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Pulsione e fantasia. A cura di Franca Munari e Francesco Pozzi (2015). Recensione di Anna Ferruta

29/06/15

A cura di Franca Munari e Francesco Pozzi (2015)

Pulsione e fantasia 

Antigone Edizioni

Presentazione di Anna Ferruta

Nell’Istituto Nazionale del Training della Società Psicoanalitica Italiana da alcuni anni è in corso un processo di rinnovamento dei contenuti e dei modi di trasmissione della psicoanalisi.

Tale rinnovamento è richiesto sia dal cambiamento delle caratteristiche degli analisti in formazione, sia dagli sviluppi della psicoanalisi. Per quanto riguarda gli analisti in formazione, i professionisti che chiedono di intraprendere un percorso di formazione psicoanalitica spesso possiedono già conoscenze generali sulle principali teorie relative al funzionamento psichico, mentre spesso mancano di un’ampia esperienza clinica di qualità analitica. L’esperienza clinica più significativa che conoscono è la propria analisi personale.

Gli sviluppi della psicoanalisi dopo Freud hanno ampliato le conoscenze relative all’interazione tra due menti nella relazione analitica e alla possibilità di comprendere la qualità e profondità dei fattori terapeutici che si attivano in questo continuo passaggio di comunicazioni tra inconsci nel setting analitico. Il campo analitico si è progressivamente rivelato un contesto particolarmente significativo per descrivere quanto avviene non solo nello scambio tra analista e paziente ma anche tra supervisionato e supervisore e nei gruppi clinici di formazione.

Questi cambiamenti hanno posto molti interrogativi su quali possono essere le modalità più valide per trasmettere la psicoanalisi. Una richiesta che spesso viene dagli analisti in formazione riguarda la necessità di una partecipazione attiva ai seminari di insegnamento e l’esigenza di sperimentare un legame creativo fra teoria e clinica.

L’iniziativa realizzata dalla Sezione Veneto-emiliana dell’Istituto Nazionale del Training affronta la prima questione. Gli analisti in formazione diventano docenti e fanno loro lezione, in una specie di role playing, di capovolgimento dei ruoli. Il risultato del loro lavoro, serio e accurato, è riportato in questo volume. Sarebbe interessante avere anche un resoconto dell’integrazione con i docenti, per verificare la dialettica attivata da tale inversione e quindi la possibilità di riprodurre tale modalità di apprendimento anche in altri contesti. Infatti una specificità del metodo è costituita dal fatto che nel campo psicoanalitico ogni apprendimento è trasformativo, di tutti i soggetti che vi sono implicati: non si tratta di applicare uno schema conoscitivo o un altro, ma di attivare un’esperienza che mette in gioco l’ascolto, le emozioni, le fantasie, le costruzioni di tutti i soggetti partecipi.

Come osservano Stefania Turillazzi Manfredi e Luciana Nissim Momigliano nel loro scritto ancora attuale Il supervisore al lavoro (“Rivista di Psicoanalisi”, N. 4, pp. 587-607, 1984), “ogni vero apprendimento è terapeutico e trasformativo” (590), in quanto in psicoanalisi si realizza all’interno di una relazione che è insieme conoscitiva ed emozionale, che nasce dalla partecipazione in prima persona a un processo di cura della sofferenza psichica.

Per quanto riguarda la separazione tra clinica e teoria, l’Introduzione di Franca Munari vi fa riferimento, osservando che gli analisti in formazione si sentono più competenti a scrivere di clinica che di teoria. Ritengo che sulla declinazione rigorosa e creativa del nesso tra clinica e teoria ci aspetti un grande lavoro scientifico. Cura e conoscenza sono state un nesso fondamentale che ha segnato l’origine e la specificità della psicoanalisi, a cominciare dai casi di Anna O. e dell’uomo dei lupi.

Dobbiamo continuare a lavorare su questo nesso imprescindibile, senza lasciarci sedurre dalla “coerenza” delle costruzioni astratte o dalla “autorità” della clinica.

È un lavoro appassionante al quale l’insegnamento con gli analisti in formazione può dare molti stimoli utili, perché mette in circolo un elemento fondamentale del lavoro analitico, sia con i pazienti sia con i colleghi: il piacere. Lo ricordava Freud stesso, nel Poscritto del 1927 a L’analisi condotta da non medici (419, 422):

“Negli anni della giovinezza divenne predominante, in me, l’esigenza di capire qualcosa degli enigmi del mondo che ci circonda e di contribuire magari in qualche modo a risolverli (…) Nella psicoanalisi è esistito fin dall’inizio un legame molto stretto fra terapia e ricerca, dalla conoscenza è nato il successo terapeutico e, d’altra parte, ogni trattamento ci ha insegnato qualcosa di nuovo; parimenti ogni nuovo elemento conoscitivo è stato accompagnato dall’esperienza dei benefici effetti che da esso potevano derivare.

Il nostro procedimento analitico è l’unico a conservare gelosamente questa preziosa coincidenza. Soltanto se esercitiamo nella pratica la nostra cura d’anime analitica, riusciamo ad approfondire le conoscenze sulla vita psichica umana balenateci appena. Tale prospettiva di un tornaconto scientifico è stato il tratto più eminente e più lieto del lavoro analitico”.

E questo credo sia stato il guadagno più importante che gli analisti in formazione hanno tratto da questo impegnativo lavoro nel quale si sono cimentati: il piacere di lavorare in gruppo e di apprendere che solo l’ascolto dell’altro genera benessere e conoscenza.

Giugno 2015

 

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