La Ricerca

Contro la felicità. Elogio della malinconia

12/01/10

 

Eric G. Wilson (2009)


Guanda edizioni, pag. 159

 

Più per il valore del suo contenuto – si tratta di un facile e agile saggio-phamplet di lettura molto scorrevole – mi è parso non privo d’interesse segnalare questo libro dell’americano Eric G. Wilson, professore di letteratura presso la Wake Forest University del North Carolina e autore interessato ad esplorare il mondo dello psichico, poichè si colloca tra quel genere di testi che oggi vanno un po’ controcorrente e, a me pare, fanno un gran favore alla psicoanalisi.

La tesi di fondo è semplice e appassionatamente difesa dall’Autore che la ripete, sostanzialmente, lungo tutto il libro. È la nota tesi cara alla filosofia romantica, alla psichiatria pre-farmacologica in parte, e non ultimo, al pensiero psicoanalitico a partire dal ben noto pessimismo di Freud: la rincorsa alla felicità (happyness) ci uccide.

Uccide la nostra singolarità, la nostra soggettività, "alimenta l’insulsaggine"- scrive Wilson – privandoci della capacità di comprendere la realtà dal momento che la realtà è complessa, ricca di ambivalenze e di sfuggevoli sfumature; dunque infine ci rende stupidi, esseri banalizzati e obbedienti all’american way of life. Buoni consumatori, non individui.

Opachi, senza spinta, in quanto privati di quella energia che è la nevrosi, o che anche la nevrosi contribuisce a creare. È "il caos primordiale" della vita che finisce col venire imbalsamato, edulcorato sotto l’imperativo, tutto contemporaneo, di rincorrere la felicità.

Wilson fa risalire la genesi di questa deriva positivista proprio al cuore stesso del capitalismo americano; un sistema produttivo che pure, l’Autore non manca di riconoscerlo, ha avuto il merito di procurare benessere e progresso alla giovane nazione nascente. Ma poi le cose sono andate oltre, determinando, appunto, l’attuale deriva: il modello capitalista mescolato al primo ingenuo Cristianesimo dei pellegrini del Myflower, che Wilson definisce una "melensa commistione", ha posto le basi del sogno americano. All’interno di questo, la felicità non è solo un diritto (al pari dell’andare a votare o altri diritti civili) a cui ciascuno può e deve ambire come scopo principe della vita, ma la felicità viene a sovrapporsi al benessere materiale, finisce con il corrispondere alla proprietà, alla giovinezza e alla salute. Una "mentalità da centro commerciale", scrive l’Autore; la vita come parco giochi, un immenso non-luogo dove è possibile afferrare tutto, comprare tutto, non pensare, non soffrire, non aspettare. Non vedersi invecchiare, non inciampare in ambivalenze, non dubitare. Giocare a vivere, è ancora una bella espressione di Wilson.

Pur riconoscendo ad un grande Paese come l’America anche la presenza del suo contrario, del suo inquietante doppio, il genio americano (sul quale, a mio parere e forse per mantenere la coerenza teorica del libro, non si sofferma abbastanza), rappresentato magistralmente dai molti autori che ne hanno descritto il malessere e lo hanno loro stessi pagato a caro prezzo, Wilson vuole puntare il dito non sull’eccezione, ma sull’uomo medio, sul soggetto contemporaneo. Il soggetto (se questa dizione ha ancora senso e legittimità) del prêt-à-porter del desiderio, del tutto-subito-e-facile, che fa coincidere l’ideale di vita nell’ideale del denaro, terrorizzato dalla morte, dal contrasto, dalla tristezza.

Wilson ci tiene anche a precisare che la sua non è un’idealizzazione della depressione come stato psicopatologico, sgombrando così il campo dai facili equivoci nei quali il lettore generico può cadere. A nessuno piace sentirsi depresso, ovviamente, e sappiamo che la depressione in quanto malattia è ben raramente creativa, manifestandosi invece all’opposto come assenza di energia e tono vitale, ed essendo abitata nel profondo da sentimenti rabbiosi e ostili. Tuttavia il libro non tratta una disamina tra depressione maligna e melanconia "buona", dando per scontato che, intuitivamente, il lettore comprenda di che tipo di tristezza l’Autore parli. Pensiamo subito a Van Gogh o a Leopardi, a Virginia Woolf o ai grandi filosofi greci. Molti sono gli esempi citati di personaggi famosi che non sarebbero stati grandi se fossero stati allegri o "cuorcontenti", se non avessero convissuto fianco a fianco con la disperazione, o a tratti con una vena di malinconia, sempre vicini, sempre a côté con la malattia dell’anima, con lo spettro della morte. La letteratura di ogni epoca abbonda di richiami al dolore come necessità: Foscolo diceva di "trovare un non so che di malsano nell’uomo prospero", e lo scrittore francese Romain Gary fa dire al piccolo personaggio del suo bellissimo La vita davanti a sé, «alla felicità preferisco ancora la vita».

È per sfuggire all’ineluttabile della morte che l’uomo contemporaneo, più che in passato, è caduto nella trappola della coazione alla felicità. Si tratta dunque di un movimento difensivo, un meccanismo di negazione. Come tutte le difese, se un po’ ci protegge, finisce con l’impoverirci. Poiché il sentimento melanconico contiene in sé la possibilità generativa (l’Autore si situa vicino alla psicologia analitica di Jung e soprattutto di Hillman), se perdiamo questa risorsa, pur dolorosa, perdiamo molto, la nostra stessa capacità trasformativa, potremmo dire.

La possibilità, tutta umana, di trasformare la percezione dolorosa in ricerca creativa, di trasformare la mancanza, quel qualcosa che manca e mancherà sempre, in esplorazione della realtà e passione per la conoscenza. Benché l’Autore non utilizzi concetti psicoanalitici quali la sublimazione o la trasformazione, mantenendo il discorso su un voluto terreno divulgativo, non senza semplificazioni, possiamo facilmente scorgere tra le righe lo spettro di un nuovo disagio della civiltà che avanza, anzi che è anzi già in atto: non più stretto nel conflitto tra il desiderio e i suoi impedimenti, l’uomo contemporaneo è a rischio di restare schiacciato nella sterile ricerca del benessere a tutti i costi, perdendo di vista sia il valore costitutivo del desiderio sia l’importanza del limite. La conflittualità interna produce sì sofferenza, ma è anche alla base della nostra complessità e senza di essa non esisterebbero l’arte e la letteratura (pensiamo al romanzo borghese e alla nascita della psicoanalisi nella Vienna fine 800).

A tratti, l’Autore fa qualche incursione personale nella sua propria malinconia ("noi malinconici"), contro i "cuorcontenti". Troviamo parole intense, quando scrive « […] Scrutandomi dentro mi rendo conto che in ultima analisi sono solo al mondo, che nessuno può vivere la mia vita per me: né mia moglie, né i miei genitori, né la mia cultura.[…] Io sono questa persona e non un’altra. Devo trovare le mie potenzialità uniche, i miei personali orizzonti. Sono io che devo vivere la mia vita e morire la mia morte.[…] Mi allarmo. Lo so: sono un essere finito. Morirò. […] Accettare la mia morte è un trauma che mi induce a vivere. Percepire la mia finitezza mi porta ad immaginare infiniti orizzonti possibili» (47). Credo che molti di noi si possano riconoscere in questo tipo di esperienze psichiche; la stessa motivazione alla professione aiutativa, all’identità psicoanalitica, rimanda, in misura conscia o inconscia, al bisogno di metter mano, in qualche modo, alle proprie ferite.

Perciò ho detto, in apertura, che questo "Against happyness" è uno di quei testi che, nonostante le semplificazioni, fanno bene alla psicoanalisi. Possono avvicinare una parte di pubblico a idee, riflessioni e concetti oggi divenuti marginali, eccentrici rispetto alla kultur dominante, collocandosi così in quel territorio di "marginalità" e "extraterritorialità" di cui la psicoanalisi fa parte, non per vezzo ma «per precise ragioni metapsicologiche, vale a dire, al fatto che essa sfugge al campo dell’interesse dell’Io…» (Laplanche, 1987).

Unica modalità per uscire da questa trappola, è, infatti, per Wilson la possibilità di "stare nel mezzo", accettare i grigi della vita, il dolore delle cose che non vanno, la nostra finitezza, quella di chi amiamo e dei nostri ideali, "sfuggire alle derive scissioniste" suggerisce e, aggiungerei, a quelle perverse e paranoidi, per cui non solo la realtà è divisa in bello e brutto, ma la responsabilità sta sempre fuori dal soggetto, nell’altro identificato via via con qualche estraneo, o nell’altro da usare per cortocircuitare le nostre mancanze. Egli dunque intravede una soluzione psicoanalitica, potremmo dire, anche se non lo esplicita in questi termini, nel momento in cui mette in guardia rispetto al ricorso alla negazione e alla scissione, favorendo invece la riparazione e la tolleranza dell’inevitabile ambivalenza del vivere.

Il sapere psicoanalitico, nel suo nucleo più vero e profondo di ricerca della verità, ha dai suoi esordi concettualizzato quanto Eric G. Wilson scrive con tanta partecipe semplicità. È noto che Freud vedeva nella necessaria repressione pulsionale la causa della nevrosi ma anche della civilizzazione, destinando così la vita umana ad un’ "infelicità" strutturale che è insita nel nostro stesso assetto pulsionale. Mi viene alla mente, tra gli altri, lo psicoanalista Michael Eigen, contemporaneo e americano come Wilson, il quale riesce a parlare di sé e della trasformazione della propria sofferenza con parole che trovo di rara intensità, e che vorrei citare a conclusione.

Al termine di Legami danneggiati descrive la propria infanzia, le analisi, la vita coniugale, le letture, il lavoro con i pazienti, un vissuto in cui «una miscela di panico, gioia, bontà, distruttività caratterizzava l’atmosfera emotiva che respiravo. Ho dovuto lavorare a lungo e con impegno per imparare a avere meno paura di me e degli altri e per trovare impieghi costruttivi della paura e della rabbia. […] La ferita che mai si rimargina incontra il fuoco che non estingue. La mia storia personale faceva di me parte integrante della specie umana. […] In origine sono entrato in terapia spinto dalla sofferenza, per irrobustirmi, per realizzare desideri. Ora mi interessa di più lasciare che la terapia mi mostri le sue potenzialità» (2001,186).

Rossella Valdrè

Bibliografia

Laplanche J. (1987). In Conrotto F. (2000). Tra il sapere e la cura. Un itinerario freudiano. Franco Angeli.

Eigen M. (2001). Legami danneggiati. Astrolabio, 2007

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