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Sadomasochismo – Recensione di Chiara Catellan

12/01/09

L’Autrice ci presenta dei personaggi vivi, che provengono dalla cronaca, dalla letteratura, dal cinema o dalla stanza d’analisi, in modo che possiamo osservarli ma guardare anche oltre e altrove. Essi ci aprono un mondo inaccessibile altrimenti, senza stimolare curiosità morbose, testimoni come sono di una realtà che appartiene alla nostra complessità di esseri umani.

Pur trattando questo argomento difficile il libro ha il dono della leggerezza.

Calvino nelle Lezioni Americane descrive la “leggerezza della pensosità” con l’immagine di Guido Cavalcanti che spicca un salto sopra il muretto di un cimitero. Cavalcanti ‘si solleva’ sulla pesantezza perchè in contatto con i mali del mondo e con la nostra caducità. A questo ‘salto’ mi ha rimandata il libro di Estela Welldon che si legge d’un fiato pur contenendo la pluridecennale esperienza dell’autrice con i casi più gravi ed estremi, dei quali lascia tracce lievi e qualche sorriso.

Uno dei meriti del libro è un capovolgimento di prospettiva che si rivela fondamentale per la comprensione. Trattare il sadomasochismo diventa anche un modo per arrivare a toccare tanti temi ognuno centrale per noi analisti: il complicato rapporto tra piacere e dolore, dolore fisico/dolore psichico, trauma subito/dolore inflitto, attività /passività, maschile/femminile nel perpetuarsi attraverso le generazioni, di opposti scissi non integrabili.

Per comprendere, non dobbiamo a nostra volta (specularmente) scindere i bisogni dell’uno e dell’altro i protagonisti del patto. La comprensione deve procedere attraverso l’associazione di opposti che ci permette di vedere il lupo dietro l’agnello, il bambino che piange dietro l’adulto violento. La cmprensione è talvolta facilitata dalla situazione di gruppo, come ha mostrato Estela Welldon aprendo con coraggio una finestra di cura anche in situazioni considerate incurabili.

E’ solo in una prospettiva transgenerazionale, alla luce di una riflessione su indifferenziazione/separatezza e sulla difficoltà di fare il lavoro del lutto, che possiamo comprendere il ‘bisogno di far male al proprio figlio’ non potendolo differenziare come ‘altro da sé’ o investire affettivamente come un nuovo bambino, ‘altro’ dal ‘sè bambino’che è morto (nel caso di morte di un precedente figlio). Questo ci allerta sulla necessità di portare aiuto in certe gravidanze prima ancora che nei primi mesi di vita quando la depressione cronica, anche mascherata, radicata nel dolore negato per un antico rifiuto, può condurre alla ricerca del rischio per sè e per il ‘non altro da sé’.

Uno dei temi centrali del libro riguarda la ricerca del dolore come tentativo di restituire integrità al sé di fronte alla paura di dissoluzione. Siamo nell’area più primitiva dello sviluppo ed è a questi livello che l’ambiente è diventato molto importante, toccando le radici dell’essere. La minaccia è stata rivolta al senso di esistere, siamo di fronte a disperati tentativi di controllare la paura di annientamento. Soffrire diventa un modo di ‘essere’ necessario, il dolore un argine irrinunciabile. Il tentativo di trasformare oggetti animati in oggetti inanimati può rendere illusoriamente affidabile e controllabile ciò che per questi pazienti non lo è mai stato, perché la comune fallibilità, imperfezione e caducità umana si sono definitivamente trasformate in inaffidabilità.

Il merito forse più grande del libro è di lasciarci il ricordo, più che degli orrori perpetrati dall’adulto, del bambino violato, della sua disperata difesa nel deserto di relazioni umane, del disperato tentativo di abbracciarsi al proprio corpo, nell’indisponibilità di quello dell’altro. Un abbraccio che diviene mortifero quando il dolore fisico è sessualizzato evocando ancora in noi la negativa dell’atrocità dell’assenza: il calore, le cure materne, il gioco condiviso, la tenerezza normalmente presenti.. Anche il compulsivo bisogno di esibirsi di fronte ad un pubblico sembra illusoriamente ripagare dell’antica assenza di attenzione.

Estela Welldon non tralascia di porre un problema centrale per la terapia: quanto sintonico e normale viene sentito questo comportamento? quanto chiuso è quel mondo? quanto ignara è la persona dei collegamenti tra ciò che ha subito e ciò che infligge a se o agli altri? alla base di tutti gli agiti c’è una negazione più o meno radicale ma sempre presente, del mondo interno e dell’inconscio, non a caso uno dei capitoli si intitola: “Un tentativo di capire il ‘non pensabile’”. Il libro pone un interrogativo che ci accompagna dopo la lettura: se, e fino a che punto, tutto ciò possa essere trasformato in materiale psichico attraverso un recupero della sofferenza emotiva in una lunga avventura terapeutica nella quale il trauma originario potrebbe diventare accessibile ed essere condiviso. 

Italo Calvino: Lezioni Americane Oscar Mondadori 1993 

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