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La brutalità delle cose. Trasformazioni psichiche della realtà. Di Lorena Preta (2015). Recensione di Daniela Scotto di Fasano

7/09/15

Lorena Preta (2015)

La brutalità delle cose. Trasformazioni psichiche della realtà

Mimesis, Milano

La brutalità delle cose. Quando, come indica la citazione di Francis Bacon sul retro della copertina, non resta che la realtà delle cose.

Che noi possiamo credere di adattare alle nostre modalità di conoscenza e al nostro vissuto, ma…. in barba alla nostra illusione, che può farci credere per un po’ di esserci riusciti, prima o poi avremo un contatto brutale col fatto che una rosa è una rosa è una rosa …(1)
Per me, come per chi ha condiviso negli anni riflessioni e pensieri con Lorena Preta, la brutalità delle cose è stata anche l’attesa di questo libro.

Un libro che è andato prendendo forma nel tempo nello stile che è caratteristico dell’Autrice: rapsodicamente, lucidamente, visionariamente, a lampi, in territori del pensiero aspri, dove perdersi è facile se non hai profondamente e saldamente fatto tuo lo strumentario (2)che ti permette di esplorare lo sgomento psichico fino nei suoi più reconditi abissi perché sai uscirne.
Uscirne trasformati.

Entrare in contatto autenticamente ravvicinato con la brutalità delle cose non può infatti che tra-sformarci senza peraltro trasformare l’ineludibile verità con la quale siamo entrati in contatto: che esiste una realtà irriducibile intrasformabile.

Si apre, con tale assunto, un orizzonte ermeneutico prezioso.
Non tutti, tra gli psicoanalisti, la pensano a questo proposito come Lorena Preta.
In molti si danno certi di poter lavorare psicoanaliticamente – trasformandoli – sugli scarti residuali di bruta realtà.
Freud aveva, nel 1899, nel testo inaugurale della Psicoanalisi, la Traumdeutung, affermato che c’è in ogni prodotto onirico un nocciolo duro inaccessibile, incomprensibile. Così, Lorena Preta. È questa per lei la brutalità delle cose.
Io non entrerò in questo contributo nel merito della questione.
Mi limito a segnalarla, avendone negli anni seguito l’andamento in più di una conversazione relativa ad essa.

Certo, indipendentemente da come ci si pone nei confronti della ‘durezza’ delle cose, Lorena Preta sa portarci a contatto con una sorta di lucidità onirica, con un atteggiamento di dolente ma prezioso ‘disincanto’, con inaudite fusioni di linguaggi. Fusioni che possono spiazzare il lettore ma mai sconfortarlo o annoiarlo. Paolo Fabbri, nel parlarne a Milano il 17 giugno alla Casa della Cultura (3), sottolineava come a suo parere l’intraducibilità non esiste. Si tratta di aspettare, diceva: le parole aspettano, e prima o poi qualcuno troverà il modo di tradurle.

Ecco, questo è l’effetto che il libro di Lorena Preta ha fatto a me: apre le porte alla speranza, che, prima o poi, potremo trovare il modo di fare di una poesia un foulard…
Il lavoro di tutta la vita, per Lorena Preta, ha a che fare con le impreviste possibilità trasformative offerte – se le vogliamo vedere – dalla realtà.
Come lei stessa notava, la genialità di Freud fu scoprire che le isteriche soffrivano di ricordi e che non restava loro altra strada, per parlarne, che quella del ricorso al linguaggio d’organo, con ciò sganciando l’esistenza dalla coartazione del destino e restituendo senso allo scarto, al residuo, all’apparentemente insensato, fondando in tal modo una scienza riflessiva, la cui funzione essenziale è “liberarci dalla predeterminazione contenuta nell’idea di un destino già segnato e immutabile(4) , aiutandoci a trovare sempre nuovi modi per rinnovare l’interrogazione, ma con la consapevolezza e l’accettazione che il nutrimento del pensiero deriva proprio da quella parte dell’esperienza che rimane meno esprimibile…Un polipo sognava alla luna…” (Preta 1993 XXXII – XXXIII). Lorena Preta si riferisce a un disegno con cui il famoso critico d’arte Giuliano Briganti dava senso – “mediante una trasformazione poetica e cognitiva” – a un’avventura estiva: un polipo, all’imbrunire, sulla spiaggia di scogli, s’avvinghia per un attimo alla gamba di Margherita. I disegni schizzati sul foglio e le parole che li accompagnano narrano: “il polipo innamorato viene staccato dalla gamba di Margaretha, ma nell’urgenza dell’azione è tagliata insieme al tentacolo anche la gamba…Giorni tremendi….un medico compie il miracolo, ma commette un errore: al posto della gamba attacca il tentacolo…e così la bella, tutte le notti sulla sua barca, sogna nostalgicamente il polipo, che ormai in parte le appartiene. E la paura, l’eccitazione trovano una forma, una via di rappresentazione. E le emozioni sono restituite trasformate. E l’invenzione narra anche della realtà” (ivi).

Come si può notare, da oltre vent’anni il nucleo centrale delle riflessioni dell’Autrice ruotano attorno al mistero della ricerca di “una via di rappresentazione”. Si tratta di una psicoanalisi impregnata di freudismo, come quando scrive che l’immaginazione “è utilizzata per costruire un’ipotesi d’interpretazione del mondo e un progetto di azione sulla realtà.” (66).
Come non pensare a Ernst e al gioco del rocchetto? O, poco oltre, come non pensare ad Emmy von N., quando osserva che il lavoro psicoanalitico dovrebbe lasciarsi “spiazzare a tal punto da raggiungere un luogo eccentrico da cui guardare le cose da altri vertici di osservazione” (67). Quelli che condussero Freud a abbandonare, con Emmy, l’imposizione delle mani, i bagni caldi, imparando ad ascoltarla. E basta.

È anche un libro a tratti profondamente triste, La brutalità delle cose. Come alcune sinfonie di Beethoven. Ma altrettanto vivo. Le testuggini vengono, vanno. Si limitano a essere: “L’esistenza libera della vita stessa” (21). Capirlo, entrare in contatto con la “percezione cruda dell’alterità in senso radicale”, può consolare.

Paradossalmente, penso che tale esperienza percettiva possa costituirsi per la nostra mente come un contenitore, come qualcosa che dà forma all’insensato. Allora può accadere che, molto bionianamente, “i non-quadri, le non-cose, possono stare qua o là, sopra o sotto […] in posizioni definite dagli avverbi che caratterizzano il contenitore ma non caratterizzano gli oggetti.” (86).

Non si può che uscire rinnovati dall’incontro con questo libro.
Con il quale, svaniscono le strettoie mortificanti imposte dal fatto di non essere più in grado di scoprire l’imprevisto, che a Cristoforo Colombo costarono il fatto di non potersi rendere conto di aver scoperto l’America, tanto forte era in lui il bisogno di trovare quello che si aspettava – in base a un suo cliché – di trovare: l’India.

Non potersi aspettare altro che il già noto (l’India di Cristoforo Colombo) aliena dall’invisibile agli occhi. Da ciò che, come nell’opera di Jannis Kounellis in copertina, dà modo, nel vedere, di immaginare. All’aviatore il Piccolo Principe di Saint Exupery chiede di disegnargli una pecora, ma nessuna di quelle tratteggiate lo soddisfa. Solo di fronte alla cassetta dentro la quale “c’è la tua pecora” il Piccolo Principe è contento: l’aviatore ha saputo offrirgli un contenitore per rappresentare.

“Quando esauriva tutto dentro di sé e attorno/ e gli sembrava di affondare, – allora si ricordava di/ pronunciare/ una parola sola: statua (e, naturalmente, intendeva/ una statua greca, nuda). E subito intorno a lui/ si aprivano isole-nomi; un ginocchio brillava/ di fronte al mare; la faretra del giovane arciere/ si scorgeva sepolta sotto una montagnetta di sabbia fine./ Si vestiva, usciva nell’Agorà. ‘Buongiorno’, diceva./ Macellerie, negozi di vasi, fruttivendoli. Comprò dell’uva/ liberando quel gesto profondo, calmo, inesauribile/ di un braccio di marmo amputato.” (Ritsos, 1969, 107).
Si tratta della poesia di Ghiannis Ritsos intitolata Una parola, perfetta, a mio parere, a dire lo stra-ordinario potere delle parole, capaci di spalancare orizzonti di sopravvivenza emotiva, intellettuale, morale. “Spazi dell’immaginazione” dunque, per resistere al”la bonaccia indifferente, densa/” (Karelli, 1955, 47-48) di una mentalità che smette di incuriosirsi e sognare.

Con Lorena Preta, si conducono esplorazioni vertiginose Oltre l’ovvio dell’apparenza: le mele ca-dono sotto lo sguardo dell’uomo da che mondo è mondo, ma “bisogna essere un po’ folli per porsi delle domande sulle mele che cadono” (Chasseguet-Smirgel, 2002, 7). Si tratta di una scienza delle tracce, del recupero degli scarti, come nelle opere dell’artista Jean Tinguely.

Un accenno va fatto alle suggestive e ricchissime evocazioni di opere d’arte, da Bacon a artisti contemporanei, con i quali Lorena Preta è in dialogo creativo e appassionato, in grado di alimentare uno strumentario psicoanalitico suggestivo, mai museificato, anzi. Ma evitando scivoloni ingenui o ‘di mercato’ in apparati espositivi e linguistici semplificati, banalizzanti un pensiero – quello psicoanalitico – che non può rinunciare, per restare tale, per restare la peste di cui parlava Freud nel 1909 nel suo viaggio verso gli Stati Uniti, alla complessità.

Per concludere, lo stile: evocativo, suggestivo, ai confini tra la materialità delle cose e l’immaginazione speculativa di matrice bioniana: L’umanità in un battito di ciglia (il primo capitolo), Allevamento di polvere (il quinto), Frammenti di un discorso luttuoso (l’ottavo).
Uno stile che contribuisce, non poco, alla piacevolezza anche sensoriale della lettura.

Daniela Scotto Di Fasano
Bibliografia

Chasseguet Smirgel, 2002, Prefazione, in Quinodoz D., 2002, Le parole che toccano, Borla, Roma, 2004.
Karelli Z., 1955, La nave, in Dalmàti Margherita, Lirici greci contemporanei, Scheiviller, Milano, 1965
Preta L., 1993, a cura di, La passione del conoscere, Laterza, Roma-Bari
Ritsos G., 1969, La parola, in Pietre Ripetizioni Sbarre, Poesie 1968-1969, Feltrinelli, Milano, 1978.
Scotto di Fasano D., 2007, con al., Mentalizzare l’esperienza oltre l’ovvio dell’evidente. Ovvero, crescere come professionisti, come genitori, come formatori, (con al.), in Cresti L., Nissim S., Percorsi di crescita: dagli occhi alla mente, Borla, Roma, 2007

Note

(1) Come recita il verso di Gertrude Stein, che lo scrisse nel 1913 nel poema Sacred Emily.
(2) Profondamente bioniano…
(3) Con Giulio Giorello e Anna Ferruta, presente l’Autrice.
(4) Questa, potremmo dire, la vera brutalità: quella di un pensiero che rinuncia ad essere pensiero.

Settembre 2015

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