La Ricerca

Andrè Green di Maurizio Balsamo. Recensione di M. Breccia

13/06/19

Andrè Green, Maurizio Balsamo, Feltrinelli Editore, 2019

Recensione a cura di Marina Breccia

Ci troviamo a parlare di Green nel 2019, di nuovo attraverso il libro di un autore italiano: Maurizio Balsamo, a testimoniare che alcuni autori hanno oltre che uno stile di pensiero uno stile di incontro. Di Green è infatti  impossibile non ricordare lo “stile” di pensiero, indicando con questo termine non solo il modo di pensare e il contenuto del suo pensiero, ma soprattutto il suo modo di porsi verso gli altri pensieri esistenti. Uomo di confine, che non ha invaso i confini e che non si è mai chiuso in un confine teorico  e che sa incontrarsi con altri sui confini. E anche solo questo elemento caratterizzante ci fa riflettere sulla sua attualità in un tempo di muri, dove i confini vengono interpretati, per fortuna non da noi analisti, come luoghi di chiusura, di minaccia, di invasione. Un uomo di confine che valorizza quella poco identificabile zona d’ombra, la zona incerta di ogni confine,  per arricchirsi delle differenze, incontrare l’altro e scambiare, trasformare, emancipando le differenze e la differenziazione dell’oggetto studiato. E’ sempre entusiasmante rileggere  con quanta passione  afferma: “Gioco e realtà: la più grande trattazione metapsicologica dopo quella freudiana!”.  Perché se è vero, con Aulagnier, che le nostre passioni teoriche e di ricerca sono in qualche modo in parte autobiografiche, studiamo e cerchiamo, continuiamo a cercare, ciò che è stato inanalizzato e forse rimane inanalizzabile in noi, è vero anche che queste non possono crescere se ci incarceriamo in esse, alzando muri di sfida, di sdegno e di rifiuto verso tutto ciò che è diverso.  Allo stesso modo questo non vuol dire che  qualsiasi cosa si possa integrare ed estendere a qualsiasi altra. E le critiche di Green a Lacan, o a  Klein ne sono un esempio, di rispetto e di coerenza. Green,  si è spesso definito eterodosso, ma quale testimone, in quanto erede non lo è?Questo si dovrebbe poter dire in realtà  per ogni approccio scientifico e mi sentirei di aggiungere: quindi anche per l’approccio psicoanalitico, e Derrida in questo senso ci insegna molto sugli impegni relativi al  trasmettere un’eredità teorica ed esserne testimoni. (Quale domani?, 2004). Ma la capacità di affiancarsi ad altre derive teoriche, ricavandone un’essenza che forse sfuggiva agli stessi autori, non gli ha mai impedito di essere anche originale, e quindi di portare avanti un “ suo pensiero” articolato su molti temi clinici e metapsciologici su cui entreremo naturalmente per riprendere quanto ha  voluto scegliere come “sua eredità” Maurizio Balsamo.
Questo tuttavia non  ha mai distolto Green dal sentire come primaria l’esigenza che la psicanalisi avanzasse prima del suo pensiero, o meglio che il fine primo del suo pensiero era quello di far avanzare la psicoanalisi con altri, certo molto scelti. Era un uomo rigoroso e severo, ma non tirannico, come a volte si è voluto far credere. E questa priorità del suo procedere clinico e teorico  emerge dalla testimonianza che ha lasciato in alcune interviste ormai in età avanzata : “La cosa importante è non fermarsi mai”, e ancora: “C’è un enorme campo di ricerca davanti a noi”.   Quello su cui mi vorrei soffermare  sono alcuni punti che io trovo salienti: collocare il lavoro di trasformazione del pensiero analitico di Green tra i contenuti del passato, in particolare freudiano, da cui parte, e il nuovo a cui la clinica costringe. Tutto ciò per far cogliere l’importanza formativa prima che trasformativa su cui Green per primo ha insistito e sull’indispensabilità di vedere l’una mai separata dall’altra. E’ come dire, e perdonerete il gioco di parole, che se l’informazione che viene dalla clinica, e che comunque deve venire deformata per una rappresentazione nella mente dell’analista stesso, non si traduce in uno strumento formativo, poche potranno essere le aspettative di una trasformazione all’interno del percorso analitico. Prenderò dunque, seguendo questo binario, alcuni punti su cui cercherò di porre l’ attenzione dei lettori:

 – Il Binomio Pulsione- Oggetto

-Il Binomio Transfert sull’Oggetto- Transfert sulla Parola

-La Terzietà

-La Temporalità

Balsamo tratta questi temi in vari punti del suo libro seguendo un suo percorso che ben si evince dall’indice:

  • – Connessioni , capitolo fondamentale per evidenziare tutti i legami con il materiale teorico ereditato da Green
  • – La dimensione narcisistica, che ci costringe a stare nell’ineluttabile certezza, poiché è anche vero non c’è una clinica nuova che si affianca alla precedente, ma che la clinica è nuova ed è tanto più nuova quanto più nuovo è il nostro modo di osservarla, in una relazione dialettica, ma mi sentirei di aggiungere con Merleau Ponty, anche ricorsiva. Capitolo in cui l’autore si sofferma sui concetti di negativo e originario.
  • – La processualità rappresentativa, dove il termine “ processo” ci introduce ad una spazialità e ad una temporalità non ignorabili
  • – E “ Una”, e sottolineo una, teoria del pensiero Green, per chi l’ha conosciuto, era un uomo di passione tanta, ma di facili entusiasmi pochi, certamente detestava i riduzionismi, le semplificazioni e le banalizzazioni di un idea, di un concetto o semplicemente di una disputa. Pensiamo ad esempio all’annosa diatriba tra teoria pulsionale e teorie della relazione d’oggetto. Come ricorda anche Balsamo, Green sottolinea che quando l’Io, attraversato il narcisismo primario,  inaugura l’oggetto come altro da sé, ogni risposta dell’oggetto fa ormai parte  dell’organizzazione psichica tanto che questa non distingue più tra ciò che dipendeva da un funzionamento pulsionale all’origine e ciò che gli si aggiunge come parte acquisita. Ecco che introducendo il termine BINOMIO pulsione –oggetto Green fa capire che non si tratta più di una coppia, ma che dalla coppia è derivato un substrato unico, da cui attingeranno tutti gli elementi di una successiva topica. Tutto ciò per arrivare a dire che Green non ha solo messo fine ad una disputa assurda ed insensata, ma ha anche dimostrato perché lo era.  Con la sua traduzione e riedizione della teoria pulsionale freudiana ha dimostrato infatti che  nelle pregresse opzioni divise e contrapposte non si trattava di scegliere un vertice teorico piuttosto di un altro, ma si trattava, scegliendo appunto un tale verticismo, di cadere in un riduzionismo, in un annullamento della complessità della clinica, e della complessità che lo psicoanalista è continuamente convocato ed invocato a tollerare e rilanciare: la complessità dell’inevitabile scarto teorico-clinico, che non può ammettere riduzioni semplificanti, ma che a volte è utile paradossalmente  dilatare per  far accedere analizzando e analista alle loro possibili differenziazioni, e alla differenziazione evolutiva del procedere dell’analisi, quanto altre volte è invece più utile  modulare. Scarto che assume un valore alla luce di una complessità  che anche Balsamo ha saputo valorizzare, nel riprendere il pensiero di Green. L’altro binomio a cui  accennavo è quello del transfert sull’oggetto e sulla parola . Anche qui Green propone una visione binoculare, espressione che voglio usare  perché se ben  trasposta la metafora ci fa cogliere la similitudine a  ciò che accade nella neurologia umana quando si parla di visione binoculare, poiché questa  ci consente di vedere insieme il doppio e la sua sintesi. Noi infatti non sappiamo che cosa vede un occhio rispetto all’altro, a meno che non  facciamo l’esperienza di tapparne uno alla volta per guardare, ma se c’è un danno, all’intersezione chiasmatica o all’arrivo delle afferenze, l’immagine risulta sdoppiata con svariate gradazioni di intensità. Così in molte situazioni cliniche l’agito in varie intensità e in varie forme, dissocia il transfert, che non viene abolito, non si negativizza, ma si scompone, per cui il transfert sulla parola, quello che comunemente chiamiamo transfert, sembra venire meno, ma di fatto si crea solo una discontinuità verbale, mentre permane un funzionamento transferale sull’oggetto, a volte anche molto intenso. La metafora della visione binoculare dissociata mi sembra che ben ci consenta di considerare anche le diverse quantità in cui questa discontinuità e  scollamento nel transfert si possano realizzare, potremmo dire, le varie diplopie.
    Non credo, o almeno non ricordo, che Green abbia mai così metaforizzato il suo concetto nel senso che qui ho proposto, certo è che è un concetto che separa e slega, utilizzando una terminologia da lui adottata per i funzionamenti pulsionali,  che separa e slega senza distruggere, senza negativizzare. Ed è veramente singolare ed estremamente interessante questo suo separarsi dal termine negativo nel transfert, proprio perché è stato il fondatore di un’ innovativa ed estesa visione del negativo, che sicuramente conoscete e di cui tratteranno immagino i nostri colleghi.  Trovo che anche qui Green si salvi e ci salvi dalle posizioni antinomiche, fonti ancora una volta di diatribe come quella tra transfert positivo e transfert negativo, che inchiodava sull’ineluttabilità di quanto fosse curabile e quanto non lo fosse. Diatriba comunque  criticata anche  da altri autori contemporanei, tra cui Roussillon che lo definisce il “ ben maldetto transfert negativo”. Nelle situazioni in cui prevale la tendenza alla riattualizzazione traumatica e alla ripetizione, il transfert è “ agito” sull’oggetto, in tutti i modi possibili, e non dimentichiamo che sono più d’uno. Come il silenzio anche la stessa parola, parola in questo caso morta, espressione di una stereotipia.
    Quindi la questione che si apre attraverso questo scollamento del transfert e nel transfert è come ricondurre nel setting e attraverso l’apparato del linguaggio, altri due grandissimi filoni di scrittura per Green, come ricondurre a una parola vivente ciò che da essa si è allontanato.E’ notevole dunque la quantità di aperture all’innovazione e insieme all’interlocuzione che questa visione integrata del transfert porta con sé e insieme potenzialmente fa esprimere o mette in cantiere perché altri la ripercorrano verso nuove espressioni. Apre infatti ad una  complementarietà teorica anche soltanto all’interno delle diverse   parti del pensiero freudiano: percezione/ rappresentazione, parola agita/ parola associativa, transfert così detto negativo / controtransfert, transfert laterali / controtransfert e per conseguenza anche funzione e nuove caratteristiche strutturale e temporali dell’ interpretazione, in Freud e oltre Freud i concetti di transfert contrattuale di Balestriere o i fasci di transfert di Emanuelle Chervet. Aggiungerei tuttavia la complessa situazione  contratransferale che inevitabilmente si complementa a tutto ciò, continuo a riferirmi alla insistente ripetizione all’interno di situazioni fortemente traumatiche, per cui ho definito coprifuoco narcisistico la difficile e spesso lunga attesa di una possibilità rappresentativa della parola quando questa può essere solo drammatizzata, parola drammatizzata  su cui hanno scritto Donnet e ancora  la Chervet. Ma come sarebbe pensabile tutto ciò senza agganciarsi alla grossa e solida deriva che ha posto Green parlando dell’alone della parola, una zona in transito verso la cosa, ma anche in transito, per contro, verso una possibilità rappresentativa, un  nucleo ancora silente.  Ritengo infatti che Green abbia molto spinto verso la seconda topica e soprattutto verso al seconda teoria pulsionale, ma che non abbia mai dimenticato il primo Freud, anzi sembra sempre raggiungerlo in una sorta di esperienza teorica in aprés coup.
    La questione dell’affetto, che lo attraversa nei suoi scritti dal 1973 ne  Il discorso vivente. La concezione psicoanalitica dell’affetto al 1984 ne Il linguaggio nella psicoanalisi, non è solo il suo  passaggio netto, la sua cesura teorica, ma anche la separazione definitiva e netta della gran parte della letteratura psicoanalitica francese dalla posizione lacaniana sul linguaggio, è anche la chiave per aprire una nuova porta della psicoanalisi al fine di individuare un suo specifico verso la cura degli stati limite o se vogliamo essere più estensivi verso tutte le situazioni che si manifestano con una prevalenza sintomatologica, esistenziale ed espressiva che riconduce alle ultime concezioni freudiane sul trauma e l’utilizzo di difese più primitive ed inscrivibili in un ambito psicotico (penso alla clinica della madre morta, della posizione fobica centrale, del pensiero operatorio e alla potenzialità psicotica di Aulagnier, o alle situazioni narcisistiche primitive con legami non simbolici e alla loro costante rievocazione dell’Hilflosigkeit, agonia, o angoscia primaria, di cui parla Roussillon). Nel testo, che prima ricordavo, Il discorso vivente. La concezione psicoanalitica dell’affetto, Green (1973) ci porta a spostarci su elementi strutturali mancanti e pure presenti come traccia “negativa”. Poiché l’affetto è il delegato della pulsione, e quindi la rappresenta,  questo comporta sia l’evidenza insopprimibile dell’eterogeneità delle rappresentazioni, sia il fatto che l’allucinazione negativa sia la condizione strutturale di fondo di ogni rappresentazione, e che dunque ogni rappresentazione non sia mai né una, né esaustiva. E’ proprio questo riscontro di un’eterogeneità di materiali che conduce a pensare tanto ad una traccia cancellata quanto ad una residuale traccia di cancellazione. Ciò che manca, secondo Green, in qualche modo  intrude, e tale mancanza è la testimonianza di un’affettività somatopsichica irriducibile ad una catena di significanti. Ma se ciò non bastasse  ci conduce anche ad un lutto epocale: la perdita di ogni speranza di un’origine unica, testimonianza che apre al concetto di terzietà da un altro versante ancora, rispetto a quelli assai noti.Ma riprendendo ancora Green nell’altro suo noto lavoro successivo, Il linguaggio nella psicoanalisi, del 1984 la problematica relativa ai rapporti del setting analitico con il linguaggio, come vedete costantemente aperta, lo porta a sviluppare le ipotesi sul ruolo del setting nell’induzione di un processo di metaforizzazione della parola. Egli conduce la sua riflessione con due proposizioni. La prima considera il linguaggio come un dispositivo, un “analogon artificiale dell’apparato psichico, una conversione di quest’ultimo, conversione unificante, omogeneizzante e vettorializzata” (Green, 1991, 129). La seconda definisce il setting un apparato psicoanalitico la cui funzione “ha per scopo la trasformazione più spinta possibile dell’apparato psichico in apparato del linguaggio e viceversa” . E da qui il suo insistente interrogarsi sul perché la teoria analitica si sia assai poco intrattenuta sull’importanza del setting. Il setting dice Green “è la simbolizzazione della struttura inconscia del complesso edipico, che l’apparato psicoanalitico fa parlare” (ivi, 120), ma è  anche l’ambito in cui si costruisce  la possibilità di far sì che si realizzi “l’altro dall’oggetto, il terzo analitico, l’oggetto analitico che non è né interno né esterno, ma tra l’analizzando e l’analista”. Come è evidente senza la riproposizione dei funzionamenti terziari dell’analista, spesso drasticamente mancanti in psicosi e stati limiti, tutto ciò non sarebbe ipotizzabile, ma il terziario attinge al primario, ne è l’intermediario, e presentificando l’oggetto drammatizzato  ripropone all’Io un attraversamento di riconoscimento identitario e soggettivo e nello stesso tempo una possibilità verso una ricomposizione rappresentativa. Ecco ancora l’incontro tra due pensieri freudiani e il nuovo, risignificato in un investimento ereditario responsabile e con un fine preciso, a cui fa riferimento Balsamo nella conclusione del suo libro utilizzando le parole di Green, quello di permettere al paziente  “di riconoscere il modo in cui usa le forze psichiche che lo abitano e di rimpiazzare la distruzione con una circolazione più libera dei suoi affetti e delle sue rappresentazioni”. Mi accorgo, scrivendo e ripensando a Green e al libro di Balsamo, che è quasi impossibile parlare di alcuni aspetti del pensiero di Green senza un rimando a tutto il suo pensiero, cosa che è piuttosto raro che accada con altri autori, almeno in questo modo, e mi chiedo se il titolo che ha dato Maurizio Balsamo al suo libro-testimonianza si intitoli semplicemente, ma anche potentemente,  solo: Andrè Green, come espressione della forse unica sintesi più percorribile, dire poco per dire molto, caratteristica questa anche della scrittura di Green, che probabilmente influenzato dalle sue origini intrecciate con il mondo anglosassone e la sua lingua, ha uno stile di scrittura complesso ma anche lineare, poco ampolloso o intricato.
    Se il setting è dunque il luogo dove  si fa parlare l’apparato psichico, questo accade attraverso incredibili e sorprendenti sovrapposizioni e incastri temporali.  Nel trauma il tempo si ferma, ma giustamente Green ci ricorda ne Il tempo in frantumi (2001), e in Idee per una psicoanalisi contemporanea (2002), che non si tratta affatto di un tempo atemporale, cioè infinito come quello dell’inconscio, ma del suo esatto contrario un tempo contro tempo, che tuttavia cerca, attraverso la ripetizione di salvare il soggetto, di prendere tempo, potremmo dire, in attesa della cura, una cura in cui i diversi assi temporali, storico, biologico, psichico inconscio possono ripartire e reintegrasi, attraversati da esperienze temporali di sincronicità, su cui Green ha potuto soffermarsi   attraverso la fisica quantistica e forse altre letture.
    Il pensiero va ora prima della conclusione ad un recente testo di Carlo  Rovelli:  La realtà non è come ci appare ( Raffaello Cortina, 2014) i cui l’autore ci ricorda, nel suo disarmante e altrettanto efficace stile letterario, che più  potenti sono i nostri telescopi più vediamo cieli strani e inaspettati. E se cerchiamo di mettere insieme quello che abbiamo imparato sul mondo fisico nel XX secolo  emerge una struttura del mondo in cui non appare né il tempo né lo spazio, ma una realtà generata da un pullulare di eventi granulari legati da una dinamica probabilistica.  La scienza diventerebbe così   un modo di leggere il mondo con un punto di vista via via più ampio, e questo modo in divenire è molto vicino alla visione freudiana della conoscenza dell’Io, e a quanto Green ha saputo leggere e scrivere su tempo e spazio. Lascerei al lettore la traversata  del libro di Maurizio Balsamo su Green affinché  si possano aprire altri spazi in cui questa  sua complessa temporalità sconfina. 

Bibliografia

Derrida J, Roudinesko E., (2001) Quale domani?, Bollati Boringhieri,2004

Green A., (1973) Il discorso vivente. La concezione psicoanalitica dell’affetto, Borla, 1978

Green A., (1984) Il linguaggio nella psicoanalisi,Borla,  1991

Green A., (2000) Il tempo in frantumi,Borla, 2001

Green A., (2002) Idee per una psicoanalisi contemporanea, Raffaello Cortina, 2004

Rovelli C., La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina,2014

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