare soffrire avvicinare eleggere dipendere e imparare premiare aiutare amare adorare fino a subire lasciare pentire fallire e sacrificare e impazzire. La costruzione del dizionario avviene prima con discussione del gruppo di ricerca e viene poi verificata con esperimenti di giudizio indipendente che indicano ottimi risultati per quanto riguarda l’opposizione simp/parasimp tra i verbi più forti che viene riconosciuta universalmente una volta forniti dei semplici parametri di giudizio. Per i verbi più deboli la convergenza tra giudici indipendenti è buona anche se – come era da attendersi – si fanno maggiormente sentire la differenze culturali e individuali sopratutto nella valutazione della progressione della intensità emotiva dei verbi.

L’obiettivo di ricerca è vedere come sono integrati i due sistemi neurovegetativi per cui i verbi più forti segnalano qualcosa di simile alle emozioni forti, mentre quelli più deboli sono espressione di quelle emozioni deboli che non compaiono come emozioni alla coscienza in quanto sono legati a una buona integrazione – o una conflittualità trascurabile – tra i due sistemi. I materiali su cui lavoriamo sono racconti di esperienze autobiografiche in particolare il racconto del “migliore e peggiore episodio della mia vita”, il racconto dell’ “episodio di ingustizia” il racconto di una “crisi sentimentale”. L’unità di ricerca base su cui lavoriamo è la “frase” rappresentata dalla presenza di un solo verbo coniugato e da altri verbi o sostantivi derivati da radici di verbo e qualcos’altro ancora. Abbiamo lavorato a lungo sulla divisione tra frasi in prima e terza persona quando abbiamo lavorato sulla distinzione tra gruppi di attaccamento ma attualmente questa linea di ricerca – per quanto abbia portato a dei risultati che sono stati pubblicati (vedi Seganti, 1995a 1995b, Seganti et al., 2000) – è stata accantonata in quanto fornisce informazioni troppo elaborate per i nostri scopi di ricerca che si sono precisati nel tempo. Il nostro obiettivo attuale infatti è di individuare la “visione del mondo” che proviene dallo stato complessivo di integrazione simp/parasimp della singola persona e/o di gruppi di persone, considerando che un singolo verbo come correre o corro o corre (simp) dà per scontato un piano di azione simpatico che avviene su uno sfondo di un ambiente fisico o relazionale parasimpatico – o più semplicemente sullo sfondo dello scorrere del tempo – che in quel momento non interferisce nella mia corsa. Se poi accosto il verbo voglio al verbo correre come in voglio correre questo sta ad indicare un rafforzamento della mia visione del mondo a dominanza simpatica mentre se ci accosto un verbo parasymp tipo stancare come in sono stanco di correre questosta ad indicare una momentanea visione del mondo in cui simp e parasimp di integrano in quel modo con stancare che ha più forza di correre secondo il nostro dizionario. Per avere un’idea della visione del mondo fatta di soggetti e oggetti che corrono o si stancano o fanno qualsiasi altra cosa, visione che viene veicolata da un racconto autobiografico, esaminiamo quindi (con un computer e un programma adatto ovviamente) come vengono giustapposti i verbi all’interno di ogni frase a partire dalle frasi con i verbi espressivamente più forti. In questo modo faccio replicare al computer una sorta di lavoro sulle associazioni che le persone fanno inconsciamente all’interno di ogni singola frase scegliendo di giustapporre verbi e parole con diversi piani di azione più o meno integrati o contrapposti. In questo modo posso vedere se le due componenti symp/parasimp appaiono integrate all’interno della frase come per esempio vinco un premio, frase che indica come un piano di azione fortemente oblativo (parasimp) come premiare – cioè incentrato su un oggetto “centrale” da premiare da parte di un soggetto “periferico” – si integra perfettamente (stessa forza espressiva nel nostro dizionario) con un piano di azione forte a prevalenza simp – cioè incentrato sul soggetto – come vincere. Nei cinquanta casi di lupus che stiamo elaborando attualmente e confrontando con un gruppo di controllo ci aspettiamo di dimostrare che all’interno della singola frase simp e parasimp non si integrano, nel senso che se ci sono verbi a dominanza simp non vengono compensati da verbi parasimp e viceversa come in faccio un sacrificio in cui sacrificio è emotivamente più forte di faccio oppure come in mi fanno un’offesa in cui offendere aumenta la componente symp di fare senza un freno parasymp come potrebbe avvenire in subisco un offesa. La cosa non è semplicissima da spiegare perché richiede tecnicismi e passaggi vari ma spero di aver dato un’idea di dove ci stiamo dirigendo.

7 – Un’ultima domanda: hai utilizzato strumenti di verifica empirica, e quali nel caso, per valutare i trattamenti?

I tempi non sono maturi dal mio punto di vista per poter assecondare una prospettiva del genere anche considerando le mie modeste forze e l’impegno necessario, ma è chiaro che le cose si stanno muovendo in questo senso e la che la ricerca sugli esiti avrà certamente uno sviluppo. E’ tuttavia uno sviluppo che può diventare temibile se ci si arriva in un contesto come quello attuale dove mancano ipotesi teoriche seriamente verificabili e si rischia di accontentarsi di una ricerca sugli esiti farlocca, abbandonando la ricerca sui fondamentali, cioè la cosiddetta ricerca sul processo. Pertanto una verifica valida dovrà passare per l’analisi del linguaggio ma non potrà diventare operativa prima che si sia creata un’unificazione teorica delle psicoterapie che nella loro pratica sono molto meno distanti di quanto non si voglia affermare per ragioni di scuole e di mercato. Chi corre oggi alla verifica empirica senza riformulazioni della teoria in chiave verificabile non fa che imbrogliare la situazione introducendo dei concetti di verifica altamente “biased” dalla compiacenza dei pazienti e dal desiderio dei ricercatori. E poi non esisterà mai una verifica seria che potrà dire in assoluto che questa psicoterapia è buona e questa no, una verifica seria ti potrà dire che tu hai fatto questo o quello ad esempio hai rafforzato la componente simp a scapito di quella parasimp o il contrario e questo ha portato a un risultato x y o z in queste aree relazionali e un risultato a b o c in queste altre.

D’altra parte devo anche riconoscere che la chiusura (parziale?) degli psicoanalisti alla ricerca può essere in parte giustificata dal fatto che una riformulazione della teoria come quella che io propongo porta in un primo momento ad una perdita, nel senso che ci vuole un certo tempo prima che la nuova teoria riesca a spiegare alcune dinamiche particolarmente complesse come quelle delle psicosi o delle cosiddette perversioni o della cosiddetta distruttività patologica. Io credo, tuttavia, che quando propongo la dinamica dell’iperadattamento e la formazione delle Mine Vaganti riesco a recuperare una buona parte degli aspetti intrapsichici pulsionali così cari alla psicoanalisi tradizionale in un quadro relazionale, anche se molto lavoro in questa direzione è ancora da fare. I meccanismi dell’iperadattamento sono così tanto sofisticati (lettura della mente altrui e regolazione della propria in funzione dei limiti della mente altrui etc. etc.) da essere talvolta difficili da immaginare nella loro esasperata e sofisticata complessità, ma anche perché la loro comprensione porta al crollo delle chiavi di comprensione più superficiali – ma più semplici e a pronta presa – con cui vengono liquidate le manifestazioni apparentemente pulsionali tipo serial killer, femminicidi e giù di lì.

Fammi aggiungere in conclusione che anche nella ricerca come in altri campi esistono dei rischi. Si è parlato parecchio in questi ultimi tempi della interferenza dei servizi di intelligence nel controllo delle menti. Faccio notare che una ricerca come quella che io ho in piedi potrebbe benissimo suscitare l’interesse dei servizi di intelligence – una volta pubblicata su riviste internazionali. E bisogna realisticamente pensare che questi servizi hanno come scopo della loro esistenza la ricerca di sistemi di controllo da poter sviluppare al di fuori del controllo scientifico. Lo sviluppo scientifico di un sistema come quello che sto sviluppando costa infatti tante energie sia personali che economiche e coinvolge molte competenze interdisciplinari.

Permettimi quindi di ringraziare alcuni collaboratori preziosi: Pierchristian Verde, Alessandro Grignolio, Nicoletta Faccenda, Riccardo Caporale, Marianna Marmo, che hanno sostenuto e condiviso la mia linea di ricerca; di ricordare l’aiuto affettuoso di Franco Borgogno e Antonella Granieri quando sono stato a Torino; l’aiuto sostanziale in alcuni passaggi della ricerca da parte di alcuni colleghi tra cui Mario Pigazzini, Giampaolo Sasso e Luigi Solano; e infine anche quello di mio figlio Alessandro Seganti che sta facendo l’analisi dei dati e che ci porta la sua preziosa dimestichezza con il metodo scientifico.

 Bibligrafia

Fraiberg, S.H. (1987). Selected Writings of Selma Fraiberg. Edited by Louis Fraiberg. Columbus, OH: Ohio State University Press.

Sander, L. (1980). Investigation of the infant and its caregiving environment as a biological system. In: Greenspan S.I., Pollock G. The Course of Life, Vol. 1. pp. 177-202.

Seganti, A. (1995 a) La memoria sensoriale delle relazioni. Ipotesi verificabili di psicoterapia psicoanalitica, Bollati Boringhieri,Torino.

Seganti, A. (1995 b) “Prototypic expectations of safety”, Int.J.Psychoanal. vol. 76,6, pp.1245-1255.

Seganti, A.(1999), Il mito dell’attaccamento sicuro ed il suo contraltare, l’attaccamento disorganizzato, Rivista di Psicoanalisi, XLIV,4, pp. 669-693.

Seganti, A., Carnevale, G., Mucelli, R. Solano, L., Target, M., (2000). “From sixty two interviews of the “worst and best episode of your life”. Relationships between intermal working models and a grammatical scale of subject-object affective connections”, Int.J.Psychoanal. 81,3, pp. 529-549.

Seganti, A. (2009).Teoria delle mine vaganti. Come maneggiare il lato oscuro della forza. Roma:Armando.

Stern, D.N. (1985) The interpersonal world of the infant: a view from psychoanalysis and developmental psychology, Basic Books. Trad it: Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, 1987.

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